maggio 2021 | redazione |
Donbass | |
Dal fronte del Donbass
Questi sono i difensori del Donbass morti nell'aprile 2021 Corrispondenza di guerra dal Donbass
a cura di V. Surkov e E. Vigna
La cronaca di guerra e di morte nell’aprile 2021 nel Donbass è tra le più alte degli ultimi anni. Le Repubbliche Popolari si sono preparate ad una offensiva decisiva al fronte. Filmati del movimento di colonne militari rilevati dai Servizi di sicurezza della RPD fornite anche ai media, non lasciano dubbi sul fatto che la tensione sta crescendo e questo è confermato dalle fonti ufficiali della Repubblica.
All'improvviso in aprile l'esercito ucraino ha cominciato a portare convogli ferroviari con carri armati su postazioni più vicine alla linea del fronte e lasciate sotto il comando di quei Battaglioni che hanno obiettivi precisi nel creare un'atmosfera revanscista e provocatoria.
I presidenti delle principali potenze mondiali hanno preso frettolosamente i telefoni e decantato in coro che non vogliono la guerra, accusando ancora una volta la Russia di un qualche tipo di aggressione che non è chiara a nessuno e non è tangibile a nessuno. La Russia ha semplicemente mostrato a tutti, quanto velocemente e chiaramente può trasferire le navi delle flotte del Caspio e del Nord nel Mar Nero. Ha dimostrato quanto siano mobili e rapide le unità militari operative dei vari distretti militari, spiegando al mondo intero che sul suo territorio si stanno svolgendo esercitazioni militari.
Andrebbe tutto bene se l'escalation da tutte le parti non avvenisse concretamente ai confini delle Repubbliche del Donbass, dove è un fatto storico… la guerra di liberazione popolare contro l'ucronazismo e il terrorismo non finirà mai.
Un bambino di 5 anni è stato ucciso da un drone. Un uomo nato nel 1962 è stato ucciso da una scheggia di bomba nel suo appartamento. Il bombardamento degli insediamenti in prima linea sta diventando sempre più forte: ci sono civili feriti da schegge, distruzione di edifici continua. Tutti i media hanno improvvisamente iniziato a parlare ad alta voce del Donbass, di cui avevano preferito tacere fino ad ora. Qualcosa è sfondato come "un punteruolo fuori da un sacco"?
I difensori più leali e fedeli del Donbass non cessano di morire in questa guerra senza fine. Secondo i dati pubblicati dal “Memoriale degli Eroi di RPD e RPL", solo nei primi 23 giorni di aprile sono morti:
Igor Balyuk - 1 aprile; Yuri Semenyuk - 2 aprile; il soprannominato "Yar" - 3 aprile; Andrey Spichak - 5 aprile; Oleg Pichugin - 8 aprile; Alexey Karyagin - 12 aprile; Alexander Maryin - 20 aprile; Ruslan Kondyukov - 20 aprile; Maxim Google, - 22 aprile; Vitaliy Belik, "Lom" - 23 aprile ...
Quindi, dopo tante parole “cinguettate” … conseguenze per la pace... nulla!
Tutto è stato rimesso in quello stato di quella solita incertezza e angoscia, di cui gli abitanti del Donbass - che hanno una ormai consolidata pazienza - ma che, se ancora non è esaurita, è sicuramente arrivata al limite estremo.
Si dice che le false intenzioni e promesse siano peggio di un colpo esploso. Ecco cosa scrivono da noi le persone al riguardo, nei loro commenti sul web: “ … Un colpo è più onesto, è una sfida diretta. La menzogna provoca sgomento come prima reazione e, indipendentemente dalla seconda, umilia in modo rilevante…”.
“… Perché dà una prospettiva indecifrata e ciò che accadrà dopo è imprevedibile. Ed è proprio l'ignoto che spaventa di più…”. “… Perché è enormemente orribile e non si sa cosa aspettarsi…”. “… È meglio combattere una volta che litigare per tutta la vita…”. “… Quando ti colpiscono improvvisamente c'è una sensazione di paura ... ma poi il colpo successivo non sarà più inaspettato ... e il colpo in sé non è importante e solo il dolore può rimanere dal colpo ... ma il dolore passa, ma la paura e l’angoscia rimangono e non sai cosa aspettarti poi, perché sei in uno stato di aspettativa ignota ... “. “È meglio ricevere anche più di un colpo, ma direttamente, piuttosto che vivere nella paura. Vivere sotto una continua minaccia non riconoscibile, è molto più difficile che ricevere colpi o minacce esplicite…”.
Questa è la “condizione umana” della vita quotidiana del popolo del Donbass.
maggio 2021 |
aprile 2021 | archivio |
Ucraina | |
Ucraina: la “necropoli virtuale” dei collaborazionisti nazisti
Moss Robeson, a cura di Enrico Vigna
In questo articolo di un autorevole portale storico è documentato cosa hanno fatto dell’Ucraina i suoi “liberatori”, sostenuti, finanziati e armati dalle potenze occidentali, in nome della democrazia e della libertà, attraverso la rivolta del “Maidan”. Sbandierata come “rivoluzione colorata”, anche in Italia vezzeggiata e applaudita dai politici di ogni colore. Occorrerebbe sottoporre queste documentazioni a tutti coloro che in nome di un presunto “antifascismo”, celebrano i nostri eroi partigiani facendosi paladini dei valori per cui questi hanno dato le loro vite, ma poi a livello internazionale sono schierati e accomunati , in Ucraina come in Donbass, in Bielorussia come in Serbia, in Siria come in Libia, a Cuba come in Nicaragua ecc., alle politiche che hanno promosso e sostengono queste infamie, come processi di “liberazione” e democratici.
La domanda semplice da porre è, se costoro sono semplicemente ipocriti e quindi organici alle politiche e ai progetti atlantici, o se sono solo sprovveduti coadiutori del padrone USA e NATO, ma pur sempre oggettivamente complici. E.V. SOS UcrainaResistente”/CIVG
…Per chi dice che non ne sa nulla…!
In occasione della Giornata internazionale della memoria dell'Olocausto di quest'anno, The Forward ha pubblicato una scioccante raccolta di articoli di Lev Golinkin, un collaboratore di Defending History, chiamata "Nazi Collaborator Monument Project". Essendo l’indagine più completa di tali monumenti in tutto il mondo, dovrebbe essere un elemento stimolatore per una resa dei conti internazionale con la continua glorificazione degli autori dell'olocausto nel 21° secolo.
Meno di una settimana prima, il giornalista del Jerusalem Post Jeremy Sharon, ha fatto luce su un tipo di progetto molto insolito dopo aver esplorato un cimitero digitale costruito dall'Istituto ucraino di memoria nazionale (UINP). Lanciata nel novembre 2020 per gli ucraini sepolti all'estero, la "Necropoli virtuale dell'emigrazione ucraina" è tutt'altro che completa, ma è già piena di collaboratori nazisti, tra cui "alti funzionari di unità ausiliarie di polizia" che hanno massacrato la popolazione ucraina ed ebrei.
"Il progetto [UINP] chiede agli ucraini di tutto il mondo di aggiungere elementi al suo database", ha informato a dicembre la filiale del Saskatchewan del Congresso ucraino canadese. Su Facebook c'è infatti una più antica “Necropoli ucraina in Canada”, creata nel 2015, che potrebbe aver ispirato l'UINP (le immagini del progetto canadese delle lapidi dei collaboratori nazisti possono essere trovate nella "necropoli virtuale" dell'UINP). Nella parte superiore della pagina Facebook canadese c'è una foto di un controverso cenotafio a Oakville, Ontario che commemora i veterani ucraini delle Waffen-SS sepolti lì.
Lev Golinkin ha scritto un articolo sui monumenti nazionalisti ucraini del Canada la scorsa estate, dopo che il cenotafio è diventata una notizia internazionale.
L'articolo del Jerusalem Post diceva poco sul coordinatore del progetto UINP Pavlo Podobed. Egli è indicato come il "marito antisemita" di Olena Podobed-Frankivska, che è la direttrice delle politiche giovanili presso l'Ucraina Rianimation Package of Reforms Coalition finanziato dall'USAID.
I Podobed sono entrambi membri della filiale di Kiev dell'Associazione giovanile ucraina internazionale (CYM). Dalla sua fondazione nel 1946, la CYM ha servito come ala giovanile dell'Organizzazione clandestina dei nazionalisti ucraini-Bandera (OUN-B), che aveva collaborato con la Germania nazista durante la seconda guerra mondiale e ha collaborato con gli estremisti di estrema destra nell'Ucraina del XXI secolo.
Come spiegato nel suddetto articolo l'OUN-B ha praticamente fatto suo l'UINP, durante la presidenza di Petro Poroshenko (2014-19) tramite il "Center for Research of the Liberation Movement" di Lviv, una sezione dell’OUN-B per cui lavorava Olena Podobed-Frankivska. Pavlo Podobed è il capo del Dipartimento per la conservazione dei luoghi della memoria dell'UINP. Come riportato da Newsweek nel 2017, da quando ha ottenuto il lavoro, ha "accusato gli ebrei di essere i principali autori dei crimini sovietici contro gli ucraini negli anni '20 e '30".
Pavlo Podobed è contemporaneamente il presidente del consiglio di amministrazione della Heroyika Charitable Foundation, con sede a Kiev e Toronto, che ha collaborato con l'UINP sul progetto "necropoli virtuale". Heroyika si occupa principalmente della costruzione e del restauro di monumenti e memoriali in Ucraina, dedicati ai veterani anti-sovietici delle guerre mondiali, sebbene ovviamente sono stati centinaia di migliaia gli ucraini che si unirono all'Armata Rossa, rispetto all'Organizzazione dei nazionalisti ucraini o alle Waffen-SS. Heroyika ha anche fornito decine di migliaia di dollari di equipaggiamenti al Battaglione neonazista "Azov", compresi i mirini per i cecchini e almeno quattro veicoli.
Tre anni dopo aver fondato la Heroyika Charitable Foundation nel 2010, Podobed è stato eletto capo del CYM a Kiev. Nell'ottobre 2014, Podobed ha sostenuto “Pravy Sector” forza neonazista alle elezioni parlamentari ucraine. Nell'ottobre 2015 è diventato un dipendente di alto livello UINP .
Pavlo Podobed ha anche trascorso diversi mesi negli Stati Uniti nel 2017. Nella primavera è apparso a un evento pubblico insieme a Volodymyr Parasiuk, un nazionalista di estrema destra notoriamente violento ed ex membro di OUN a Chicago.
Il 21 febbraio 2014, dopo il giorno più sanguinoso della cosiddetta "Rivoluzione della Dignità" in Ucraina, Parasiuk aveva tenuto un discorso sulla Piazza dell'Indipendenza di Kiev minacciando un colpo di stato e un bagno di sangue, ed è opinione diffusa che sia stato uno dei motivi che abbiano spinto il presidente Viktor Yanukovich a lasciare il paese. A quel tempo Parasiuk era un comandante speciale di compagnia di una milizia neonazista, che, secondo il politologo Ivan Katchanovski "i suoi cecchini hanno sparato alla polizia dall'edificio del Conservatorio di musica [a Kiev] e poi sia alla polizia che ai manifestanti dell'hotel Ukraine".
Parasiuk e Podobed hanno parlato all'evento di Chicago, quasi tre anni dopo che Katchanovski aveva pubblicato per la prima volta la sua ricerca esplosiva sul "Massacro dei cecchini". Sei mesi dopo Podobed ha parlato a Washington ad una conferenza di storia militare, organizzata dal Center for US-Ukrainian Relations, un'organizzazione piuttosto oscura ma influente, associata all'OUN-B. Ha anche partecipato a una tavola rotonda moderata da Lubomyr Hajda dell'Harvard Ukrainian Research Institute.
Nel 2019, Podobed è apparso in diversi video del Prometheus Security Environment Research Center (PSERC) con sede a Kiev. Secondo il suo sito web, il Centro di ricerca è partner del governo canadese. Dalla fine del 2018, Poboded ha pubblicato tutti i suoi articoli sul sito web dell'organizzazione, tranne il più recente, dove ha annunciato che il PSERC ha firmato un accordo con l'UINP e altre entità, per creare un portale Internet sull'aggressione russa in Ucraina.
Il PSERC è presieduto da Mykola Balaban. In qualità di “visiting fellow” presso il prestigioso programma "L'Ucraina nel dialogo europeo", del prestigioso Istituto di scienze umane (IMW) con sede a Vienna, nel 2018-19 Balaban ha scritto un breve documento sulla violenza di massa accaduta a Leopoli nel giugno-luglio 1941, dalla parte dei nazisti. Nel frattempo, Podobed è apparso in due video del PSERC indossando una maglietta che glorifica il Battaglione Nachtigall, un'unità della Wehrmacht formata dall'OUN-B, entrata a Leopoli il 30 giugno 1941 insieme alle forze del Terzo Reich e più tardi nell'estate è diventata il Battaglione Schutzmannschaft 201. Entrambe le formazioni furono infine comandate dai tedeschi e parteciparono all'olocausto di Bullets nel 1941, l'anno stampato sulla maglietta di Podobed.
Un recente articolo di Jeremy Sharon sul Jerusalem Post, sembra aver infranto le speranze di alcuni osservatori ucraini preoccupati che la politica della memoria di estrema destra dell'UINP potesse essere significativamente ridotta da Anton Drobovych, il nuovo direttore dal dicembre 2019. "Immagino che Anton Drobovych non sia riuscito, o non ha provato, a smorzare la glorificazione dei collaboratori nazisti", ha twittato il giornalista Sam Sokol, che l'anno scorso aveva scritto un profilo ottimistico di Drobovich. In retrospettiva, tenendosi accanto persone come Pavlo Podobed, l'incapacità o impossibiltà di Drobovych di cambiare le cose, sembra inevitabile.
Da defendinghistory 30 gennaio 2021
|
maggio 2021 | redazione |
Vecchie e nuove nocività | |
Vecchie e nuove nocività
Il mito della scienza, della medicina, della giustizia è un grande inganno
Michele Michelino
In una società dove i ricchi diventano sempre più ricchi a scapito dei poveri, i governi usano la scienza e la cosiddetta comunità scientifica per inebetire le classi sottomesse e renderle obbedienti al potere dominante.
Il mito della comunità scientifica è diventato una formula mistica, un ritornello moderno molto usato, non solo in ambito scientifico, giudiziario e giornalistico, ma anche tra la popolazione. Un esempio è dato dalla task force composta da un contingente multidisciplinare di esperti - scelti in collaborazione con il Ministero della Salute, l’Istituto Superiore di Sanità e l’Organizzazione Mondiale della Sanità - con il compito di supportare il Governo e gli altri pubblici decisori nella definizione di politiche di contenimento del contagio da Covid-19.
Sostenere l’idea che ci sia un organo di autorevoli scienziati che vigila sulla giustezza delle scoperte scientifiche serve a coprire, dietro l’autorevolezza della scienza, le scelte politiche ed economiche dei governi nell’interesse della classe al potere.
In una società divisa in classi sociali con i governi nelle mani dei rappresentati delle grandi multinazionali/transazionali, degli industriali, della finanza e delle banche, la presunta neutralità e pluralità della scienza è inesistente.
Nella società capitalista il profitto viene prima di tutto, prima della salute e della vita umana del proletariato e delle masse popolari. Da sempre le aziende che non rispettano le norme antinfortunistiche sulla sicurezza del lavoro e antinquinamento provocando migliaia di morti ogni anno fra lavoratori e cittadini, risparmiando anche sui costi dei dispositivi di protezione individuali e collettivi riescono a rimanere impuniti.
In caso di condanna, i padroni e i dirigenti che non rispettano neanche le leggi vigenti in materia di sicurezza sul lavoro e inquinamento fanno pressione sulla magistratura che già applica leggi a favore del capitale per ottenere l’impunità con la prescrizione o l’assoluzione piena.
Ostacolare, nascondere gli studi di scienziati indipendenti, senza conflitti d’interessi, sugli inquinanti e cancerogeni è da sempre stato l’obiettivo dei padroni delle industrie multinazionali e della società capitalista/imperialista.
La storia dell’amianto
L'amianto e le fibre da cui è composto, come altri cancerogeni, uccidono. È un killer che non perdona ed è direttamente collegato all'insorgenza del mesotelioma della pleura e del peritoneo e di altri tipi di cancro fra i quali al polmone e alle vie respiratorie. La vicenda dell’amianto che produce migliaia di morti ogni anno è sintomatica. Gli studi sulla sua pericolosità risalgono a primi anni del 1900 quando in Gran Bretagna furono approvate le prime leggi che prevedevano il monitoraggio della salute dei lavoratori e i risarcimenti per chi si ammalava.
Nel 1906, a Torino, la proprietà della British Asbestos Company che lavorava amianto a Nole Canavese, denunciò per diffamazione il direttore e il gerente di un foglio locale, il “Progresso del Canavese”, ritenendosi danneggiata da una corrispondenza del giornale locale del piccolo Comune di campagna alla fine di uno sciopero degli operai che protestavano contro un aggravamento delle condizioni di lavoro. Il giornale scriveva, «… che l’industria dell’amianto fa annualmente un numero incredibile di vittime e che dalle tavole necrologiche di quel comune appare che con triste frequenza operai e operaie dell’amianto muoiono per tisi, anemia o gastro-enteriti».
Il giudice, dopo l’acquisizione di autorevoli pareri scientifici, arrivò alla conclusione che non vi era alcuna diffamazione nella descrizione dei fatti resa dal giornale canavese, mandando assolti i giornalisti.
Solo pochi anni fa alcuni dirigenti della Bender e Martiny di Ciriè (TO) che avevano sostenuto in un processo di non essere a conoscenza degli effetti dell’amianto fino a epoca recente, furono sbugiardati direttamente dal Pubblico Ministero. Il Sostituto Procuratore aggiunto del Tribunale di Torino, Raffaele Guariniello, presentò in aula una sentenza del 1906 (del Regio Tribunale) a carico dei dirigenti dell’epoca della Bender e Marty, che illustrava dettagliatamente l’estrema pericolosità di questo minerale.
Nel 1930 Merewether e Price, su incarico del governo britannico, pubblicano uno studio epidemiologico secondo il quale il 66% dei lavoratori esposti all’amianto per 20 anni soffre di asbestosi. Lo studio non tiene conto dei soggetti che hanno smesso di lavorare perché gravemente malati e di quelli deceduti.
Nel 1955 esce - a dispetto dei ricatti delle industrie Tuener e dei tentativi di impedire la pubblicazione - lo studio di Richard Doll sui lavoratori della Turner nel distretto di Rochdale che dimostra che “chi lavora a contatto con l’amianto per 20 anni rischia il cancro dieci volte di più rispetto alla media generale”.
Negli anni '60 il primo a dimostrare che l'amianto uccide è stato lo scienziato statunitense Irving Selikoff che ha fondato nel 1966 la divisione ospedaliera in Usa dedicata ai tumori ai polmoni presso il Mount Sinai Hospital di Manhattan, evidenziò che le persone che lavoravano a contatto con l'asbesto anche per un periodo breve riportavano segni a livello polmonare fino a 30 anni dopo. Dopo 50 anni di studi il legame tra amianto e cancro fu provato oltre ogni dubbio. Irving Selikoff, pioniere nel settore della Medicina del lavoro con i suoi studi aprì la via alle prime cause legali per malattie attribuite all'esposizione a questo materiale che per anni è stato estratto dalle cave e miniere e impiegato per proteggere le case dal calore, isolare caldaie, costruire i freni delle auto, potenziare vernici e molto altro.
Nel 1970, dopo lo sviluppo di un movimento di lotta dei lavoratori esposti all’asbesto, l'Occupational Safety and Health Administration impose limiti di esposizione per i lavoratori e nel 1989 l'Environmental Protection Administration emanò nuove norme per il graduale arresto della produzione di prodotti con asbesto.
Nel 1976, il 17 novembre, i padroni dell’amianto, la “Camera Sindacale dell’Amianto” e il “Sindacato dell’Amianto-Cemento” comprarono intere pagine dei maggiori quotidiani, francesi e di altri paesi, facendo scrivere dai loro “scienziati” una pubblicità dal titolo “a proposito dell’amianto” in cui negavano la pericolosità e la cancerogenicità dell’amianto (vedi la pagina 8, di Le Monde, 17 nov. 1976).
Nel 1986 l’Agenzia internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul cancro (Iarc) dichiara che tutti i tipi di amianto sono cancerogeni e, pertanto, non esiste soglia di sicurezza per chi vi si espone.
Nel 1992, con la legge 257/92, l’amianto dopo dure lotte dei lavoratori fu messo al bando anche in Italia. Fino all'approvazione della legge i lavoratori dell’Eternit di Casale Monferrato e altre fabbriche organizzarono scioperi e un presidio a oltranza in Piazza Montecitorio.
L’amianto è una strage dimenticata dai governi e caduta nell’oblio che continua a uccidere ancora oggi migliaia i lavoratori, ex lavoratori e cittadini. Secondo gli studiosi tra il 2020-24 sono attesi in Italia altri 7.000 decessi per mesotelioma e ricordiamo per esperienza che i tumori d’amianto riconosciuti finora sono più di una decina.
Anche in questo caso la prevenzione sarebbe semplice: basterebbe un piano nazionale di rimozione delle 40 milioni di ton. di amianto presenti in Italia a partire dai 400mila manufatti di amianto di scuole, ospedali, tubature, edifici pubblici. Questo sì che sarebbe una grande opera utile alla popolazione!
Ma si sa che chi fa profitti sulla pelle dei lavoratori e della popolazione pensa ad altro e per il dio denaro si trova sempre chi è disposto a travisare la realtà a favore degli assassini. Lo vediamo ancora oggi nei Tribunali dove per le vittime del lavoro, del profitto, e dell’amianto l’ingiustizia continua.
Che le industrie capitaliste finanzino studi di parte e nascondano, per ragioni di profitto, i danni che certe sostanze nocive usate nelle lavorazioni provocano a lavoratori e cittadini è ormai risaputo.
Morti per cloruro di vinile monomero
Interessante, è rilevare come durante il processo Montedison a Porto Marghera sugli omicidi dei lavoratori morti per cloruro di vinile monomero e sui crimini ambientali della laguna di Venezia iniziato il 13 marzo 1998, l’azienda nascose i dati sulla cancerogenicità e la relazione tra angiosarcoma e cloruro di vinile già dimostrata da studi condotti dalle stesse aziende chimiche produttrici e tenuta segreta senza avvisare i lavoratori e senza prendere nessun provvedimento per la salute.
Le gravi conseguenze dell’esposizione al CVM, ipotizzate per la prima volta nel 1969 al Congresso Internazionale di Medicina del Lavoro di Tokio da un medico della Solvay, Pierluigi Viola, furono definitivamente confermate in Italia a seguito di un’indagine epidemiologica commissionata da Montedison all’Università di Milano, condotta nel 1971 dal prof. Cesare Maltoni negli stabilimenti di Brindisi, Marghera, Terni e colpevolmente nascoste per non intaccare i profitti della multinazionale.
Non c’è da stupirsi che il capo redattore della rivista scientifica Lancet (una delle più autorevoli) abbia dichiarato recentemente che “…gran parte della letteratura scientifica, forse la metà, può semplicemente essere falsa”.
Tutti i settori importanti dal punto di vista politico o economico, tutti i monopoli capitalisti/imperialisti cercano di occupare una posizione di potere in seno a governi, istituzioni, in determinati ambienti sociali o culturali per far prevalere la loro volontà e i loro interessi, finanziando le campagne elettorali dei politici e alcune ONLUS a loro favorevoli.
La ricerca indipendente è strozzata, la stragrande maggioranza delle ricerche è finanziata da aziende private, sia per quanto riguarda l’attendibilità dei risultati, sia perché la ricerca è indirizzata a ottenere risultati spendibili sul mercato, non socialmente utili. Ad esempio lo stimolo può essere verso ricerche che portino a nuovi prodotti medici riguardanti patologie che statisticamente colpiscono pazienti con alto reddito oppure ricerche su temi che possano distrarre dai potenziali rischi di altri prodotti già in commercio.
Quando si parla di scienza, sia fatta da uno scienziato, sia da un non addetto ai lavori, si ha sempre l’idea di parlare di qualcosa che non ha a che fare con la fallibilità umana, col conflitto d’interessi, con l’economia, con l’egemonia, con il capitalismo, con l’utilitarismo, con la produttività ecc. Questo è il grande errore. È come se pensassimo che, siccome il sistema giuridico si basa sul concetto de “la legge è uguale per tutti”, la magistratura e tutto il sistema giuridico fossero esenti da corruzione, errori, impedimenti, pressioni di potere.
Nel capitalismo, la scienza, la medicina, le leggi i governi e le istituzioni sono espressione delle dinamiche economiche capitaliste, industriali, produttivistiche, politiche e militari. Sono al loro servizio, sostengono i loro interessi e le decisioni ricevendo in cambio lauti compensi.
Oggi padroni e governi giustificano il peggioramento costante delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari in tutti i paesi, prendendo a pretesto l’allungamento della vita media della popolazione. Dimenticano, o meglio, nascondono la realtà che nella società in cui ci sono ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori ci si ammala e si muore più giovani fra la classe proletaria.
In una società divisa in classi dove il potere è in mano ai capitalisti il cui unico scopo è la realizzazione del massimo profitto, la scienza e la medicina non sono neutre, ma al servizio della classe dominante.
Il comando capitalistico nei luoghi di lavoro e nella società fa sì che la scienza, la tecnologia, la medicina scientifica o pratica, quella privata o pubblica, ospedaliera o territoriale non è al servizio del progresso di tutte le classi sociali, ma è funzionale alle esigenze del capitale, al di là delle forme e dell’assistenza che fornisce e che comunque paghiamo.
Per tumori o cancro del polmone, della laringe, della faringe, dell’intestino, dello stomaco, dell’utero, del seno e di tanti altri che colpiscono varie parti del corpo umano, è ormai ampiamente studiato e documentato che esiste una frequenza più alta di ammalati e morti nel proletariato, nelle classi più povere che in quelle più ricche.
Oggi in piena pandemia di Covid 19 la situazione per le masse popolari si è ulteriormente aggravata.
Con la trasformazione degli ospedali in reparti covid, le terapie intensive e i pronto soccorsi intasati dai contagiati, una persona giovane, e ancor più se anziana ma senza patologie, rischia di morire per una semplice polmonite non da covid o altre malattie curabili. Ci sono decine di migliaia di ammalati oncologici, di patologie respiratorie, di cancro rimasti senza cure. A molti sono state sospese addirittura chemio e radioterapie, mentre la maggioranza della popolazione ha ormai rinunciato a curarsi, a fare le visite di controllo o andare dal medico. Le conseguenze comporteranno nei prossimi anni un aumento dei morti a causa delle mancate diagnosi precoci. Basterebbe poco a salvare vite umane se la sanità e la medicina preventiva territoriale funzionassero.
Lo sfruttamento sempre più intensivo degli esseri umani e della natura, la distruzione e l'inquinamento di boschi, foreste, mari, laghi, l’urbanizzazione di massa, gli allevamenti intensivi alle porte delle metropoli e i sempre più vasti mercati di animali vivi dentro le megalopoli ha fatto stragi mondiali.
Oggi, e sempre più in futuro, accanto alle vecchie malattie tipiche della classe operaia e proletaria, quelle che da sempre affliggono le classi sfruttate, si generano nuove malattie su cui possono lucrare le industrie multinazionali del settore farmaceutico e affini a scapito della popolazione.
Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo impone anche ai medici e agli scienziati una scelta di campo. Nella lotta di classe si scontrano interessi antagonistici e due visioni del mondo e di società contrapposte, non è possibile rimanere neutrali: o si sta con gli sfruttati o con gli sfruttatori. |
marzo 2021 | redazione |
Gorbačëv e la fine dell'Unione Sovietica | |
Mikhail Gorbačëv e la fine dell'Unione Sovietica
Gorbačëv è stata la pedina finale e vincente; ma il gioco era però cominciato molto prima e aveva visto sommarsi scelte economiche e politiche interne, a fattori che, muovendo dall'esterno, avevano sicuri interlocutori nei più alti apparati partitici e statali sovietici
Fabrizio Poggi
Nel marzo scorso i media hanno fatto un gran baccano per il 90° compleanno di Mikhail Gorbačëv, il cui più grande “successo”, come ha scritto il PCU di Russia, è stato la distruzione dell'URSS. Detta così, sembra di fare eccessivo onore all'individuo cui, nella seconda metà degli anni '80 del secolo scorso, tutte le cancellerie occidentali facevano a gara a stringere la mano. Certo, Gorbačëv è stata la pedina finale e vincente; ma il gioco era però cominciato molto prima e aveva visto sommarsi scelte economiche e politiche interne, a fattori che, muovendo dall'esterno, avevano sicuri interlocutori nei più alti apparati partitici e statali sovietici: oggi, parte della pubblicistica comunista russa punta il dito anche su un nome apparentemente insospettabile, quale l'ex capo del KGB e poi Segretario generale del PCUS, Jurij Andropov. Ed è così che, ad esempio, uno storico di sinistra come Evgenij Spitsyn, giudica Gorbačëv «né uno stupido, né un traditore», ma uno dei soggetti che rispecchiavano la linea generale del PCUS dell'epoca post-brežneviana, dettata da quelli che Leonid Brežnev definiva «i miei social-democratici» che se la intendevano con l'euro-comunismo. Se Gorbačëv può dirsi “stupido”, è per «esser caduto, insieme a buona parte della leadership sovietica, nel gioco propagandistico occidentale»; ma, appunto, non era l'unico. Tant'è che la sua stessa nomina fu concordata tra quella vecchia volpe di Andrej Gromyko e l'allora vice Presidente USA (Presidente era Ronald Reagan) George Bush senjor, complici i vertici del KGB. Resta comunque il fatto che poi Gorbačëv ha più volte ribadito che il suo obiettivo era proprio la liquidazione del socialismo.
E i risultati più appariscenti degli aleatori “nuovo pensiero” e “casa comune europea”, accompagnati molto prosaicamente dall'eliminazione del monopolio statale sul commercio estero e dal fiorire di migliaia di “cooperative” - in realtà, imprese private a tutti gli effetti - si manifestarono immediatamente ed ebbero poi l'exploit con l'arrivo di Boris El'tsin: privatizzazioni selvagge (che continuano tutt'oggi), disoccupazione, riduzione del potenziale economico del 40%, conflitti inter-etnici con centinaia di migliaia di morti, con una mortalità “naturale” che in alcune regioni superava di 2 volte la natalità, “grazie” alle terapie shock di Egor Gajdar e Anatolij Čubajs (il secondo, tuttora ai vertici del potere); e poi: migliaia di imprese semplicemente distrutte, per far posto all'importazione di merci straniere.
L'infanzia di Mikhail
Lo storico del KPRF, Vladislav Grosul, scriveva nel gennaio scorso sulla Pravda, di come, egli stesso, al primo apparire di Mikhail Gorbačëv, avesse accolto con favore gli slogan del nuovo Segretario generale su “Più socialismo!”, “accelerazione, glasnost” ecc. e come anche la maggioranza dei sovietici avesse manifestato lo stesso atteggiamento. Finché un bel giorno, ricorda Grosul, un giovane studente del suo corso non gli disse come chiamassero Mikhail Gorbačëv dalle sue parti, al sud: “Miška-busta”, nel senso che quando era dirigente a Stavropol intascava bustarelle dall'economia sommersa che già all'epoca si stava velocemente espandendo.
Grosul non è d'accordo con quanti sostengono che Gorbačëv, avendo avviato la perestrojka con forse “buone intenzioni”, avrebbe poi commesso una serie di errori che portarono alla distruzione dell'URSS: «Gorbačëv aveva sin dall'inizio l'obiettivo cosciente di liquidare il socialismo, il sistema sovietico. Pertanto la disintegrazione dell'URSS, come viene definita oggi ufficialmente, è una menzogna: non disintegrazione, bensì distruzione! Lassù, al vertice, a cominciare da Gorbačëv, si fece di tutto per quell'obiettivo». Così, nelle varie Repubbliche, si cominciarono a creare i cosiddetti “Fronti popolari” di stampo nazionalista-borghese e separatista: in Moldavia, Paesi baltici, Ucraina, Caucaso (a Tbilisi, ad esempio, all'epoca di Gorbačëv, lamentavano che proprio da Mosca arrivassero gli stimoli ad agitare il nazionalismo georgiano) e si «liquidò il ruolo dirigente del partito»; ma la cosa che «allora più mi sbalordì, fu quando venni a sapere che all'organizzazione di quei Fronti prendeva parte il KGB e ciò non poteva avvenire senza la mano di Gorbačëv».
L'Europa dell'Est
Ma anche altri passi di risonanza ed effetto internazionale vennero compiuti con l'intervento diretto del Politbjuro del PCUS, come quando Aleksandr Jakovlev, il cosiddetto “architetto della perestrojka”, impose all'Armenia di prendersi il Nagorno Karabakh; oppure la mano di Gorbačëv e del KGB nella rimozione di Todor Živkov e dietro l'uccisione di Nicolae Ceaușescu.
Ecco cosa diceva il penultimo Segretario generale della SED, Erich Honecker, nell'agosto 1992, quando i golpisti el'tsiniani lo avevano già consegnato alla Germania e qui incarcerato e messo sotto processo-farsa: «Hanno detto alla radio che Gorbačëv arriverà a Berlino per ricevere il titolo di cittadino onorario della città. Che doppia morale! L'ex Segretario generale del PCUS stretto al petto dalle stesse persone che imprigionano un altro Segretario generale. Spero che gli abitanti della capitale della DDR lo ringrazieranno adeguatamente per il suo tradimento. Per la distruzione delle imprese, la liquidazione dei posti di lavoro, la disoccupazione di massa... Avevo la nausea per la "casa comune europea" di Gorbačëv... gli applausi dell'Occidente gli erano più cari... Tutti i sostenitori della Guerra fredda, da Reagan a Bush, lo difendono. Evidentemente, Gorbačëv non si è nemmeno accorto di essersi trasformato in un mascalzone».
Ricordiamo le parole (vedi: nuova unità n.6/2019) dell'ex Presidente del Consiglio di Stato della DDR, Egon Krenz «Mi sono fidato di Gorbačëv troppo a lungo. Due settimane dopo il nostro incontro a Mosca dell'1 novembre 1989, lui, alle nostre spalle, chiedeva all'Occidente quanto fosse disposto a pagare perché l'URSS accettasse l'unità tedesca».
I piani della CIA
Ora, probabilmente non è nulla più che una pura ipotesi, quanto riportato da Grosul sulla base dei racconti di altri accademici, secondo cui il dodicenne Mikhail, fotografato su un carro armato tedesco, nel villaggio natale di Privol'noe occupato dalla Wehrmacht, potrebbe essere stato reclutato (era una pratica comune dei nazisti, ingaggiare giovanissimi russi per compiere azioni di disturbo contro l'Esercito Rosso, in cambio di cibo) e, quindi, “sensibilizzato” alle idee tedesche e poi alle mire occidentali contro l'URSS. Non sono però delle ipotesi, il discorso di Winston Churchill a Fulton nel marzo 1946 e, poi, i documenti della CIA, che testimoniano dei piani messi e punto contro l'Unione Sovietica, molto prima degli anni '80.
Ad esempio, il cosiddetto “Piano di utilizzo psicologico della morte di Stalin”, con cui gli USA pianificavano di minare URSS e blocco sovietico, era stato ultimato il 13 marzo 1953, con l'obiettivo di ottenere “reali progressi in direzione dei nostri interessi nazionali”, nel momento del passaggio di poteri in Unione Sovietica in “nuove mani”. Gli obiettivi fondamentali erano quelli di “ridurre forza e influenza dei Sovietici sui paesi satelliti, sulla Cina comunista e negli affari internazionali”, e attuare quindi “un cambiamento fondamentale della natura del sistema sovietico”. Con la morte di Stalin, “l'inevitabile necessità di trasferire il potere in nuove mani... crea un momento di crisi per l'Unione Sovietica e per il sistema sovietico nel suo insieme. Non dobbiamo lasciarci ingannare dall'apparente fluidità del passaggio di potere”.
I compiti erano quelli di “contribuire a: una divisione nelle alte sfere del regime, favorire la discordia tra Unione Sovietica, Cina comunista, paesi satelliti dell'Europa orientale, promuovere conflitti tra i principali leader o gruppi all'interno dell'Unione Sovietica”. Nei “confronti del mondo libero: sviluppare la fiducia nella leadership USA; distruggere la forza dei comunisti” nei paesi occidentali in cui si indeboliva la fiducia nella potenza USA.
Indicativo il paragrafo sulla “lotta psicologica” in cui si affermava che l'attività segreta dovrebbe “stimolare diserzioni tra i rappresentanti ufficiali dei Sovieti e dei paesi satelliti”, diffondere “dubbi e incertezze tra le file dei partiti comunisti nei paesi satelliti e nei paesi del mondo libero”. Si osservava che le “operazioni propagandistiche devono mettere in dubbio la stabilità dei vertici del nuovo regime. Sarà utile citare esperti di storia e affari sovietici contemporanei come Tito e gli ex comunisti, e pubblicare rapporti di ex rifugiati che hanno fatto parte dell'apparato comunista”. Si mirava anche a fornire “consigli ai cittadini sovietici per la sopravvivenza in questo periodo pericoloso e turbolento, indebolendone la fiducia nel sistema”.
In relazione ai “paesi satelliti nell'Europa orientale”, si doveva “ispirare l'acuirsi degli atteggiamenti nazionalisti, inclusi quelli religiosi, il cui emergere è stato stimolato dagli eventi in URSS” ed era necessario “sostenete l'idea che i leader dei paesi satelliti siano tutti dei protetti di un tiranno morto, rafforzando i dubbi sui loro rapporti con i nuovi padroni del Cremlino”.
Al rapporto del 1953 seguiva quello del 1957, che trattava, tra l'altro, anche di 12 aree ucraine, denominate “zone di lealtà”, in cui la popolazione, secondo Langley, avrebbe potuto sostenere operazioni armate, condotte da unità speciali USA per una possibile sollevazione antisovietica. Si guardava a diverse regioni ucraine, ma il massimo degli umori antisovietici era visto nelle tre regioni galiziane: L'vov, Ternopol e Ivano-Frank, da cui, non a caso, proviene oggi il grosso dei neo-nazisti addestrati dagli USA per l'aggressione al Donbass.
I “Dieci colpi staliniani”
Ma, anche all'interno dell'URSS, si ponevano le premesse per il successivo evolversi della strategia USA, molto tempo prima di Mikhail Gorbačëv. Passate appena tre settimane dalla morte di Stalin, il 21 marzo 1953 il Consiglio dei Ministri dell'URSS annullava quasi tutti i progetti industriali dell'ultimo quinquennio e la CIA, nel febbraio 1954, valutava le future conseguenze di tale passo: “Il Paese si è concentrato sull'agricoltura e sul rapido sviluppo di vaste terre vergini, che può anche portare a un rallentamento e sproporzioni nello sviluppo industriale dell'URSS". A ragione gli yankee potevano rallegrarsi dell'indebolimento della linea staliniana che, dopo la guerra, aveva mirato ad assestare colpi economici e ideologici all'imperialismo e alla sua strategia coloniale, con scelte fondamentali, tra le quali: la formazione di un blocco politico-economico anti-dollaro dei paesi socialisti e in via di sviluppo, con la creazione del Consiglio di mutua assistenza economica e la sua integrazione con i paesi post-coloniali; lo sganciamento del rublo dal corso del dollaro; il rafforzamento della solvibilità del rublo, con l'aumento dei salari e la riduzione costante di prezzi e tariffe; il contributo determinante alla vittoria della rivoluzione socialista in Cina; il rapido sviluppo tecnico-militare in risposta ai piani NATO di distruzione dell'URSS; la formazione della DDR, dopo la crisi di Berlino provocata dall'Occidente; la creazione del Patto di Varsavia nel 1955, come reazione alla nascita della UEO nel 1954, con la rimilitarizzazione della RFT e la sua unione alla NATO nel maggio 1955.
Demoliti, o quantomeno indeboliti i principali capisaldi socialisti, gli USA avevano mano (quasi) libera e la storia sovietica, fino agli anni '80, ha mostrato alti e bassi nella contrapposizione all'imperialismo, fino all'annunciata crisi decisiva e l'avvio dell'era Gorbačëv, che apriva la strada al golpe eltsiniano.
Ne era un tragico, e a suo modo “curioso”, antefatto (pur senza ricorrere a teorie “cospirative”) verificatosi allora: dopo le manovre militari del patto di Varsavia, “Scudo 84”, in Cecoslovacchia, nel giro di un anno morirono improvvisamente ben quattro Ministri della difesa: quello sovietico, Dmitrij Ustinov, nel dicembre 1984, quello cecoslovacco, Martin Dzúr, a gennaio 1985; a dicembre 1985 fu la volta del Ministro della difesa della DDR, Heinz Hoffmann e, due settimane più tardi, toccò all'ungherese István Oláh. L'atto conclusivo fu il completo smantellamento del Patto di Varsavia tra marzo e luglio del 1991.
Così che oggi, secondo i dati di Mondo della disuguaglianza, il «10% dei russi più facoltosi possiede circa il 47% delle ricchezze del paese, mentre al 50% dei meno abbienti va il 17%. La stessa situazione di 115 anni fa: 47 contro 17» e Vladimir Putin, rispondendo alla domanda se non ritenga possibile un ritorno al socialismo, risponde che non si «devono ripetere gli errori dei decenni trascorsi» e «non dobbiamo attenderci l'arrivo del comunismo». Lo dice lui! |
marzo 2021 | redazione |
1 Maggio | |
Primo maggio, pandemia e battaglie operaie per l'emancipazione
Il ritornello del "siamo tutti nella stessa barca" ormai non regge più
Michele Michelino
Capitalismo e imperialismo unificando il mercato mondiale hanno creato un proletariato e una classe operaia internazionale sfruttata e con gli stessi interessi. Anche se divisi da confini nazionali, colore della pelle, divisi fra atei o agnostici, credenti, religiosi, lo sfruttamento unisce la classe operaia dimostrando che “gli operai non hanno patria”, così come le epidemie non hanno confini.
Anche durante la pandemia, nonostante le restrizioni contro le libertà individuali e collettive - il lockdown, il coprifuoco - e la chiusura di aziende che i governi hanno imposto in tutto il mondo, lo sfruttamento operaio nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro non si è mai interrotto, anzi si è accentuato.
Accanto a milioni di lavoratori costretti a lavorare nelle fabbriche, nei cantieri, nella logistica, nelle campagne e nel pubblico impiego - in particolare nella sanità senza sicurezza e turni di riposo obbligati a fare straordinari - altre centinaia di migliaia, milioni sono rimasti senza lavoro e senza salario, senza cassa integrazione o altri sussidi, altri ancora licenziati.
La chiusura di settori lavorativi considerati non essenziali non è servita a ridurre o contenere il numero degli infortuni e dei morti sul lavoro, che invece sono in continuo aumento. Agli oltre 1.400 morti sul lavoro che avvengono ogni anno, e alle decine di migliaia di morti per malattie professionali considerati dai capitalisti “effetti collaterali” della produzione finalizzata al profitto, si sono aggiunte le centinaia di vittime, morti sul lavoro e di malattie professionali, dovute al coronavirus fra il personale sanitario, agli addetti alla logistica e ai riders.
In questo periodo nonostante i divieti di manifestazione e di sciopero, le denunce contro chi si ribella e protesta, le multe e gli arresti degli operai combattivi, la lotta di classe fra capitale e lavoro non si è fermata e non va in quarantena.
I borghesi, hanno continuato ad arricchirsi e i padroni a fare profitti anche in piena pandemia. I paesi imperialisti più forti si accaparrano le maggiori dosi di vaccini a scapito dei paesi più poveri e di quelli europei, l’uso di classe dei vaccini dimostra che la medicina preventiva è riservata prima di tutto ai paesi capitalisti.
Le condizioni di vita e di lavoro della classe proletaria sono in continuo peggioramento. Sfratti, licenziamenti, arresti di operai in lotta per la difesa salario e del posto di lavoro, cassa integrazione, disoccupazione, attacco al diritto di sciopero e alla salute della classe proletaria sono fatti che avvengono quotidianamente.
La borghesia italiana, per gestire lo scontro che si acuisce fra capitale e lavoro, ha varato il governo di “salvezza e unità nazionale” guidato dal “nuovo salvatore della patria” Mario Draghi ex governatore della Banca d’Italia e della BCE, chiamando all’unità “nazionale” tutte le classi sociali. In particolare i padroni chiedono agli operai, a tutti i lavoratori - costretti in molte situazioni a lavorare senza dispositivi di protezione individuali e collettivi in piena pandemia, e usati come carne da macello - di responsabilizzarsi e unirsi ai loro padroni per far riprendere i loro profitti. Nello stesso tempo il governo cerca tranquillizzare la Confindustria, la media e la piccola borghesia con “ristori”.
La storia insegna che gli appelli alla pace, all’unità nazionale lanciati dai borghesi servono solo a smobilitare il proletariato, a contenere e spegnere la rabbia operaia.
Far credere agli operai, agli sfruttati che durante le emergenze gli schiavi salariati sono liberi e uguali al padrone con gli stessi interessi e diritti serve solo a perpetuare il potere dei capitalisti.
Il ritornello del "siamo tutti nella stessa barca" ormai non regge più. La barca in cui sono stipati i proletari fa acqua da tutte le parti e sta affondando sempre più, mentre i borghesi, le multinazionali - a cominciare da quelle farmaceutiche dei vaccini - vedono salire a dismisura i loro profitti.
È bastato annunciare poter produrre i vaccini anticovid, ancora prima di averli testati e prodotti, che il valore delle azioni delle multinazionali del farmaco è salito alle stelle.
Dopo il “patto sulla fabbrica” sottoscritto con l’accordo interconfederale del 9 marzo 2018 tra Confindustria e Cgil, Cisl, Uil per incrementare la competitività delle imprese, un nuovo patto è stato raggiunto fra padroni governo e sindacati. Il 10 marzo scorso, in nome dell’emergenza nazionale stato firmato il l "Patto per l'innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale" con il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il Ministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta.
Questi patti sottoscritti anche da altri sindacati falsamente autonomi o di base, in nome dell’emergenza nazionale hanno sposato completamente gli interessi dei padroni in cambio di privilegi come la partecipazione ai tavoli (di concertazione) governativi e l’ingresso nei salotti buoni della borghesia.
I servi, cani da guardia del padrone, i dirigenti del movimento sindacale corrotti e l’aristocrazia operaia che vive delle briciole che i padroni concedono, vanno trattati alla stessa stregua.
Il capitalismo è la società del crimine organizzato che prospera e si arricchisce sullo sfruttamento, sulle nuove malattie che crea e sulle disgrazie dei proletari e degli esseri umani.
Oggi, utilizzando la pandemia, i capitalisti, le multinazionali, le banche, la finanza che controllano e decidono la politica che i governi borghesi devono attuare, ne approfittano per imporre sacrifici e sempre più pesanti misure contro la classe operaia e le masse popolari con l'imposizione di limitazioni alle libertà personali e costituzionali, ma non alle merci. L’accumulazione del profitto si realizza meglio con la pace sociale, ma in caso di conflitto la forza dello stato borghese diventa necessaria e utile al padrone.
I lavoratori che si ribellano e difendono i propri interessi sono multati, licenziati, repressi, arrestati, condannati. Ogni momento di ribellione di massa, di socialità, di lotta di classe è criminalizzato.
Scendere in piazza, riprendere i contenuti della giornata di lotta del 1° Maggio - manifestazione nata a Chicago nel 1886 e dal 1890 diventata una scadenza di lotta internazionale contro lo sfruttamento capitalista, per la limitazione dello sfruttamento giornaliero e la giornata lavorativa per le otto ore e altri provvedimenti legislativi al fine di tutelare l'integrità fisica del proletariato - oggi più di ieri diventa una necessità di sopravvivenza.
Anche nel 2021 in piena pandemia da covid, nonostante i divieti di manifestare in molte parti del mondo il movimento operaio internazionale non rinuncia a scendere in lotta con parole d’ordine comuni contro lo sfruttamento, per la difesa della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori.
Una delle conquiste del 1° Maggio, la giornata lavorativa di otto ore 8 ottenuta circa 134 anni fa (ormai messa continuamente in discussione) è ancora oggi all'ordine del giorno sui posti di lavoro (come per gli operai di Texprint di Prato), come rivendicare sicurezza e salute, ambienti salubri sul lavoro e sui luoghi di vita, la riduzione dell’orario di lavoro, la diminuzione di ritmi, pause, di lavoro e dispositivi di protezione individuali e collettivi per difendersi dalle vecchie e nuove malattie.
Le "conquiste" operaie sono sempre state il risultato di una forte lotta di classe, una guerra civile fra la classe dei capitalisti e quella degli operai e dei rapporti di forza esistenti in quel momento e oggi come ieri il nostro motto è sempre "Proletari di tutto il mondo uniamoci".
La nostra forza è nella solidarietà internazionalista, nell’unione tra gli operai che in tutto il mondo - e sono tanti - lottano contro lo sfruttamento, il capitale, l'imperialismo, le guerre.
In questo 1° Maggio esprimiamo la nostra solidarietà militante rivoluzionaria agli operai, agli sfruttati, che combattono contro i propri padroni e l’imperialismo, agli antimperialisti e in particolare a tutti i compagni che nelle galere di tutto il mondo continuano a lottare PER IL SOCIALISMO E IL COMUNISMO. |
gennaio 2021 | redazione |
Trump se n'è andato... | |
Oggi a me, domani a te
Daniela Trollio
Trump, per il momento se n’è andato, dopo aver montato il siparietto di Capitol Hill, che ha permesso a tutta la stampa egemonica del mondo di ricordare, visto che l’immagine si è un po’ stinta sotto le bombe e gli interventi armati, l’importanza e la centralità della “democrazia” nordamericana offesa.
Kennedy, Nixon, Carter, Ford, Clinton, Reagan, Bush, Obama hanno dimostrato ampiamente qual è questa presunta democrazia nordamericana, mettendosi sotto i piedi il non intervento negli affari di altri paesi, il diritto di autodeterminazione dei popoli, il rispetto dei diritti umani. E hanno, in modo bipartisan, utilizzato meccanismi non molto ‘democratici’ come il ricorso alla tortura, la creazione di false notizie, l’utilizzo di mercenari nelle loro guerre, la rapina delle ricchezze di interi paesi, senza parlare del diritto all’informazione calpestato come Julian Assange sa bene.
Ma tant’è, e così criminali di guerra come Henry Kissinger - uno degli architetti delle dittature sudamericane - possono fare conferenze in tutto il mondo e ricevere premi Nobel per la Pace, come Barak Obama cui va riconosciuta la paternità di ben 7 interventi armati (Afganistan, Libia, Iraq, Siria e Ucraina, Yemen, Pakistan e Somalia).
Ah, dimenticavamo: durante il suo mandato presidenziale, dal 2009 al 2017, Barak Obama ha potuto contare sull’appoggio, un po’ silenzioso visto che ha sottoscritto tutti i suoi atti senza mai dire una parola, del suo vice-presidente … Joe Biden.
E infatti, appena arrivato, Joe Biden ha chiarito, nel suo primo discorso da 46° presidente USA, il suo programma: “Possiamo fare degli Stati Uniti una forza che dirige il bene in tutto il mondo”. C’è qualche differenza con l’America First di Trump?
Tante volte abbiamo detto che dietro ai presidenti nordamericani (e non solo), fossero democratici o repubblicani, ci sono in realtà frazioni diverse del capitale. E allora vediamo da questo punto di vista la differenza tra Trump e Biden, solo a mo’ di esempio.
La principale sostenitrice di Trump – ma anche, guarda un po’, di Clinton e di Obama – è stata la banca Goldman-Sachs (dove ha lavorato anche il nostro nuovo “salvatore” Mario Draghi), che ha piazzato tre dei suoi uomini nell’amministrazione Trump: Steve Mnuchin (segretario al Tesoro), Gary Cohn (consigliere economico) e Steve Bannon (principale stratega).
Ora Goldman Sachs, che ha mollato Trump, deve retrocedere davanti all’arrivo della gigantesca BlackRock, che fornisce all’Amministrazione Biden tre suoi funzionari: Mike Pyle (responsabile delle strategie di investimento globali, colui che disegnò le politiche neoliberiste di Obama sfociate nella crisi del 2008, che diventa il consigliere economico principale della vice-presidente Kamala Harris), Brian Deese (ex responsabile degli investimenti sostenibili, consigliere economico di Biden) e Wally Adeyemo (ex responsabile dello staff di BR e ora vice-segretario al Tesoro).
Due parole su BlackRock: si tratta della più grande società di investimenti del mondo. Opera su scala globale ed ha quote in tutte le multinazionali e le società più importanti, come ha scritto anni fa il giornale inglese The Economist. Ha un patrimonio complessivo di circa 8.000 miliardi di dollari (circa 5/6 volte il PIL italiano). Ora è il principale sostegno del nuovo Presidente, ma le cose le sono andate bene anche prima. Gestiva i Buoni del Tesoro sotto l’amministrazione Trump ed è stata una delle società più beneficiate durante la pandemia di Covid negli USA. Anche Larry Fink, fondatore e AD di BlackRock, era il candidato alla Segreteria del Tesoro per Hillary Clinton. Una sintesi del suo pensiero: “«La democrazia, così come l’abbiamo intesa finora, si è dimostrata un disastro, non è in grado di gestire il mondo, ci ha portato alla distruzione del pianeta, ha portato guerre, ha portato incapacità decisionale e incapacità di visione da parte dei governi. Ha portato al sovrappopolamento del Pianeta. Ha portato alla creazione di una enorme massa di poveri ignoranti, che non fanno altro che perpetuare questo sistema democratico fino a distruggere tutto. Il mondo, l’economia, la politica, dovrebbero essere gestiti da chi è capace, da chi è visionario, da chi sa. Se un Paese non è in grado di gestire la propria economia arriviamo noi. Ci pensiamo noi a creare ricchezza, a creare futuro».
Come possiamo vedere, al capitale non importa se i suoi servi si definiscono “democratici” o “repubblicani”.
Il democratico Biden, sostenuto dal bilancio della Difesa (4.800 miliardi di dollari) approvato dal Congresso agli inizi di dicembre 2020, ha già caratterizzato comunque la sua politica estera: Venezuela, Cuba, Iran, Cina e Russia restano i nemici da combattere.
Ricordiamo altri due piccoli fatti. La National Rifle Association e le lobby farmaceutiche, assicurative, tecnologiche, agroalimentari godono da sempre di appoggio bipartisan e i gruppi nazisti, suprematisti ecc. non sono nati con Trump. È stato invece il premio Nobel per la Pace Obama ad accelerare la costruzione del muro di frontiera con il Messico, e durante la sua presidenza le deportazioni hanno raggiunto la cifra di quasi 3 milioni di persone.
Alla fin fine definire “democratico” il sistema bipartitico vigente negli Stati Uniti (e non solo) è una sciocchezza, oltre che una palese menzogna. Chi paga comanda, dice il proverbio.
La menzogna serve solo a difendere l’imperialismo, in questo caso quello statunitense, e ad affidargli il ruolo di guardiano dei ‘valori’ occidentali, che di democratico non hanno proprio niente ma portano inesorabilmente verso la guerra e la distruzione del pianeta, oltre che della razza umana.
Sappiamo, e ogni giorno lo sperimentiamo sulla nostra pelle: capitalismo e democrazia sono incompatibili.
|
gennaio 2021 | redazione |
Lotta di classe, legge e giustizia borghese | |
Lotta di classe, legge e giustizia borghese
Michele Michelino
Come diceva Brecht in questa situazione ogni ipotesi riformista, anche onesta, diventa “un fragile ricamo di ragazza”
Gli operai, i lavoratori e tutte le vittime del profitto e dello sfruttamento, lavorativo o ambientale che hanno avuto a che fare con la giustizia dei padroni e con le loro leggi nei tribunali hanno capito dall’esperienza concreta che chi è potente, chi detiene il potere politico-economico e chi è ricco – con avvocati e consulenti lautamente pagati, sfruttando i sofismi e le interpretazioni di parte, con il “rispetto” per i forti dei giudici - riesce sempre a sfuggire alle sue responsabilità e alle sue colpe.
Nella società capitalista i padroni - responsabili di stragi operaie, sociali o ambientali - restano sempre impuniti, non pagano mai perché a pagare sono sempre le vittime, i lavoratori, le associazioni che denunciano gli assassini e si presentano parte civile nei processi per ottenere giustizia. Perché oltre a non ricevere mai giustizia, sono anche costretti a pagare le spese processuali.
Così è successo nel processo d’appello per le decine di morti d’amianto alla Breda/Ansaldo di Milano e in Cassazione nel processo per la strage ferroviaria di Viareggio, che ha provocato 32 morti bruciati vivi nelle loro case.
Negli anni ’70, quando la lotta di classe e il movimento operaio erano forti, si riusciva a influenzare anche alcuni settori “progressisti” della magistratura che, sotto tale pressione, interpretavano le leggi con un occhio di riguardo per gli operai: magistrati che, davanti alle manifestazioni di massa operaie all'interno dei tribunali, in sostegno dei compagni colpiti dalla repressione o licenziati dallo Stato e dai padroni, non guardavano solo ai diritti dell’impresa e dei manager ma erano costretti a tenere conto anche delle ragioni dei lavoratori.
Oggi in una situazione sociale e politica diversa, con un movimento operaio debole, frazionato e diviso, la difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione e del profitto sono gli unici diritti riconosciuti cui tutti gli altri sono subalterni e sono applicati solo se con questo profitto sono compatibili.
Ormai tutte le leggi riconoscono e difendono la centralità dell’impresa, dei suoi inalienabili diritti, frutto di rapporti di forza che permettono ai padroni una totale libertà nell’uso della forza lavoro, sia nella gestione in azienda, sia nella possibilità di cacciarla in qualsiasi momento, o di trasferire la fabbrica de localizzando, lasciando i lavoratori senza occupazione da un giorno all’altro.
Noi non dimentichiamo che da sempre la magistratura è un’istituzione dello Stato borghese che ha lo scopo di conservare e difendere il sistema economico attuale, ma questo non ci impedisce di rivendicare il nostro diritto alla giustizia e di portare la lotta di classe anche nelle aule dei tribunali dei padroni.
Contro leggi e sentenze ingiuste è necessario lottare per cambiarle. Quando la legge difende l’ingiustizia, ribellarsi e giusto e la resistenza diventa un dovere.
La legge 257 del 1992 che ha messo al bando l’amianto in Italia, non fu un regalo del governo di allora ma il risultato di una lunga la lotta contro l’amianto fatta dai lavoratori e dalle popolazioni ad esso esposte.
Facciamo un esempio. La lotta contro le produzioni nocive d’amianto e le fabbriche di morte, contro le multinazionali che si arricchivano sulla pelle dei lavoratori e delle popolazioni, per impedire che questi assassini per i loro profitti continuassero a uccidere i lavoratori, i loro familiari e le popolazioni, non è mai venuta dall’alto, dalle istituzioni, dalla classe dominante o da quella politica, anche se tutti sapevano della pericolosità dell’amianto. Non hanno fatto niente per salvaguardare la salute dei lavoratori e della popolazione.
Già nel 1983 l’allora Comunità Europea (Cee), tramite la direttiva 477, aveva dichiarato fuori legge l’amianto. Tuttavia per 6 anni nessun governo accolse le seppur timide indicazioni comunitarie e nel 1989 l’Italia fu giudicata inadempiente, ma la sanzione europea non portò alcuna reazione immediata. Bisognerà attendere il 27 marzo del 1992 perché la legge 257 venga approvata dal Parlamento sotto la pressione di una mobilitazione dei lavoratori, che per 15 giorni assediano il Parlamento!
La lotta per la sicurezza nei luoghi di lavoro e di vita si scontra con uno Stato e con istituzioni che, in cambio di qualche investimento straniero o “italiano”, garantiscono non soltanto impunità fiscali ma anche giudiziarie, come la vicenda ILVA di Taranto e tante altre realtà insegnano.
Oggi come ieri, nell’era dell’imperialismo, del capitalismo “moderno”, ai lavoratori è negato ogni diritto, compreso quello a una vita dignitosa e in salute; solo il profitto è garantito.
Nel sistema capitalista tutti i governi, compresi quelli in cui erano presenti sedicenti comunisti, (PRC e PdCI) - cioè lo Stato stesso - si sono dimostrati nemici dei lavoratori.
In questa situazione ogni ipotesi riformista, anche onesta, come diceva Brecht diventa “un fragile ricamo di ragazza”.
In questa società per gli operai, per gli sfruttati non c’è giustizia. La giustizia vale solo per le classi dominanti. È arrivato il momento di scioperare per i nostri interessi, di scendere in piazza assediando i palazzi del potere, riprendendo gli slogan che hanno fatto forte il movimento operaio.
Proletari di tutto il mondo uniamoci nella lotta per il potere operaio èuno slogan sempre valido. Solo in una società socialista, con il potere nelle mani del proletariato, che considera crimini contro l’umanità lo sfruttamento e i morti sul lavoro e del profitto, sarà possibile avere una giustizia proletaria.
Oggi dobbiamo lottare in questa prospettiva, resistere senza arrenderci, non stancandoci di portare sul banco degli accusati gli assassini, anche se questo per chi lotta e per le associazioni delle vittime ha un prezzo salato da pagare: lo dobbiamo ai nostri compagni assassinati dal profitto. |
gennaio 2021 | redazione |
sanità Lombardia | |
Essi ritornano … e parlano chiaro
Daniela Trollio
Dopo l’ingloriosa uscita dell’assessore al Welfare Giulio Gallera dalla Giunta regionale della Lombardia, ecco che ritorna un fantasma della politica degli anni passati: la signora Letizia Moratti. Che mette subito in chiaro quale sarà il suo ruolo nella sanità lombarda affermando che, riguardo alla distribuzione dei vaccini, va considerato anche il rispettivo apporto delle regioni al PIL nazionale.
Traduzione: chi è più ricco ha più diritto a vaccinarsi contro il Covid; gli altri si arrangino.
In effetti è solo un’estensione di quanto è stato fatto alla sanità pubblica negli ultimi 30 anni: chi ha i soldi si può curare (di qualsiasi malattia, non solo di Covid), chi non li ha… peggio per lui. Salute di classe…
Non è la prima ad introdurre nel dibattito, falso e bugiardo, del “siamo tutti nella stessa barca” (usato non solo per l’economia nazionale ma anche per il Covid): l’aveva preceduta il governatore della Liguria Toti che, forse un po’ ingenuamente, aveva testualmente affermato «Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate».
E prima ancora Christine Lagarde, ex numero uno del Fondo Monetario Internazionale, che anni fa ha avvertito che il “sistema” non poteva più reggere il welfare (neanche quel poco rimasto…. aggiungiamo noi). E se ci pensate, parecchi governanti, come Trump e Bolsonaro, l’hanno presa in parola e hanno tranquillamente lasciato che il Covid facesse il lavoro sporco, riducendo il numero – di poveri, ovviamente, perché è una malattia di classe – di coloro che rappresentano un costo e sono facilmente sostituibili.
I fatti, che hanno la testa dura, confermano (parole del direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Ghebreyesus): “Più di 39 milioni di dosi di vaccini sono state somministrate in almeno 49 paesi a più alto reddito. Solo 25 dosi sono state somministrate in un paese a basso reddito. Non 25 milioni, non 25.000: venticinque".
Non vogliamo soffermarci sulla barbarie che esprimono questi fatti e queste parole.
Da sempre ricordiamo che questo è il capitalismo: il profitto prima e al di là di tutti e di tutto.
Ed eventi come la pandemia di Covid l’hanno portato allo scoperto come non mai.
Ma il fatto che ora ne parlino sempre più apertamente è un segnale: il Covid 19 è l’occasione per riprendere un discorso caro ai capitalisti e ai loro servi (politici, mezzi di comunicazione, ecc.), per indurci a pensare che non solo non dobbiamo lamentarci - e meno ancora lottare - per il fatto di essere sempre più sfruttati e poveri, ma che dobbiamo convincerci che il valore - assegnato non solo al pianeta ma alle persone e alla vita stessa (dei proletari, è ovvio) - è uno solo: quanto profitto producono per il capitale?
Forse è davvero ora di decidere se vogliamo continuare ad essere carne da macello o se è giunta l’ora di unirci e organizzarsi per abbattere questo barbaro sistema capitalista.
|
dicembre 2020 | redazione |
La Wiphala sventola di nuovo | |
La Wiphala sventola di nuovo
Irisultati di 11 mesi di governo golpista: il PIL è caduto dell’11%, il debito estero ha raggiunto i 1.500 milioni e le riserve sono passate da 8.900 a 6.800 milioni di dollari. Circa l’82% della Popolazione Economicamente Attiva fa un lavoro senza contratto né regole; la disoccupazione è passata dal 4% al 30%
“Tornerò e sarò milioni”, disse Tùpac Katari il giorno della sua esecuzione per squartamento da parte degli spagnoli, il 15 novembre 1781 a La Paz. Era il leader aymara di una delle più significative ribellioni indigene contro le autorità coloniali dell’Alto Perù, l’attuale Bolivia: il suo esercito di 40.000 uomini aveva messo sotto assedio la città per ben due volte, prima che la rivolta fosse stroncata dopo più di 100 giorni.
E milioni sono stati i boliviani che – nonostante un colpo di Stato e infinite violenze e minacce poliziesche – hanno riportato il Movimento al Socialismo (MAS) al potere e il suo leader Evo Morales, caricato in fretta su un aereo messicano a Chimoré e spedito in esilio dai golpisti, nuovamente in Bolivia. E proprio a Chimoré più di 100.000 persone hanno accolto il suo ritorno.
Come scrive la giornalista Vicky Pelàez, “i colpi di Stato non sono niente di nuovo in America Latina e rappresentano una realtà latente nel corso della storia repubblicana del continente. In Brasile il golpe militare durò 21 anni, in Cile 17, in Uruguay 12, in Argentina 7 e nella Bolivia di Hugo Banzer altri 7”.
L’ultimo golpe nella Bolivia di Evo Morales che ha portato al potere il governo de facto di Jeanine Anez, nonostante tre tentativi di ritardare le elezioni (e meno male che doveva “riscattare la democrazia dalla dittatura del MAS”), è durato solo (!!) 11 mesi. Il MAS ha vinto dappertutto, compreso a Santa Cruz de la Sierra, nel bastione storico della destra fascista e bianca (che nelle elezioni ha preso circa il 10% dei voti).
Ma andiamo per gradi, per capire come mai, dopo 14 anni di governo del MAS, il novembre 2019 c’è stato questo colpo di Stato lampo.
La parola magica
Se nel 1973, nel Cile di Salvador Allende, la parola magica fu “rame”, nella Bolivia del 2020 è “litio”. Il paese possiede una delle più grandi riserve al mondo di questo metallo, circa 21 milioni di tonnellate, e all’inizio del 2019 Morales aveva reso noto che era stato firmato un contratto tra Bolivia e Cina per l’estrazione del litio e la produzione “nazionale” di batterie e altri prodotti, con la costituzione di una società in cui la Bolivia aveva il 51% delle azioni e la Cina il 49%. Solo alle aziende statali o a maggioranza statale era concessa l’estrazione del prezioso metallo, in modo che lo Stato Plurinazionale mantenesse il controllo su una delle risorse più importanti del paese.
Il congressista repubblicano statunitense, Richard Blake, disse molto tranquillamente nel giugno 2020 che “c’è stata la preoccupazione che i cinesi potessero cominciare ad avere influenza all’interno della Bolivia e che in qualche modo sarebbe stato più difficile per noi ottenere il litio”.
Ed Elon Musk (il 5° uomo più ricco del mondo) fu ancora più schietto, commentando il golpe: “Faremo un colpo di Stato contro chi vogliamo, e questo è un fatto”.
Prima del contratto con la Cina il governo boliviano ne aveva firmato un altro con la società tedesca ACI System per la costruzione di una fabbrica di materiali catodici e batterie destinate al mercato europeo, tagliando così fuori gli USA. E Morales sorprese il mondo presentando la prima auto elettrica prodotta in Bolivia.
Questa è la trama economica su cui si è tessuto il golpe.
Restavano poi da smantellare le conquiste sociali, distruggere tutte quelle misure, economiche e non, che hanno migliorato le condizioni di lavoro e di vita dei boliviani, in particolare del proletariato costituito in grandissima parte da indigeni (il 49,95% della popolazione e nelle zone rurali il 73,20%), quechua, aymara, meticci ed europei (il 15%) che formano lo Stato Plurinazionale di Bolivia.
Il “governo” golpista
Come in ogni golpe che si rispetti, i primi atti del governo “provvisorio” sono repressione, arresti, assalti alle case dei dirigenti del MAS. Tutto ciò che sapeva anche lontanamente di “socialismo” e di democrazia partecipativa viene attaccato, così come le sedi sindacali e le organizzazioni popolari.
Presieduto da un'auto-proclamata presidentessa (com'è successo in Venezuela con il burattino Juan Guaidò, ormai consegnato – peccato per gli Stati europei che l’hanno riconosciuto – alla pattumiera della Storia), Jeanine Anez, il “governo” si attiva subito per cancellare e distruggere quanto conquistato dai boliviani in 14 anni di governo del MAS.
In 11 mesi di governo golpista questi sono i risultati: il PIL è caduto dell’11%, il debito estero ha raggiunto i 1.500 milioni e le riserve sono passate da 8.900 a 6.800 milioni di dollari. Circa l’82% della Popolazione Economicamente Attiva (PEA) fa un lavoro “informale” (cioè senza contratto né regole); la disoccupazione è passata dal 4% al 30%, generando due milioni di nuovi poveri; colpite al cuore – oltre al proletariato e ai settori popolari - sia la borghesia tradizionale che quella “nuova”, risultato del miglioramento delle condizioni di vita dei boliviani; saccheggiato l’oro della Banca Centrale, finito negli USA a pagare l’acquisto di armi da utilizzare contro il popolo.
Già, perché tra i primi atti del “governo” golpista c’è la firma del decreto 4078 che esenta l’esercito da qualsiasi responsabilità penale per l’uso della forza. E così a Sencata (El Alto), a Sacaba (Cochabamba) e a Yapacani (Santa Cruz) si sono consumate ben tre stragi, con 37 morti e centinaia di feriti tra i manifestanti che protestavano contro il golpe nel novembre 2019.
Quanto alle pretese di partecipazione alla vita sociale degli “indigeni”, valgano come dichiarazione di guerra del nuovo governo le immagini delle squadracce paramilitari che colpiscono la sindaca di Vinto de Cochabamba Patricia Arce, le rasano i capelli, le tingono di rosso il viso e la obbligano a camminare scalza per ore sputandole addosso.
La politica estera del governo golpista viene immediatamente chiarita: assalto all’ambasciata del Venezuela, espulsione dei medici cubani, mano tesa ai governi di destra (Bolsonaro, Moreno, Duque).
L’autodeterminazione e la dignità conquistati dal popolo boliviano si trasformano in dipendenza, svendita delle risorse del paese, violazione dei diritti umani.
Ultimo, ma non meno importante, la gestione della pandemia di covid-19 è stata disastrosa, il sistema sanitario del paese è al collasso, con un centinaio di medici infettati e scioperi negli ospedali per protestare contro l’assenza di risorse. In questa situazione lo stesso ministro della Salute è finito in carcere accusato di malversazione di soldi pubblici per aver acquistato 170 respiratori ad un costo quattro volte più alto.
I minatori e i contadini
La Bolivia ha una classe operaia organizzata e piena di storiche tradizioni di lotta sanguinosa, il cui fulcro - a partire dagli anni ’40 - sono i minatori. Lasciamo descrivere il loro ruolo a Orlando Gutièrrez, dirigente della Federazione Sindacale dei Lavoratori delle Miniere della Bolivia (FSTMB), che ha passato ben 15 anni nel sottosuolo, a estrarre stagno e zinco nelle miniere di Colquiri.
Nel luglio scorso aveva così risposto ad un giornalista: “Se parliamo dei minatori, parliamo della storia della Bolivia. Se parliamo della creazione della gloriosa Federazione Sindacale dei Lavoratori delle Miniere della Bolivia, questa è la colonna vertebrale della COB (Centrale Operaia Boliviana). Noi ci consideriamo la punta di lancia della lotta. Per questo, ahimé, abbiamo moltissimi martiri e questo è ciò che ci hanno insegnato i nostri antenati, è la nostra eredità. Ci hanno lasciato questo principio unico della lotta per non essere più oppressi da governi neoliberisti e capitalisti”.
Gli abbiamo dato la parola perché Orlando Gutièrrez, che si ipotizzava potesse assumere il Ministero del Lavoro nel nuovo governo di Luis Arce, non c’è più. È morto in ospedale alla fine di ottobre, dopo essere stato aggredito da una squadraccia fascista. È questo il livello della lotta di classe in Bolivia oggi, al di là del risultato delle urne, e Orlando è diventato uno in più dei martiri di cui parlava.
Ma anche i contadini non scherzano, quanto a tradizioni e durezza di lotta. Ricordiamo solo i circa 80 morti e i 500 feriti a La Paz nell’ottobre 2003, quando 20.000 manifestanti e l’esercito si scontrarono per tre giorni in quella che fu definita “la guerra del gas”, la svendita del gas boliviano alle multinazionali USA. Tre giorni di battaglia, e i soldati dei corpi speciali dell’esercito che si rifiutano, il 3° giorno, di uscire dalle caserme a sparare sui fratelli, poveri montanari come loro; due presidenti - Sanchez de Losada e Carlos Mesa - che fuggono negli USA. Il gas rimane al popolo boliviano.
E sono proprio gli operai e i contadini che votano in modo massiccio Luìs Arce e David Choquehuanca del MAS, dandogli un vantaggio tale che i golpisti non possono parlare, come di solito - vedi Paraguay, Honduras, Brasile ecc. - di frode elettorale.
E ora?
Ora si tratta di ricostruire quello che è stato distrutto, contando soprattutto sulle organizzazioni del potere popolare che non si sono fatte piegare e che hanno organizzato questa fase della lotta - le elezioni - con intelligenza e coraggio, nonostante le pesanti intimidazioni e minacce. Il nuovo governo boliviano ha già spazzato via i vertici militari e della polizia, complici attivi del golpe di Stato; resta da disarticolare la “piattaforma civica” che ha propiziato il colpo di Stato e i golpisti stessi. Il potere popolare e le sue organizzazioni vanno rafforzate perché, in ogni caso, l’unica opzione della destra e dei suoi ispiratori a Washington, resta sempre il golpe.
Intanto, da dove si trova, certamente il Che Guevara sorriderà per questa svolta nel paese dove egli ha dato la vita. Canta Piero de Benedictis, attore e cantautore di protesta nato a Gallipoli ma in Argentina dall’infanzia: Per il popolo/quello che è del popolo/perché il popolo se l’è guadagnato
Ma altre braci covano sotto la cenere.
In Cile, dove la lotta prima degli studenti e poi di larga parte della popolazione (che continua sporadicamente, nonostante covid-19) ha infranto le vetrine e l’immagine del capitalismo vincente rivelando invece un abisso di povertà e miseria, il 25 ottobre di quest’anno finisce nella pattumiera la costituzione redatta da Augusto Pinochet nel 1980, rimasta finora in vigore .
In Perù, in poche settimane, sono “saltati” ben due presidenti - Martìn Vizcarra e Manuel Merino. La lotta popolare, che ha già visto 2 morti e il ferimento di un centinaio di persone, oltre a numerosi arresti, non esprime solo la rabbia per la corruzione endemica ma si allarga a rivendicare soluzioni per i milioni di disoccupati, per la salute, l’alimentazione, le case, l’educazione, tutti i diritti negati da decine di anni di governi neoliberisti.
Anche il Guatemala è in mobilitazione, nonostante il coronavirus. Il 21 novembre scorso, dopo l’approvazione della nuova legge di bilancio che stanziava la cifra record di 13 milioni di dollari per la creazione di infrastrutture legate alle grandi imprese (poi ritirata in seguito alle manifestazioni di protesta), tagliando invece il budget per istruzione e salute, è stato incendiato il Parlamento (20 arresti e 50 feriti). Obiettivo della lotta popolare non è solo la corruzione ad altissimi livelli, ma il problema – anche qui – della fame, della disoccupazione, della sanità e dell’educazione allo sfascio, tutti problemi acutizzati non solo dalla covid-19 ma anche dal passo di due uragani.
Ricordate le dotte discussioni sulla “fine del ciclo” progressista in America Latina? A quanto pare non è finito proprio niente, men che meno la lotta e l’organizzazione del proletariato sfruttato e oppresso. |
dicembre 2020 | redazione |
Dalla Peste al Coronavirus: le pandemie nella stor | |
Dalla Peste al Coronavirus: le pandemie nella storia dell’uomo
Nel corso della storia dell’umanità, prima del Covid-19, almeno altre 13 pandemie negli ultimi 3000 anni hanno colpito gli esseri umani.
Il salto di specie fra gli animali, selvatici o da allevamento e l’uomo attraverso successive mutazioni genetiche dei virus ha prodotto le pandemie. Polli, anatre, suini, topi, pulci, bovini, dromedari, zibetti e pipistrelli hanno fatto da conduttori, soprattutto in Asia e in modo particolare in Cina, dove hanno sempre vissuto a stretto contatto con l’uomo. Dall’epoca dell’urbanizzazione di massa e della globalizzazione, gli allevamenti intensivi alle porte delle metropoli e i sempre più vasti mercati di animali vivi dentro le megalopoli hanno fatto stragi mondiali: da 500 milioni al miliardo di vittime in totale nel corso dei secoli, secondo calcoli approssimativi.
Nell’epoca moderna le forti urbanizzazioni, lo sviluppo industriale, l’inquinamento, il disboscamento e la distruzione della natura hanno costretto gli animali a vivere sempre più stretto contatto con l’uomo.
Le pandemie, i lutti e le crisi economiche hanno contribuito a cambiare la storia causando guerre, migrazioni e crolli di sistemi economici-politici-sociali. Vogliamo ricordare solo quelle più recenti.
La Spagnola del 1918-1920 (che avvenne in due ondate, una primaverile e una autunnale) colpì alla fine della 1° guerra mondiale, quando le popolazioni povere, i proletari e i contadini, le classi sociali più debilitate, subivano e pativano per le privazioni degli interventi bellici, a contatto con soldati che erano stati inviati da un continente all’altro. Con il rientro a casa dei soldati americani di ritorno dall’Europa la pandemia arrivò anche negli Usa.
L’influenza asiatica nel 1956, un’epidemia trasmessa da uccelli, durò due anni e fece 1 milione di vittime nel mondo.
Nel 2003 arriva la Sars (prima epidemia da coronavirus del ventunesimo secolo), molto contagiosa, ma rispetto a altre poco letale (8.200 vittime nel mondo).
Negli ultimi 100 anni, la scienza ha accertato senza più dubbi l’origine zoonotica di varie pandemie. Secondo gli scienziati fu lo scimpanzé dei Laghi, in Africa, morsicando un essere umano, a trasmettere nel 1980 il virus dell’HIV-Aids che ha causato circa 36 milioni di vittime nel mondo.
Su ogni pandemia le case farmaceutiche si gettano a capofitto pregustando miliardari profitti e la ricerca cerca di trovare nuovi vaccini, ma i coronavirus continuano a proliferare. Che la scienza sia al servizio del capitale, delle multinazionali che finanziano le ricerche, al servizio delle classi ricche è sempre più evidente.
Lo dimostra il fatto che finora sono stati i paesi imperialisti, capitalisti, i più ricchi, ad accaparrarsi centinaia di milioni di dosi di vaccino per il virus.
Le varie teorie degli “esperti” sul corona virus fanno riflettere anche sul modello di scienza che il potere ci propina. Più che il virus, sembra che la malattia sia il capitalismo e anche se le eventuali cure e i vaccini - una volta testati - dovessero funzionare nel presente, alla lunga non serviranno se si continua rovinare e inquinare il pianeta.
I paesi in cui il neoliberismo ha privatizzato la medicina trasformandola in grande mercato sono quelli che si sono trovati più impreparati ad affrontare l’emergenza.
La pandemia ha dimostrato che la ricerca del massimo profitto - anche nella sanità - a scapito della salute umana e di quella del pianeta sta portando il mondo verso la catastrofe. I paesi più ricchi che dominano il mondo, i sostenitori della proprietà privata materiale e intellettuale che applicano embarghi, sanzioni economiche e attuano guerre in tutto il mondo contro i paesi che si oppongono alla penetrazione imperialista e contro il socialismo hanno distrutto la medicina territoriale e oggi anche gli strati popolari, la classe proletaria e i poveri dei paesi ricchi pagano un alto prezzo in costo di vite umane.
Il paradosso è che questi criminali - oggi in difficoltà - sono stati costretti a chiedere aiuti ai paesi asiatici e socialisti (Cuba in testa) che hanno sempre combattuto come nemici.
La pandemia ha tolto la maschera che portava il capitale, dimostrando che di umano non ha nulla, mostrando la sua faccia parassitaria.
|
dicembre 2020 | redazione |
I falsi storici dell'anticomunismo | |
Si vuole incuneare nelle menti il rifiuto “cosciente” del comunismo, l'assioma che i comunisti nella storia si sono macchiati di vari crimini
L'anticomunismo è nato con il comunismo; è nato con la presa di coscienza della propria condizione da parte della classe operaia, sottoposta alla diretta oppressione della moderna classe dominante, la borghesia. Marx ed Engels cominciavano il Manifesto del Partito comunista con le parole “Uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro. Qual è il partito di opposizione, che non sia stato tacciato di comunista dai suoi avversari che si trovano al potere?”. Il comunismo faceva e fa paura: continua a ricordare alla classe borghese il destino che la attende. Nei decenni, l'anticomunismo ha assunto varie forme, è ricorso agli interpreti e ai mezzi più diversi: dai più estremi e terroristici, ai più sofisticati. L'obiettivo è sempre quello di scongiurare la presa di coscienza delle condizioni di vita e di sfruttamento da parte delle classi sottomesse e, dunque, irretire la loro aspirazione a liberarsi.
La vittoria degli operai e dei contadini in Russia, nel 1917, con la creazione del proprio Stato, di un tipo del tutto nuovo rispetto alla macchina con cui la borghesia tiene sottomesse le classi sfruttate, imbestialirono oltre ogni limite le classi dominanti. Attacchi armati contro il primo Stato socialista; interventi diretti e armamento delle potenze fasciste per indirizzarle contro quello Stato; poi, falliti gli attacchi armati, costruzione di “cortine di ferro”, insurrezioni reazionarie contro le democrazie popolari, addestramento delle quinte colonne chiamate a realizzare le “rivoluzioni per la libertà”: senza sosta, il ricorso permanente alla menzogna ideologica, ora più aperta, ora più sottile. Soltanto l'obiettivo non cambia: cercare di assuefare le coscienze delle classi sottomesse alla “universalità” dell'ordine capitalista, alla sua “naturale” eternità, alla irrealizzabilità di un diverso ordine sociale, senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
In questa campagna, fanno da sempre da stampella alla borghesia gli elementi opportunisti e revisionisti tra le file del movimento operaio: cent'anni fa i social-patrioti, poi i revisionisti, fino ai dottrinari inconcludenti attuali.
Si è ormai arrivati al punto che, diononvoglia ci si azzardi a mettere in discussione la vulgata sulle cosiddette “repressioni staliniane” e il GULag: si viene subito equiparati a quelli che “giustificano il fascismo perché ha fatto anche cose buone”. A tal punto le menti sono state obnubilate dalle giaculatorie europeiste e dalla costante instillazione mediatica su “i crimini comunisti”. Pezzo forte della campagna sono i premi Nobel ai vari Pasternak, Sakharov, Solženitsyn, Gorbačëv, Aleksievič; il premio “Sakharov” ai vari “Memorial”, Oleg Sentsov o opposizione “democratica” bielorussa.
Falsificazione della storia
Nella campagna anticomunista, la borghesia ricorre all'aperta falsificazione della storia. Operano in tal senso, i programmi scolastici e educativi, insieme all'indottrinamento mediatico, da quello più becero a quello più raffinato. In parallelo, si ostenta capillarmente una semplificazione dell'insegnamento e una volgarizzazione del linguaggio, una loro mondializzazione per l'esigenza del capitale internazionale di uniformare le conoscenze minime atte a servire i suoi interessi.
Non fanno eccezione nemmeno in Russia i manuali scolastici adottati negli ultimi decenni e i serial televisivi (equivalente dell'italico Giorno del ricordo e dei film sulle foibe) sfornati a ritmo costante sui “crimini” di GPU-NKVD: tra giustificazioni della dittatura cilena, vomitevoli condanne dei “regimi totalitari comunisti” e santificazione delle “vittime innocenti dello stalinismo”. Sembra che lo slogan della perestrojka, "Con Stalin colpiamo il socialismo, e poi con il socialismo colpiamo Lenin", sia stato fatto proprio anche da Vladimir Putin. Di recente, è tornato proprio sul ruolo di Lenin, “distruttivo per la Russia”, a proposito della possibilità, sancita dalle Costituzioni sovietiche, di uscita volontaria dall'URSS: se qualche mese fa aveva parlato di una “bomba atomica”, ora Putin è passato a una “mina a scoppio ritardato”, che oggi insidierebbe l'unità della Russia. Eppure Putin dovrebbe sapere che gli storici, sulla base dei diari delle segretarie e dei medici, tendono a dubitare che Lenin fosse stato in grado di dettare l'articolo “Sulla questione delle nazionalità o della "autonomizzazione" – come anche i famosi “Lettera al Congresso”, o “Come riorganizzare la RabKrIn” - in cui avrebbe proposto la fondazione di una Unione con facoltà di separazione per le singole Repubbliche, in contrasto con l'idea di uno Stato unitario sostenuta da Stalin. Lo slogan “prendetevi tutta l'autonomia che volete” è stato lanciato alle regioni russe da Eltsin e non da Lenin.
Qualche settimana fa, Putin ha detto che “nei decenni passati e nel periodo della guerra, c'era molto di ideologico nei programmi scolastici. Oggi noi cerchiamo di ripulire i programmi da tale ideologizzazione”, cioè dalla presunta ideologizzazione dell'eroismo dei soldati sovietici. Dunque, la de-ideologizzazione della vittoria sul nazismo non è altro che de-sovietizzazione. È così che il 7 novembre si tiene da qualche anno la parata sulla Piazza Rossa, in ricordo della parata del 7 novembre 1941, ma non si dice che allora essa si svolse per celebrare il 24° anniversario della Rivoluzione d'Ottobre: si evita così di ricordare il nome di Stalin quale Comandante in capo, oppure si sentenzia che la vittoria fu ottenuta nonostante Stalin e il partito bolscevico. Scrivendo per l'americana The National Interest su "Le vere lezioni del 75° anniversario della Seconda guerra mondiale", Putin ha parlato del ruolo di Stalin nella storia sovietica e non ha mancato di infilare “i crimini commessi dal regime contro il proprio popolo e gli orrori delle repressioni"; ipse dixit.
Chi ha sconfitto il nazismo
In generale, negli ultimi tempi, la campagna anticomunista mondiale di falsificazione storica punta particolarmente (non solo, ovviamente) sulla passata storia sovietica e sul ruolo dell'URSS nella sconfitta del nazismo.
Il 9 maggio 2020 si è celebrato il 75° anniversario della vittoria e della fine della Seconda guerra mondiale, costati ai popoli del mondo settanta milioni di morti, di cui oltre i tre quarti ai popoli di Cina e Unione Sovietica. Prima dello scoppio della guerra, le “democrazie liberali” avevano cercato in ogni modo di utilizzare il nazismo tedesco per l'obiettivo cui non avevano mai rinunciato sin dal 1917: quello di soffocare il primo Stato socialista al mondo. Scoppiato il conflitto, si erano unite - loro malgrado e non subito - all'URSS nella lotta contro il nazifascismo. Oggi, cercano di appropriarsi di una vittoria cui avevano dovuto contribuire; peraltro, in misura molto ridotta, rispetto allo sforzo militare e sociale sovietico. Così, capovolgono e stravolgono date, avvenimenti, protagonisti.
Il tema, naturalmente, non è nuovo; ma la campagna “alleata” ha assunto aspetti grotteschi in coincidenza con l'anniversario della vittoria. Medaglie commemorative delle “tre potenze vincitrici” sul nazismo: USA, Gran Bretagna, Francia; apoteosi di sbarchi a Occidente che, in realtà, in assenza di adeguate controffensive sul fronte orientale, avrebbero rischiato di trasformarsi in disfatte; e via di questo passo. Solo infamie sul ruolo dell'URSS.
Ma, il vero obiettivo della “campagna alleata” era già stato messo in chiaro dal Parlamento europeo il 19 settembre 2019, con l'approvazione della risoluzione che vorrebbe equiparare nazismo e comunismo. L'obiettivo non è affatto, o non solamente, storico. Non per nulla, a farsi promotori del documento di Strasburgo, erano stati incaricati quei paesi d'Europa orientale che, più di tutti, videro masse intere di Komplizen e Hilfswilligen delle SS e che oggi, tra parate in uniformi naziste e celebrazioni di quegli “eroi” autori di massacri contro civili, soldati sovietici, comunisti, ebrei, tsigani, intendono dar lezioni al mondo su come “la legge vieta le ideologie comuniste e naziste”.
Il fronte comunista oggi
Si è insomma in presenza di una tempesta mediatica su tutte le questioni riguardanti la storia del movimento comunista, in generale, e dell'Unione Sovietica degli anni '30 e '40, in particolare. Sotto l'insegna della “informazione” e della “Storia” servite al “più vasto pubblico”, si propagandano miti che, ripetuti migliaia di volte, secondo un metodo sperimentato nella Germania hitleriana, penetrano e rimangono infissi nelle menti.
In questa situazione, difficile stabilire cosa significhi oggi essere “obiettivi”. Ci troviamo da una parte del fronte, sottoposti al martellamento dell'avversario, il quale non ha mai smesso di far fuoco con le “armi leggere” e negli ultimi anni ha messo in azione anche i “grossi calibri”. L'artiglieria martella menti e coscienze, cominciando col riscrivere la storia dei comunisti, in tutte le sue pagine, non solo in Unione Sovietica, e spiana così la strada alle divisioni corazzate contro i comunisti di oggi: l'obiettivo è quello di decretare per legge il bando del comunismo e dei comunisti, e fare in modo che la coscienza “di massa” lo accolga come un “atto necessario”, dopo di che, “andrà tutto bene”.
Un po' come avvenuto con la campagna avviata durante la pandemia, allorché, tramite Covid-19, si è imposta una delazione poliziesca di massa, facendola accettare alle persone come “doverosa” e “naturale”, opportuna “per il bene di tutti”, appellandosi alla “unità della nazione” attorno al tricolore, nell'abbraccio patriottico teso a pacificare lo scontro tra le classi e mettere sullo stesso piano partigiani e “ragazzi di Salò”, all'insegna di “consumatori”, “famiglie”, in cui scompare ogni differenza di classe.
Cosa significa dunque, in queste condizioni, essere “obiettivi”? Significa opporre ai colpi del nemico un martellamento uguale e contrario delle nostre artiglierie “storiche”, per non essere impreparati all'attacco “politico” contro i comunisti di oggi. Si deve esser consapevoli dell'urgenza di rispondere a ogni colpo dell'avversario, sapendo che i “dettagli storici” da contrapporgli servono solo per mantenere quanto più possibile intatte le nostre forze politiche.
Un attacco di classe
Quello del nemico di classe non è un attacco “storico”; il martellamento delle artiglierie “storiche” del nemico di classe non è che un aspetto dell'attacco di classe cui i comunisti sono da sempre sottoposti. Di fronte all'attacco nient'affatto storico e tantomeno “imparziale”, da parte di coloro il cui unico obiettivo dichiarato è quello di tentare di diffamare il comunismo e i comunisti, per arrivare a mettere l'uno e gli altri fuori della legge borghese, restare “imparziali” significa stare dalla parte di un anticomunismo che, ormai da trent'anni, cerca di riprendere il lavoro solo parzialmente interrotto nel periodo a cavallo tra gli anni '40 e '50 del XX secolo.
Lo scontro non è “storico” o “intellettuale”: è uno scontro di classe, in cui si usano anche armi “storiche” e “intellettuali”. Non si tratta di una disputa storico-accademico. Si tratta di un attacco di classe, che passa per la falsificazione della storia, e l'obiettivo è sempre lo stesso: prendere di mira la prospettiva della società socialista per cercare di eliminarla dalla coscienza della classe operaia e delle masse lavoratrici e arrivare quindi mettere fuori legge i comunisti, oggi, con il “beneplacito” della cosiddetta “opinione pubblica”.
Si vuole insomma incuneare nelle menti il rifiuto “cosciente” del comunismo, l'assioma che “i comunisti nella storia si sono macchiati di tali e talaltri crimini”. Ne deve conseguire che i comunisti di oggi non possono esser diversi da quelli di ieri e siano quindi pronti a macchiarsi di crimini allo stesso modo dei loro predecessori.
Se ieri i comunisti si erano macchiati dell'olocausto – ormai si arriva a dire questo: se Stalin “si è alleato con Hitler”, significa che è parimenti responsabile non solo della “invasione della Polonia”, non solo della “spartizione dell'Europa”, ma anche degli stessi crimini del nazismo: anzi, se non fosse stato per Stalin, Hitler non avrebbe nemmeno cominciato la guerra - allora “non c'è da aspettarsi nulla di diverso dai comunisti di oggi”. Questo vien fatto diventare un assioma; si insinua nelle menti, e queste accettano come un atto dovuto che i comunisti vadano messi fuori legge in quanto “criminali” come i loro predecessori. Per il “bene comune”, il comunismo deve essere abolito per legge e la massa deve arrivare a richiederlo, per la “propria sicurezza”.
Così, proprio in corrispondenza con il 75° anniversario della fine della guerra, si sono accentuate le accuse all'Unione Sovietica di essere stata corresponsabile del suo scoppio, unite alle falsità sui reali artefici della disfatta del nazismo. Accuse e falsità che nascondono almeno due obiettivi, che è necessario tenere ben distinti. Da una parte, la disputa geopolitica sul ruolo della Russia moderna: su questo versante, non crediamo che Mosca abbia necessità di esser difesa dall'esterno e ci sembra anzi quantomeno zoppicante l'intreccio, teorizzato anche in certa sinistra, secondo cui “chiunque pratichi l'antisovietismo, giunge inevitabilmente alla russofobia”. Una variante di tale “teoria” è in Russia quella dei cosiddetti nazional-patrioti di “sinistra”, che esaltano forza e potenza dell'URSS, ma sono estranei al marxismo e ripetono i mantra dei nazionalisti borghesi, i quali tacciono sul fatto che le conquiste dell'URSS fossero il frutto del potere sovietico, delle scelte del partito bolscevico, di Lenin e di Stalin.
Dall'altra parte, c'è invece il più becero antisovietismo, e questo riguarda molto direttamente i comunisti in ogni parte del mondo, dal momento che l'attacco alla bandiera con falce e martello issata sulle rovine del Reichstag, non rappresenta che il viatico per dare forma “legale” alla moderna crociata contro il comunismo e i comunisti.
L'anticomunismo “istituzionalizzato”
In questo senso, la risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019, è stata solo una tappa nella “istituzionalizzazione” della tesi sulla pari responsabilità di Germania nazista e URSS nello scatenamento della guerra e su un fantomatico “retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo”, dato che, già da anni, si sta percorrendo quella strada. Per un sommario e incompleto elenco di simili obbrobri, basti citare la risoluzione del 1996 su “Misure per smantellare l'eredità degli ex sistemi totalitari comunisti”; del 2006 su “Necessità di condanna internazionale dei crimini dei regimi totalitari comunisti”; del 2008 su “Coscienza europea e comunismo”; del 2012 su “Regolamentazione giuridica dei crimini comunisti”, insieme a tutte le sparate di paesi come Polonia e Baltici che, mentre proibiscono “ideologia e simbologia comunista”, celebrano i veterani locali delle divisioni SS e istituzionalizzano le loro sfilate.
Curioso peraltro notare come quelle risoluzioni, oltre ai simboli, mirino alla sostanza dell'ideologia che rappresentano, laddove, ad esempio, sentenziano che “le proprietà, comprese quelle delle chiese, sequestrate illegalmente o ingiustamente dallo Stato, nazionalizzate, confiscate o altrimenti espropriate durante il regno dei sistemi totalitari comunisti, in linea di principio, siano restituite ai proprietari originari in integrum, se questo è possibile senza violare i diritti degli attuali proprietari”. Proprietari che, spesso, fino a trent'anni fa, rivestivano ruoli dirigenti nei partiti e negli Stati ex socialisti.
D'altronde, come detto, le sparate “europeiste” incontrano un terreno fertile nella stessa Russia eltsiniano-putiniana.
Come scriveva pochi anni fa il comunista lituano Juozas Ermalavičjus “Gli attacchi sofisticati dell'anticomunismo sono diretti contro lo strumento principale della liberazione rivoluzionaria dell'uomo: quella scienza che ha ricevuto una base teorica e metodologica onnipotente nella dottrina filosofica del materialismo dialettico... Guidati dal loro approccio dialettico-materialista, K. Marx e F. Engels hanno rivelato che la causa fondamentale della schiavitù umana è la proprietà privata dei mezzi di produzione”. Oggi “l'escalation globale dell'anticomunismo è fondamentalmente l'incarnazione dell'agonia generale del capitalismo monopolistico transnazionale.
Gli intrighi controrivoluzionari del dominio indiviso del sistema sociale capitalista su scala globale sono oggettivamente destinati al fallimento... Il degrado sociale e spirituale della società borghese porta al completo esaurimento del suo potenziale creativo, quindi si conclude con la cessazione della sua esistenza... Gli sforzi anticomunisti della borghesia imperialista testimoniano del suo destino fatale. L'anticomunismo è la manifestazione più caratteristica dell'impotenza e della disperazione del capitalismo monopolistico transnazionale”.
|
ottobre | redazione |
I capitalisti unici “responsabili” della nostra mi | |
I capitalisti unici “responsabili” della nostra miseria
Michele Michelino
I nostri nemici sono in casa nostra e sono quelli di sempre: i padroni e i loro governi di centro destra e centrosinistra, politici e sindacalisti sul loro libro paga
In una società divisa in classi antagoniste, con interessi diversi la crisi non colpisce tutti allo stesso modo. Anche nelle crisi e nelle pandemie ci sono capitalisti che realizzano lauti profitti, mentre le condizioni di vita e di lavoro dei proletari peggiorano costantemente.
I borghesi e i loro rappresentanti politici dicono che siamo tutti sulla stessa barca. Una colossale bugia, ma anche se lo fossimo noi proletari continuiamo a remare incatenati come gli schiavi e i padroni a godersi il sole in plancia serviti e riveriti.
La crisi porta ad acuire le contraddizioni anche fra i vari blocchi imperialisti, le contraddizioni interimperialiste portano alcuni paesi a scontrarsi con altri.
La crisi che scuote dalle fondamenta il sistema capitalista ha unificato, in funzione antioperaia, le varie frazioni della borghesia imperialista che, pur lottando fra loro con guerre commerciali e militari, trovano nell’unità di classe contro il proletariato, gli operai, i lavoratori, i disoccupati, i pensionati, il loro comune interesse quando il sistema del lavoro salariato e il loro potere sono messi in discussione dai proletari in lotta che rivendicano il potere operaio o da governi di paesi che si oppongono alla penetrazione imperialista e nazionalizzano le risorse delle multinazionali.
Nell’epoca dell’imperialismo o degli imperialismi che si combattono per la supremazia nel mercato mondiale, crisi, guerre e repressione degli oppositori sono inevitabili nel sistema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Secondo un rapporto pubblicato il 27 aprile dall’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri) nel 2019 sono stati destinati alle spese militari nel mondo più di 1.900 miliardi di dollari, la cifra più alta, al netto dell’inflazione, degli ultimi tre decenni.
Anche in Italia, per difendere i loro interessi in “patria” e all’estero i capitalisti italiani spendono oltre 26 miliardi di euro per spese militari, cifra che aumenta ogni anno mentre diminuiscono la spesa per la sanità pubblica, negli ultimi 10 anni oltre 37 miliardi di euro.
Con il costo di un F35 si potrebbero attrezzare centocinquantamila terapie intensive, una portaerei cinquantamila respiratori polmonari, anche solo risparmiando sulle esercitazioni dei blindati ed elicotteri si risparmierebbero soldi per attrezzare trecentotrentamila posti letto oppure dieci miliardi di mascherine.
Le misure anticovid decise dal governo e dalle regioni aumentano ancor più le diseguaglianze sociali, in un paese che ha già milioni di poveri.
Le varie frazioni della classe dominante, tramite i loro partiti di riferimento (sia di centro destra sia di centrosinistra), fanno finta di litigare, ma sono sempre pronti a unirsi quando il loro sistema di potere e di dominio scricchiola e vacilla sotto i colpi della crisi. Ecco che allora viene fuori l’interesse comune della classe borghese. Non è un caso che le spese militari decise dal governo sono votate da tutti i partiti di maggioranza e opposizione.
I provvedimenti governativi e regionali, hanno colpito duramente solo gli strati proletari (alcuni stanno ancora aspettando la cassa integrazione da maggio) e la piccola borghesia, ma non hanno toccato quelli delle multinazionali, della finanza, delle grandi banche e hanno conservato tutti i privilegi della casta politica borghese, concedendo nuove agevolazioni alla Confindustria.
La manovra del governo con il lockdown ha avuto conseguenze disastrose sulle condizioni di vita e di lavoro dei proletari ed è di una violenza inaudita. Si toglie ai poveri per dare ai ricchi.
Anche in piena crisi di Covid19 aumentano le spese militari con nuovi impegni in Sahel e nel Golfo di Guinea mandando soldati italiani a occupare territori sovrani in altri paesi per difendere gli interessi dell’imperialismo italiano e delle multinazionali e rapinare petrolio, gas e altre risorse.
A oggi sono quarantuno gli impegni all’estero del governo italiano con 8.600 militari, schierati dal Golfo di Guinea all’Afghanistan per la difesa degli “interessi nazionali e il contributo alla pace e stabilità internazionale”, con l’obiettivo di una spesa per la difesa pari al 2 per cento del Pil entro il 2024.
Rafforzato anche l’impegno in Libia con EuNavForMed-Irini, la missione al comando dell’ammiraglio Fabio Agostini che punta a garantire l’embargo sancito dall’Onu. L’Italia vi parteciperà con un contributo di 500 militari, un’unità navale e tre mezzi aerei, da aggiungere agli assetti (ancora pochi), messi a disposizione degli altri Paesi.
La spesa militare italiana, nel 2020 è aumentata di oltre il 6% rispetto al 2019, ha superato i 26 miliardi di euro su base annua, equivalenti a una media di 72 milioni di euro il giorno. In base all’impegno preso nella Nato, essa dovrà continuare a crescere fino a raggiungere una media di circa 100 milioni di euro al giorno.
Anche in tempi di pandemia c’è chi si arricchisce e chi muore di fame. Il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e delle tariffe dei servizi significa una riduzione del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, alla sanità, il peggioramento alla scuola e ai servizi sociali che colpisce milioni di persone che già faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena, agevolano solo gli sfruttatori.
La ricchezza dei borghesi è frutto della nostra miseria, non è possibile nessuna unità fra sfruttati e sfruttatori.
La verità e che i nostri nemici sono in casa nostra e sono quelli di sempre: i padroni e i loro governi di centro destra e centrosinistra, giallo verde o giallo rossi insieme ai loro servi, politici e sindacalisti sul loro libro paga.
|
ottobre | redazione |
Basta morti per il profitto | |
Basta morti per il profitto
Unire le lotte operaie per la sicurezza e difesa della salute nei luoghi di lavoro a quelle contro le stragi sul territorio
Michele Michelino
Le morti giornaliere, le mutilazioni, gli infortuni tra i lavoratori non dipendono mai dal caso o dalla fatalità, ma sono il risultato dello sfruttamento padronale della forza-lavoro, dell’organizzazione capitalistica del lavoro.
Allo stesso modo i morti, i feriti, i malati e gli invalidi per “disastri ambientali” (Vajont, terre dei fuochi, Tav, terremoti, ponti che crollano, stragi ferroviarie, avvelenamento dei territori come a Taranto), sono anch’essi morti del profitto.
Ogni anno nel mondo circa due milioni di persone muoiono a causa di un incidente sul lavoro o per malattia professionale, di cui 12.000 sono minori.
Su 250 milioni d’infortuni 335.000 sono mortali: 170.000 nel settore agricolo, 55.000 nel settore minerario e 55.000 nelle costruzioni. Oltre 100.000 sono i decessi causati dall’amianto (dati OIL-organizzazione internazionale del lavoro, agenzia dell’ONU).
In Italia ogni giorno per infortuni su lavoro perdono la vita 4 lavoratori, più di 1.400 ogni anno; altre decine di migliaia rimangono invalidi permanenti e perdono per la vita per malattie professionali, altri ancora per disastri ambientali evitabili con una normale prevenzione. Dal nord al sud il bollettino di guerra riporta giornalmente il numero dei morti e dei feriti, operai e lavoratori mandati al macello per il profitto.
A queste si devono aggiungere quelle per “disastri ambientali e territoriali”.
Per sminuire la gravità di questo massacro e le loro responsabilità, Confindustria, Governo, sindacati di regime e istituzioni chiamano queste stragi “morti bianche”, morti “sul” lavoro, come se loro non avessero alcuna responsabilità.
Nell’ultimo decennio sono stati registrati più di 17.000 lavoratori morti sul luogo di lavoro. Numeri impressionanti, drammatici; più morti sul lavoro che in una guerra, perché I MORTI SUL LAVORO SONO IL COSTO DEL PROFITTO.
Covid-19 - con il 65% circa delle fabbriche in cui si lavorava nonostante il lockdown (dati de Il Sole 24 Ore) - ha dimostrato la centralità della classe operaia nel processo di produzione di plusvalore, facendo tabula rasa di tutte teorie che da anni parlano di "scomparsa" della classe operaia.
Anche durante Covid 19 tutti i giorni e le notti della settimana, sabati e domeniche compresi, centinaia di migliaia di operai, di lavoratori di tutti i settori hanno continuato a varcare i cancelli delle fabbriche, degli ospedali, delle logistiche, dei vari luoghi di commercio, nelle campagne, costretti a lavorare senza sicurezza, senza protezioni individuali e collettive.
Nel settore della sanità e dell'assistenza sociale le denunce d’infortunio sono aumentate del 124% nei primi otto mesi (dai 18mila casi del 2019 ai 40 mila del 2020), con punte di oltre il +500% a marzo e del +450% ad aprile rispetto al 2019. Nel 2020, due denunce su tre del settore hanno riguardato il contagio da Covid-19.
Il conflitto capitale-lavoro si manifesta in tutta la sua violenza e brutalità nello sfruttamento e nei morti del profitto. La lotta per la sicurezza nei luoghi di lavoro e di vita, contro le morti sul lavoro e di lavoro, deve diventare il primo punto di ogni piattaforma o rivendicazione sindacale, com'è già successo localmente in alcune realtà lavorative durante il coronavirus.
Il regime dispotico della fabbrica ormai è diffuso in tutta la società. I licenziamenti di chi ha infranto il “vincolo di fedeltà” aziendale per denunciare situazioni di pericolo, la repressione che ha colpito i compagni che hanno manifestato il 25 Aprile portando un fiore alle lapidi partigiane e manifestato il 1° Maggio e le manifestazioni contro la Regione e governo vietate con la scusa del contagio, sono prove generali di normalizzazione della società, una proibizione della socialità.
La repressione selettiva ha colpito i compagni, i militanti, ma anche persone che andavano a fare la spesa durante il lockdow deciso dal governo e regioni, o che andavano a trovare familiari in ospedale in macchina, attuando la logica terroristica di colpire alcuni per spaventare tutti.
I sindacati confederali Cgil-Cisl-Uil, ma anche alcuni sindacati cosiddetti di base, invece di accodarsi alle sirene padronali e di preoccuparsi del costo del lavoro, dovrebbero preoccuparsi di quanto sia alto il costo di vite umane che gli operai devono pagare per far arricchire i padroni.
Nella crisi la contraddizione capitale–lavoro salariato che investe tutti i settori della società genera movimenti di opposizione in vari strati del proletariato, ma anche di altre classi.
Intervenire nel movimento di massa del proletariato e delle classi sottomesse con posizioni anticapitaliste, partendo dal principio della solidarietà di classe, dimostrando che un mondo senza sfruttamento è possibile solo eliminando i padroni, con il potere in mano agli operai, può battere il cretinismo parlamentare e impedire uno sbocco reazionario al movimento di massa.
La nostra lotta non può limitarsi a combattere gli effetti dello sfruttamento capitalista, dobbiamo distruggere le cause che continuano a riprodurre i borghesi come padroni e i proletari, i lavoratori, come schiavi salariati. Per questo serve un’organizzazione politica di classe in cui i lavoratori siano il soggetto dirigente.
Tutti i governi di qualsiasi colore e i sindacati filo padronali hanno permesso che il capitalismo potesse disporre a suo piacimento della forza lavoro accrescendo i propri profitti. Il risultato è che il lavoro è diventato sempre più precario, senza protezioni e sicurezza. Con il continuo ricatto è aumentato lo sfruttamento e il totale disprezzo per la salute dei lavoratori: il “lavoro” è diventato sempre più fonte di alienazione, di disperazione, di povertà, di morte per migliaia di lavoratori.
Nel capitalismo la vita degli operai per i padroni non vale niente; per ottenere il massimo profitto risparmiano anche i pochi euro necessari a fornire misure di protezione individuali e collettive, mandandoli consapevolmente a morte certa.
Il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita, il ricatto occupazionale, la mancanza di un’organizzazione politica e sindacale di classe, proletaria, lascia i lavoratori completamente alla mercé dei padroni.
Nel sistema capitalista tutte le istituzioni, i sindacati collaborazionisti e di regime che “rappresentano i lavoratori”, considerano legittimo e legale lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; quindi perché “ostacolare il progresso” da cui traggono le briciole e i loro privilegi? D’altra parte ogni giorno ci sono decine di morti sul lavoro e per malattie professionali, migliaia gli operai e i lavoratori che ogni anno sono assassinati sul posto di lavoro, e scioperare per costringere i padroni a bonificare gli ambienti e rispettare le misure di sicurezza antinfortunistiche significherebbe far perdere ai padroni decine di migliaia di ore di profitti.
Il conflitto fra capitale e lavoro fa morti, feriti e invalidi ogni giorno. È arrivato il momento per tutte le vittime del profitto, lavorativo o ambientale di scendere in piazza uniti a difesa della propria vita, della propria salute e di quella del pianeta, per gridare forte la protesta contro il sistema capitalista, unendo le lotte di tutte le vittime del profitto, sia del movimento operaio per la salute e la sicurezza, sia quelle sociali dei familiari delle stragi (ponti, case e scuole che crollano, disastri ambientali e ferroviari che hanno responsabilità ben precise), riconoscendole tutte come stragi del profitto. Dobbiamo lottare affinché tutti i morti per il profitto siano considerati crimini contro l’umanità.
L’unità delle lotte proletarie e sociali, oggi disperse in mille rivoli, è la nostra forza.
Per la sicurezza nei luoghi di lavoro e di vita, contro le morti del profitto, lavoriamo per organizzare una manifestazione nazionale operaia, proletaria, sociale a Roma contro governo, confindustra e il sistema di sfruttamento capitalista che uccide gli esseri umani e la natura.
|
agosto | redazione |
Bielorussia, un’altra “rivoluzione colorata” | |
Bielorussia, un’altra “rivoluzione colorata”
Daniela Trollio (*)
Ci risiamo, una nuova “rivoluzione colorata” agli onori della cronaca sui nostri quotidiani. Si tratta della Bielorussia che, oltre al desiderato – da parte dell’Occidente – cambio di regime, unisce il fatto di essere l’unico paese direttamente confinante con la Russia non aderente alla NATO, cui invece appartengono Lituania, Lettonia, Polonia e Ucraina, sue altre confinanti. La destabilizzazione della Bielorussia tramite un “cambio di regime” – come si è fatto con i paesi di cui sopra - permetterebbe quindi alla NATO di far avanzare la linea che minaccia direttamente la Russia.
La Bielorussia rappresenta un’eccezione tra le repubbliche baltiche “democratiche”, dove i comunisti e i socialisti sono messi fuori legge e i nazifascisti vanno al potere, dove sono ospitate le più grandi basi militari nordamericane, dove i diritti “democratici” tanto cari all’Occidente vengono cancellati senza che nessuno si scandalizzi.
E questo è un primo elemento.
Il sistema economico bielorusso è una specie di “capitalismo di Stato”, con grandi corporations industriali e agricole nazionalizzate. Il 51% dei bielorussi lavora per compagnie statali, con un tasso di disoccupazione, fino a pochi anni fa, inferiore all’1%. Il paese conta su un settore agricolo e uno di meccanica pesante (agricola e militare) molto forte, che gli permette di esportare non solo in Russia ma anche in Germania e nei paesi confinanti.
La Bielorussia, secondo dati dell’ONU, possiede un sistema sanitario molto efficiente e un tasso di mortalità infantile addirittura al di sotto di quello britannico. Anche l’indice Gini (l’indicatore internazionalmente riconosciuto come il più preciso per misurare la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, perché misura quanto la curva di aumento del reddito stesso si discosta dalla perfetta uguaglianza tra poveri e ricchi, v. Wikipedia) è tra i più bassi d’Europa.
La possibilità di mettere le mani su tutto questo, avviando una nuova “stagione” di privatizzazioni a beneficio del capitale occidentale e di quello autoctono è un sogno che si realizzerebbe con un “cambio di regime”. Anche nella vicina Russia una parte degli oligarchi sogna lo stesso sogno. E questo è un secondo elemento.
Per quanto “di Stato” comunque, sempre di capitalismo si tratta e la crisi strutturale in cui si dibatte il capitale in questi ultimi anni ha toccato pesantemente anche la Bielorussia, che non è certo un paradiso dei lavoratori e non vive in uno spazio a sé. La crisi ha deteriorato il livello di vita dei lavoratori, in particolare nel campo della salute, dell’occupazione, del pensionamento. E così sono cominciate le proteste – operaie in un primo tempo – che hanno raggiunto il culmine nel momento delle elezioni presidenziali vinte da Alexandr Lukashenko, presidente dal 1994.
E qui inizia il copione già visto. Nasce una “opposizione democratica” appoggiata da USA e Unione Europea, parte una martellante campagna mediatica in favore della dissidenza, reale o no che sia. Il governante di turno viene definito in ogni occasione “dittatore”. (Curioso che nessun politico o giornalista si sia mai permesso di definire tali, ad esempio, i governanti dell’Arabia Saudita, dove si ammazzano i dissidenti, si tagliano le mani ai ladri e si lapidano le adultere…).
Nel caso della Bielorussia – perché un po’ di femminismo non si nega a nessuno – addirittura si crea una triade di donne del tutto sconosciute alla politica. Sono le mogli – ahimè, brutto da dire ma vero – dei tre volti noti dell’opposizione: un blogger in carcere per aggressione durante una manifestazione, un banchiere in carcere per frode e lavaggio di capitali e un ex ambasciatore negli USA. L’Unione Europea si affretta così a designare il “suo” candidato, Sviatlana Tsikhanouskaya, moglie del blogger.
E questo è un terzo elemento.
Come ad Hong Kong abbiamo visto gli oppositori innalzare le bandiere dell’ex Impero Britannico e dell’impero USA, anche in Bielorussia, come in Ucraina, gli “insorti” sventolano le bandiere del battaglione Vlasov, il traditore che, con l’ucraino Stepan Bandera, affiancò e a volte superò i nazisti nelle stragi della popolazione russa durante la 2° guerra mondiale.
Non ci sarebbe bisogno di dire altro su quanto sta succedendo in Bielorussia. Si tratta davvero di un copione già ampiamente sfruttato: dall’Iraq alla Libia, dall’Ucraina ad Hong Kong, dalla Siria al Venezuela.
Purtroppo non si tratta di un film, ma di una guerra spietata del capitale internazionale che causa morti, feriti e paesi sovrani ridotti in macerie.
Si approfitta delle proteste popolari per provocare un cambio di regime che porti con sé la privatizzazione selvaggia, la svendita dei beni comuni e delle risorse naturali, lo sfruttamento selvaggio senza più freni e la cancellazione di ogni diritto dei lavoratori, la precarizzazione e l’eliminazione dei resti dello “stato sociale”: in poche parole, sfruttamento brutale, impoverimento, miseria e cancellazione di ogni futuro.
Cosa significa una “rivoluzione” neoliberista lo vediamo ogni giorno: basta ricordare cosa è successo in Iraq, in Libia, in Grecia, in Ucraina, in Siria, in Venezuela, in Bolivia, tanto per limitarci agli ultimi anni.
Vogliamo solo aggiungere una cosa: di fronte a questa offensiva del capitale internazionale non esiste un movimento contro la guerra, perché di guerra di classe si tratta, dichiarata o no.
Per anni i rivoluzionari hanno dibattuto se “difendere” o no Gheddafi, Saddam Hussein, Al Assad o Maduro, dimenticando che, invece, si tratta di lotta all’imperialismo, di difesa della libertà dei popoli di scegliersi il proprio futuro in base ai propri interessi; di internazionalismo proletario, in una parola.
Non rifacciamo per l’ennesima volta lo stesso sbaglio.
(*) CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni
|
agosto | redazione |
CHI ERA CESARE ROMITI | |
CHI ERA CESARE ROMITI
Fu l’uomo che nel 1979/1980 difese gli interessi della Fiat contro gli operai della principale fabbrica italiana e contro tutto il movimento operaio del nostro paese.
Nell 1947, a 24 anni, viene assunto al Gruppo Bombrini Parodi Delfino di Colleferro in provincia di Roma, una grande fabbrica di produzioni militari sotto il controllo della Difesa e dei servizi segreti italiani e statunitensi. In breve tempo diventa il direttore finanziario. Insieme con lui lavora un altro personaggio, Mario Schimberni, che sarà il futuro presidente della Montedison.
Dopo la fusione con la Snia Viscosa, nel 1968, Romiti diventa direttore generale di Mediobanca e fiduciario di Enrico Cuccia che l'aveva scelto e imposto agli Agnelli.
Per alcuni anni è anche amministratore delegato dell’Alitalia, e nel 1976 diventa l’amministratore delegato del gruppo Fiat. Romiti a capo del gruppo, prima con i 61 licenziamenti politici nel 1979 e poi con i licenziamenti di massa nel 1980, sarà il manager che porterà l’attacco alla classe operaia.
Sostenuto dall’intero sistema padronale, organizza la Marcia antioperaia dei “quarantamila” (impiegati e funzionari della Fiat, bottegai, commercianti, crumiri, fascisti ecc.) contro gli operai in sciopero.
Subito dopo i sindacati Cgil Cisl Uil accettano il piano Fiat sulla cassa integrazione a zero ore che diventeranno poi licenziamenti veri e propri.
Dopo la sconfitta operaia Romiti diventa il manager più potente d’Italia fino a metà degli anni ’90. Nel 1998, anno della sua uscita dalla Fiat, percepì una buonuscita di circa 105 miliardi di lire per i suoi 25 anni di attività, più 99 miliardi di lire per il patto di non concorrenza. Attualizzati al 2020 sono circa 150 milioni di euro e passa alla Gemina, la finanziaria che controllava il gruppo editoriale Rcs (Corriere della Sera).
Uomo del capitale fino alla fine, nel 2009 fu un grande sostenitore di Giorgio Napolitano sostenendo l’appello all’unità per far eleggere Napolitano a Presidente della Repubblica (in contrasto con Berlusconi). Recentemente ricopriva la presidenza dell’associazione Italia Cina.
In un intervento al Senato del 2016 ha ricordato Luciano Lama dicendo: “Lama fu sempre leale ed è stato un uomo tra i più coraggiosi che abbia mai conosciuto”.
|
agosto | redazione |
Cesare Romiti: morte di uno sfruttatore | |
Cesare Romiti: morte di uno sfruttatore
Michele Michelino
Padroni, governo, presidente della repubblica, sindacalisti di Cgil-Cisl-Uil e politici di tutti i partiti - a cominciare dagli ex PCI - hanno reso omaggio a Romiti, il manager, ex amministratore delegato della FIAT di Giovanni Agnelli che licenziò migliaia di lavoratori. Sotto la bandiera Fiat sul sagrato della parrocchia di San Michele Arcangelo, a Cetona - cittadina del senese dove si trova il suo podere, La Taragna, dove aveva scelto di essere sepolto - e dove è stato ricordato dall'amico don Piero, conosciuto nel 1979, in Argentina, negli anni bui della dittatura.
Noi non sprechiamo né lacrime né cordoglio per lo sfruttatore capitalista. Ognuno piange i suoi morti e Romiti non è un morto nostro, ne abbiamo già troppi.
Ricordiamo che Romiti fu l’uomo del padrone, responsabile del licenziamento di 61 operai FIAT nel 1979, di 14.469 licenziamenti annunciati del 1980 e organizzatore della marcia antioperaia di capi, funzionari, bottegai e dei crumiri che rivendicavano il “loro diritto al lavoro” mentre per 35 giorni i lavoratori lottavano contro i licenziamenti.
Romiti e Agnelli, oltre a migliaia di licenziamenti, furono responsabili anche della morte di oltre 200 lavoratori FIAT cassintegrati che si suicidarono.
Il licenziamento di 61 operai alla Fiat
L’acuirsi della crisi genera forti contrasti sociali, il profitto va salvaguardato a qualunque costo. Si scatena la campagna contro l’assenteista, il violento, il terrorista in fabbrica. 61 lavoratori vengono licenziati alla Fiat di Torino, altri all’Alfa di Arese e alla Magneti Marelli a Milano. Alcuni di loro, arrestati con l’accusa di appartenenza alle Brigate Rosse, si dichiarano prigionieri politici.
Questo fatto viene usato come un alibi dallo Stato per colpire tutti i lavoratori che si battono coerentemente contro lo sfruttamento. Ciò crea uno sbandamento in alcuni gruppi operai, ma anche la necessità per i proletari coscienti di porre all'ordine del giorno il problema dell’organizzazione di classe.
Alcuni mesi dopo, la sentenza dei giudici di Torino reciterà chiaramente il motivo della loro espulsione dalla FIAT: ”... gli operai licenziati contribuivano ad aumentare il clima di conflittualità in fabbrica con gravi conseguenze sui livelli di produttività in un settore decisivo dell’economia”.
La risposta ai 61 licenziamenti
La FIAT, dopo aver avvertito in anticipo PCI e sindacati della sua intenzione di licenziare circa 80 lavoratori concordò, in un incontro segreto, la lista dei licenziati ridimensionandola in base alle osservazioni dei sindacati e del PCI. Così la lista, depurata e concordata, stabiliva in 61 i dipendenti da licenziare con il pretesto di connivenza con il terrorismo. Giuliano Ferrara (a quel tempo dirigente del PCI di Torino) ha confermato il sospetto di un’intesa che già circolava all'epoca in un’intervista rilasciata durante la trasmissione televisiva “Porta a porta”, e riportata dal Corriere della Sera del 14 ottobre 2000.
Nella stessa trasmissione Cesare Romiti, l’allora amministratore delegato della Fiat, confermò che: “Fiat avvertì in anticipo i vertici sindacali dell’intenzione di licenziare”.
Ma veniamo ai fatti: il 9 ottobre 1979 a 61 lavoratori della Fiat Mirafiori, Rivalta e della Lancia di Chivasso vengono spedite lettere di licenziamento. Appena si sparge la notizia in alcuni reparti di Rivalta la risposta degli operai è immediata.
Gli scioperi scoppiano, alcuni spontanei, altri organizzati dagli stessi operai licenziati, tra i lavoratori c’è molta rabbia ma anche molto disorientamento.
La FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici, il sindacato unitario Cgil-Cisl-Uil) dichiara tre ore di sciopero per mercoledì 1° novembre, ma la mattina, prima dello sciopero, diffonde un volantino contro il terrorismo.
Durante le assemblee il dibattito viene incentrato dai sindacati sulla violenza in fabbrica, i vertici sindacali sostengono che la Fiat avrebbe “prove” contro i licenziati.
Nonostante la campagna forcaiola, l’assemblea del 1° turno di Rivalta con oltre 2000 operai decide all'unanimità di continuare lo sciopero oltre le tre ore sindacali e con la presenza dei licenziati in fabbrica la lotta continua con cortei e “spazzolate” interne.
Immediatamente la FLM ed i suoi delegati sabotano la lotta, cercando di isolare i 61 lavoratori licenziati. Solo in pochi altri reparti la lotta prosegue sino a fine turno.
Alla Lancia di Chivasso succede la stessa cosa, nella giornata di mercoledì lo sciopero prosegue sino a fine turno, ma i cortei interni e gli scioperi organizzati insieme ai licenziati continueranno anche nei giorni seguenti.
Questi episodi di risposta operaia però, dopo la fiammata iniziale, non ebbero seguito. Non si riuscì a dare continuità ed organizzazione alla lotta.
Il ruolo di “pompiere” del sindacato fu reso evidente dal fatto che, oltre le tre ore di sciopero di mercoledì 10, venne indetto un solo sciopero di due ore al Palasport martedì 23 ottobre.
A quel punto scende in campo anche Lama, segretario generale Cgil, del quale Romiti diceva: “Lama fu sempre leale ed è stato un uomo tra i più coraggiosi che abbia mai conosciuto, che dichiara che il sindacato aspetterà di conoscere le prove di Agnelli, perché “il sindacato difenderà solo gli operai accusati ingiustamente”. Questa posizione viene fatta propria dalla FLM e dal PCI e il licenziamento dei 61 apre la strada ai licenziamenti di massa.
I 35 giorni di lotta alla Fiat
Un anno dopo, il 10 settembre 1980, a Roma avviene la rottura delle trattative tra FLM e FIAT sulla cassa integrazione.
L’11 settembre 1980 la Fiat annuncia 14.469 licenziamenti. Subito gli operai del 1° turno di Mirafiori proclamano 8 ore di sciopero. La lotta si estende e si trasforma nei giorni successivi in lotta ad oltranza. Lo scontro si acutizza, si fanno picchetti permanenti davanti a tutte le portinerie e il PCI soffia sulla protesta operaia, usando questa lotta per i suoi scopi elettorali.
Intanto, il 27 settembre, il governo Cossiga è costretto a dimettersi e la Fiat sospende i licenziamenti per “... spirito di responsabilità”. A questo punto i sindacati ritirano lo sciopero generale proclamato per lunedì 29 settembre e la Fiat annuncia per il 2 ottobre la cassa integrazione per 23.000 lavoratori.
Il 30 settembre l’assemblea dei delegati decide di proseguire la lotta e si continua con il blocco totale dei cancelli.
Ma come la storia del movimento operaio insegna, una forma di lotta ad oltranza, confinata in fabbrica, alla lunga è perdente se rimane solo nell'ambito sindacale. Infatti con il passare dei giorni le difficoltà degli scioperanti aumentavano mentre diminuivano gli operai attivi ai picchetti. Per far fronte alla stanchezza e alla rassegnazione il sindacato e il PCI chiamarono, di rinforzo alla lotta, delegati da tutte le città.
Per 35 giorni, pullman di delegati partivano tutte le mattine dalle città del nord, in particolare dalla zona di Sesto San Giovanni, Milano e Genova con destinazione Torino.
Le ronde e i picchetti degli scioperanti, guardati a vista dalla polizia, si scontravano spesso con gruppi di crumiri organizzati da capi e leccapiedi della direzione che cercavano di sfondare i picchetti rivendicando il “loro diritto al lavoro”.
Intanto la fermata della produzione alla Fiat sferra un duro colpo ad Agnelli, colpendolo nel suo più intimo sentimento: il profitto (o il portafoglio, come dicevano scherzosamente i lavoratori ai picchetti dei cancelli Fiat).
La situazione stava diventando non più tollerabile, ormai anche il PCI e il sindacato stavano cercando un pretesto per chiudere lo sciopero. La direzione Fiat decise di scendere direttamente in campo organizzando capi, impiegati, bottegai. Tutta la Confindustria, padroni e padroncini dell’indotto Fiat, e molti lavoratori diventati crumiri o resi crumiri dalla paura della perdita del posto di lavoro, si mobilitarono.
Il risultato del lavoro svolto dalla Fiat fu una imponente manifestazione per le vie di Torino.
La mattina del 14 ottobre 1980 il coordinamento dei capi e dei quadri intermedi convocava una manifestazione al teatro Nuovo contro il blocco dei cancelli. Migliaia di persone intervengono, 15.000 secondo i telegiornali, 30.000 titolerà La Stampa, mentre Repubblica spara la cifra di 40.000. La manifestazione, infine, passerà alla storia come la “marcia dei 40mila”.
Questa manifestazione fornì l’alibi a sindacato e PCI per capitolare definitivamente.
Il 15 ottobre, mentre Fiat e sindacati firmano a Roma l’accordo che prevede la cassa integrazione per 23.000 lavoratori e la conseguente riapertura della fabbrica, al Cinema Smeraldo di Torino centinaia di delegati e lavoratori Fiat premono per entrare: sul palco Benvenuto (UIL), Lama e Galli (CGIL) - che hanno già preso la decisione di soffocare la lotta - cercano in tutti i modi di far accettare ai delegati operai l’accordo che prevede la loro resa. Nonostante si sforzino di indorare la pillola, sostenendo che “… la Fiat provvederà a richiamare dalla cassa integrazione guadagni, per il loro reinserimento, quei lavoratori che al 30 giugno 1983 si troveranno ancora in integrazione salariale”, dopo 8 ore di discussione il Consiglio dei delegati Fiat ed i lavoratori presenti approvano a maggioranza una mozione in cui respingono l’accordo. Vista l’aria che tira i massimi dirigenti sindacali presenti, in barba a tutte le chiacchiere sulla democrazia, abbandonano la sala prima del voto.
Il giorno dopo, il 16 ottobre 1980, l’accordo messo in votazione dalle assemblee di fabbrica fu respinto - contro ogni previsione - dalla maggioranza degli operai.
Quel giorno, il 16 ottobre, fu una data storica sotto molti aspetti. Per la prima volta i massimi dirigenti sindacali – Lama, Carniti, Benvenuto e altri sindacalisti - vengono malmenati dagli operai e costretti a scappare scortati dalla polizia. I giornali riporteranno la notizia che coloro che hanno respinto gli accordi tra Fiat e sindacato non erano operai, ma provocatori esterni infiltrati nell'assemblea di fabbrica.
Questo episodio ebbe una grande importanza nella presa di coscienza di una parte della classe operaia italiana, come dimostrano i documenti che riportiamo.
Dopo 35 giorni di sciopero ad oltranza, la capitolazione del sindacato segnerà la sconfitta della classe operaia - la fine della stagione della democrazia dei consigli e della solidarietà - e un periodo di riflusso di tutto il movimento: prima con i licenziamenti per assenteismo che colpiscono ammalati, invalidi, donne in maternità, ricoverati in ospedale, poi nel settembre del 1980 con l'avvio della procedura del licenziamento di 14.469 dipendenti.
Da un giorno all'altro migliaia di lavoratori diventati “esuberi” furono espulsi dai luoghi di lavoro e condannati all'emarginazione sociale.
Molti si sentirono traditi da Cgil-Cisl-Uil.
Dopo anni di lavoro e sacrifici in cui la vita dei lavoratori e dei loro familiari veniva decisa dai tempi e dai ritmi della fabbrica, ora la nuova situazione cambiava radicalmente il modo di vivere di migliaia di persone.
Con la perdita del lavoro molti perdevano anche la possibilità di pagare il mutuo della casa, alcuni subirono la doppia umiliazione di perdere la casa (ripresa dalle banche a garanzia del mutuo concesso) e il lavoro, non potendo più neanche mantenere i figli a scuola.
I problemi economici, sommati a quelli familiari e al fatto di essere fatti passare come “lazzaroni” da un’intensa campagna della stampa padronale, aggravarono le condizioni di vita di molti cassintegrati. I lavoratori, costretti a vivere la cassa integrazione e il licenziamento come problemi individuali o personali, pagarono molto pesantemente: secondo dati e documenti raccolti da studiosi borghesi, negli anni ‘80 a Torino si sono suicidati oltre 200 lavoratori Fiat cassintegrati.
Anche di questi delitti dovrà rendere conto il sistema capitalista.
Per approfondimenti https://www.resistenze.org/sito/ma/di/sc/madsmisg06.htm
|
luglio 2020 | redazione |
Fca licenzia, delocalizza, prende i soldi e scappa | |
FCA chiede al governo 6,3 miliardi per sostenere “un settore fondamentale per l'industria italiana”
Michele Michelino
La richiesta di un prestito da parte della multinazionale - che da tempo ha trasferito la sua sede fiscale in Olanda e lasciato le macerie in Italia con decine di miglia di cassintegrati, licenziamenti e fabbriche chiuse - ha immediatamente trovato il sostegno dei sindacati Cgil/Cisl/Uil e perplessità e polemiche, subito rientrate, da parte di alcuni esponenti dei partiti al governo (PD, Sinistra italiana, LeU), dopo che il Presidente del Consiglio Conte ha affermato: "Richiesta legittima, Fca produce in Italia, dobbiamo creare le condizioni perché torni" .
Sfruttare i lavoratori in un Paese e portare le sedi legali in un paradiso fiscale dove il diritto societario, com’è il caso dei Paesi Bassi, è molto semplificato e con una tassazione sugli utili finanziari quasi nulla che assicura che le plusvalenze restino nelle tasche dei padroni delle aziende è una politica in vigore ormai da diversi anni.
Tra i primi a farlo è stata la Fiat, che adesso si chiama Fca, che ha portato la sede fiscale in Olanda dal 2014. Poi è stata la volta di MediaForEurope, la nuova holding che ha unito Mediaset italiana e spagnola.
Poi tanti altri (comprese industrie di proprietà dello Stato italiano) si sono spostati nei Paesi Bassi: Cementir, del gruppo Caltagirone, Eni, Enel, Exor, Ferrero, Prysmian, Saipem, Telecom Italia, Illy, Luxottica Group e molte altri come i giganti del web Amazon, Microsoft, Facebook, Alibaba, Apple, con sedi legali nei paesi a fiscalità agevolata come Irlanda e Lussemburgo in Europa.
Anche Aspi - quella del crollo del ponte di Genova, responsabile della morte delle 43 vittime - di proprietà della famiglia Benetton ha chiesto il prestito agevolato dichiarando che se non le viene concesso qualche miliardo di euro, non farà gli investimenti.
UNITED COLORS OF OFFSHORE – Benetton che battono cassa (lo ricordiamo per chi legge) pagano le tasse in Italia solo dal 2012 quando patteggiarono con il fisco il trasferimento della sede dell’holding “Sintonia” dal Lussemburgo in Italia dopo un lungo contenzioso con il fisco Italiano. L’indagine si è chiusa nel 2012 con un patteggiamento: l’Agenzia delle entrate ha rinunciato a contestare i conteggi degli utili dichiarati in Lussemburgo, quantificati da “Sintonia” in 50 milioni di euro. In cambio, il gruppo Benetton ha pagato 12 milioni e ha trasferito la holding dal Lussemburgo a Milano.
Ormai tutte le multinazionali e i padroni, in base alle disposizioni del Decreto liquidità che stabilisce l'ammontare della linea di credito pari al 25% del fatturato, chiedono soldi pubblici mentre continuano a intascare privatamente i profitti.
Per quanto riguarda FCA, il consolidato delle società industriali del gruppo in Italia è di 6,3 miliardi. FCA in una nota alla stampa e al governo spiega che "l'innovativo accordo riconoscerebbe il ruolo del settore automobilistico nazionale, di cui FCA, insieme ai fornitori e ai partner è il fulcro, nella ripartenza del sistema industriale italiano".
La famiglia Agnelli e soci giustificano la richiesta del prestito ricordando al governo che la società impiega in maniera diretta 55.000 persone in 16 stabilimenti produttivi e 26 poli dedicati alla Ricerca e Sviluppo. Inoltre, "più di 200.000 posti di lavoro nelle 5.500 società fornitrici italiane altamente specializzate, sono direttamente legati al successo della continuità operativa della società. Altri 120.000 posti di lavoro in 12.000 imprese di tutte le dimensioni sono coinvolti nei concessionari e nell'assistenza ai clienti a supporto dell'industria automobilistica italiana. Inoltre, il 40% del fatturato annuale dal settore italiano della componentistica automotive - pari a 50 miliardi di euro - deriva dalle commesse di Fca".
Non c’è che dire: una minaccia neppure troppo velata che prevede, in caso di risposta negativa, gravi conseguenze sull’occupazione nelle fabbriche in Italia.
Ricordiamo solamente che FCA - che oggi chiede il prestito agevolato di miliardi di euro dallo stato italiano - è la stessa società che solo l’anno scorso ha distribuito 2 miliardi di euro agli azionisti per la vendita della Marelli, e che nelle casse del gruppo sono entrati altri 4 miliardi e duecento milioni derivanti anch’essi da tale vendita.
FCA è la stessa che, in piena pandemia, con la fusione con Peugeot distribuirà agli azionisti 5 miliardi e cinquecento milioni di euro di dividendi. Apprendiamo, inoltre, dalla stampa che quest’anno “regalerà” con il dividendo 1 miliardo e cento milioni di euro agli azionisti; si stima poi che FCA abbia circa 18 miliardi di liquidità in cassa.
La questione è che i padroni pensano solo ai soldi e sono senza scrupoli, e queste sanguisughe di FCA, in particolare, sono tra i più voraci. Cos' mentre gli azionisti ingrassano sullo sfruttamento e sulla pelle degli operai, questi – con salari da fame - sono costretti a vivere a livello di sussistenza.
Prendi i soldi e scappa è ormai diventata la costante di tutte le multinazionali. Soldi agli azionisti derivanti dallo sfruttamento operaio e prestiti agevolati dallo Stato, miseria per i lavoratori con decine di migliaia in cassa integrazione e salari da fame appena sopra il reddito di cittadinanza, dopo che sono stati per decenni spremuti come limoni.
Questa vicenda ha portato allo scoperto (caso mai qualche sprovveduto non l’avesse ancora capito) il ruolo dei sindacalisti di Cgil/Cisl/Uil, talmente succubi del padrone che quando parlano non si capisce se sono i rappresentanti dei lavoratori o facciano parte del consiglio di amministrazione di FCA. Rivendicando a gran voce aiuti statali per il padrone di turno, arrivano al punto di arrabbiarsi con il governo perché favorisce la vendita di biciclette al posto delle auto. Al pari dei padroni sostengono la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite.
In cambio del loro servizio a favore dei padroni, i dirigenti sindacali collaborazionisti - controllando, impedendo e mantenendo al minimo la conflittualità - aiutano i padroni a realizzare il massimo profitto attraverso l’intensificazione dello sfruttamento, ottenendo vantaggi e privilegi che li ammettono nei salotti buoni della borghesia imprenditoriale e ai loro delegati RSU, fedeli all’organizzazione, vantaggi in fabbrica liberandoli dal lavoro della catena di montaggio e trasformandoli in guardiani al pari delle guardie aziendali.
Anche in piena emergenza Covid19, la produzione per il profitto non si è fermata, gli operai e i lavoratori hanno continuato a essere sfruttati e a morire sul lavoro e di lavoro, come prima e più di prima. Mentre tutta la popolazione era spaventata dai bollettini di guerra giornalieri degli “esperti” del governo, di scienziati spesso sul libro paga di settori industriali che contavano i morti e i malati costringendoci a restare a casa agli arresti domiciliari, migliaia di operai e lavoratori della sanità sono stati costretti a lavorare e si sono ammalati per mancanza di sicurezza e per mantenere i profitti che si intascano i padroni.
La pandemia ha dimostrato così, ancora una volta, la centralità della classe operaia nel processo di produzione, al di là di tutte le chiacchiere sulla scomparsa degli operai.
Per quanto sia stata tragica la situazione per l’epidemia Covid19, la società non può fare a meno degli operai, mentre può tranquillamente fare a meno dei padroni.
Rubare ai poveri contribuenti (operai, lavoratori e pensionati proletari, e piccola borghesia), ridurre i servizi sociali, sottrarre risorse derivanti dalle tasse dei proletari e delle classi sottomesse al cosiddetto “Stato sociale” per dare soldi ai ricchi borghesi sfruttatori ed evasori è da sempre la costante di tutti i governi dei padroni di qualsiasi colore .
I sostenitori del libero mercato, delle privatizzazioni, del “meno Stato più mercato”, che hanno sempre privatizzato i profitti e socializzato le loro perdite dopo aver delocalizzato, spostato produzioni all’estero e le sedi legali nei paradisi fiscali, mai sazi, oggi rivendicano ancora soldi.
Non basta resistere agli attacchi del capitale
La classe operaia, è legata al sistema del lavoro salariato e deve ricordare che nella lotta economico-sindacale lotta contro gli effetti del sistema di sfruttamento, ma non contro le cause che lo producono. Con questa lotta può soltanto difendersi, frenare il movimento discendente dei salari e delle condizioni di lavoro e di vita, ma non mutarne la direzione; essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Per dirla con Marx “essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società". Invece della parola d'ordine conservatrice: "Un equo salario per un'equa giornata di lavoro", gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario "Soppressione del sistema del lavoro salariato".
Forti sindacati conflittuali, uniti in un fronte di classe, possono essere efficaci come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale, anche se la realtà ha dimostrato spesso la loro inefficienza perché sempre più in concorrenza tra loro invece di unificare le forze.
Non dobbiamo mai dimenticare che anche un sindacato di classe, per quanto forte e combattivo sia nella sua lotta, si limita a combattere una guerriglia contro gli effetti del sistema di sfruttamento esistente.
Noi operai e militanti comunisti dobbiamo invece lavorare per eliminare le cause dello sfruttamento, per trasformare la forza organizzata in una leva per la liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l'abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato, ponendoci l’obiettivo di un’organizzazione politica di classe, un partito della classe operaia e proletaria che lotti per il potere, per un sistema socialista in cui lo sfruttamento degli esseri umani sia considerato un crimine contro l’umanità.
|
luglio 2020 | redazione |
Ex Ilva di Taranto: difesa della salute e difesa d | |
Eraldo Mattarocci
Intervista con Stefano Sibilla, operaio in Cassa integrazione e segretario provinciale di FLMUniti
La questione dell’ex Ilva di Taranto, come tutte le situazioni lavorative in cui vengono contrapposti due diritti fondamentali quali il diritto alla salute e il diritto al lavoro, è dirompente. Ed è appunto su questa contraddizione e so-prattutto sulla necessità dei lavoratori di portare a casa un salario che si è innestata l’azione padronale e governativa (di tutti i governi che si sono succeduti) e che ha permesso ad uno stabilimento siderurgico ormai obsoleto di continuare a produrre, inquinare e uccidere, utilizzando impianti marcescenti e pericolosi nonostante fossero stati messi sotto sequestro dalla magistratura già nel 2012.
Il contributo dato da Fim, Fiom, Uilm e USB nel fare ingoiare ai lavoratori ac-cordi che non tutelano né la salute né i posti di lavoro è stato determinante ed ha creato una spaccatura profonda sia tra i lavoratori e la popolazione, sia tra i lavoratori stessi con una maggioranza subalterna alle scelte padronali e una minoranza critica che ha dichiarato, in maniera forte e chiara, la propria indisponibilità a morire e far morire per poter “vivere”. Ora sembra che si sia arrivati alla resa dei conti perché Arcelor Mittal ha in tutta evidenza deciso di lasciare l’Ilva, dimostrando che quegli accordi, sbandierati come risolutivi sia dal punto di vista occupazionale che da quello ambientale, non valgono la carta su cui sono scritti.
L’atteggiamento ambiguo del Governo che da un lato boccia il “nuovo” piano industriale di Arcelor Mittal presentato il 5 giugno scorso, per gli ulteriori esuberi - peraltro largamente previsti da chiunque abbia un minimo di cultura industriale - mentre dall’altro ipotizza una partecipazione dello Stato nell’azionariato dell’ex Ilva ben testimonia non solo il caos in cui le istituzioni si dibattono ma l’impossibilità di rilancio di un impianto che perde oltre 100 milioni di euro al mese.
Come avrebbero dovuto sapere anche i burocrati sindacali che hanno caval-cato per anni le illusioni derivate dagli accordi, i padroni rilevano fabbriche, le rilanciano o le chiudono, obbedendo sempre e comunque alla legge economica della ricerca del maggior profitto possibile e all’andamento dei mercati industriale e finanziario.
Il settore dell’acciaio attraversava già una crisi di sovrapproduzione al mo-mento dell’acquisto dell’Ilva da parte di Arcelor Mittal, tanto da far pensare che fosse stata fatta proprio allo scopo di chiudere ed eliminare un concor-rente, ovviamente dopo aver spremuto il massimo dagli impianti. Di sicuro non è un’ipotesi peregrina, a maggior ragione se si considerano le scelte che le altre multinazionali dell’acciaio hanno fatto e stanno facendo in Italia: Thyssenkrupp vuole vendere l’acciaieria Ast di Terni, Jindal non ha mai riavviato lo stabilimento ex Lucchini, l’ultimo altoforno delle Ferriere di Servola è stato spento da Arvedi. Se a questi elementi aggiungiamo il crollo costante delle quotazioni in Borsa di Arcelor Mittal, in forte crisi di liquidità, comprendiamo in pieno la sua necessità di sganciarsi dalla siderurgia italiana e soprattutto dallo stabilimento di Taranto, l’unico a ciclo integrale, dove la crisi non è solo di carattere economico ma soprattutto industriale, giudiziario, politico e ambientale. In questo panorama, reso ancor più desolante da una massa operaia subalterna e di conseguenza ricattata e ricattabile, spicca la posizione coraggiosa e controcorrente della sezione tarantina di FLMUniti, ben rappresentata dal segretario provinciale Stefano Sibilla, operaio Ilva in Cassa integrazione, al quale abbiamo rivolto alcune domande.
nuova unità: Qual è la posizione della FLMUNITI in merito all’accordo firmato dai sindacati confederali con Arcelor Mittal?
Stefano Sibilla: In merito alla firma dell’accordo tra Arcelor Mittal e i sindacati confederali è in netto contrasto con la nostra posizione, perché non tutela né salute né occupazione, come dimostra il “nuovo” piano industriale presentato da Arcelor Mittal che annuncia altri 3200 esuberi. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che il processo produttivo del siderurgico di Taranto, soprattutto l’area a caldo, provoca malattie e morte, mettendo in costante pericolo non solo i lavoratori direttamente esposti ma i cittadini tutti, in particolar modo quelli che abitano a ridosso dello stabilimento, come il quartiere Tamburi. Per chiarire ancora meglio il contesto, è documentato che gli agenti tossici producono non solo un impatto a lungo termine con l’insorgenza di tumori, ma anche un impatto immediato, quali gli infarti che hanno un aumento negli stessi giorni in cui si verificano incrementi di polveri sottili.
Sono stati condotti diversi rilievi e studi scientifici, in periodi diversi. Tutti hanno dimostrato che le sostanze cancerogene presenti sono al di sopra dei livelli di pericolosità sia nei terreni che nelle acque sotterranee (mercurio, i-drocarburi pesanti, benzoantracene, benzopirene, solfati floruri etc.) oltre ad una contaminazione diffusa in tutto il sito (arsenico, alluminio, cadmio, cobalto, nichel etc.). Quindi a fronte di questi elementi è chiaro che quella fabbrica non è più compatibile con la vita umana.
nuova unità: Nell’accordo del 6 settembre 2018, ci sarebbe l’impegno di Arcelor Mittal a bonificare il sito?
Stefano Sibilla: Se è per quello c’è anche l’impegno ad ampliare l’occupazione e si è visto giusto ora che invece la stanno riducendo, cosa già chiara all’atto della firma. La bonifica è una farsa, malamente mascherata dalla struttura di copertura dell’area dei parchi minerali (lunga 700 metri, larga 254 ed alta 77), basta guardare le immagini del 4 luglio 2020 durante una tempesta di vento, quello che ha provocato sul quartiere Tamburi e gran parte della città tra polveri di ossido e minerali che si sono depositati anche in mare e terreni, nonostante ci sia la copertura dei parchi. Il sistema adottato dall’azienda è un sistema di emergenza che viene chiamato “pump e trat”e non ha nulla a che fare con il tipo di bonifica del sito che dovrebbe essere effettuata per risanarlo effettivamente. Il pompaggio riguarda solo le acque di falda superficiali che scorrono sotto i parchi a circa 2 metri, mentre le acque di falda profonde scorrono a 15/20 metri e finiscono nel mar Piccolo e nel mar Grande con danni immensi all’ecosistema e alla mitilicoltura.
A fronte dell’inutilità della copertura, per quanto riguarda le altre opere di bonifica, è stato nulla è fatto, anche perché bonificarte significa eliminare le fonti inquinanti ed avviare il processo di bonifica. Altrimenti non ha senso.
nuova unità: Molti accusano FLMUniti di essere per la chiusura dello stabilimento, infischiandosene dei problemi occupazionali. Quali sono le vostre proposte?
Stefano Sibilla: Noi crediamo che l’alternativa ci sia ma che essa debba passare necessariamente attraverso la chiusura delle fonti inquinanti e alla bonifica del sito, sia degli impianti che dei terreni sottostanti altamente con-taminati, utilizzando - dopo un’accurata formazione - i lavoratori dello stabili-mento compresi quelli dell’indotto ed ovviamente quelli attualmente in CIG. La tecnologia utilizzata nello stabilimento di Taranto, in maniera particolare nell’area a caldo, è talmente obsoleta e gli impianti sono talmente decotti che non è possibile nessun innesto di nuove tecnologie che pure esistono da tempo (autoproduzione di energia elettrica per alimentare i forni, utilizzo dell’energia al plasma per ridurre le immissioni nocive) e che in altri paesi, ad esempio nello stabilimento siderurgico di Lintz in Austria, vengono utilizzate con un impatto ambientale bassissimo. FLMUniti è un sindacato dell’industria, com'è possibile pensare che non ci poniamo il problema del mantenimento della siderurgia nel nostro Paese?
Di sicuro non pensiamo neppure lontanamente di continuare a produrre ac-ciaio utilizzando il carbone, ammesso e non concesso che l’Europa, ormai o-rientata verso il nuovo business della green economy, ce lo permetta. A tal proposito il nostro sindacato è stato promotore insieme a varie associazioni del territorio di un Piano Taranto, che non è altro che linee guida per la ri-conversione industriale green del territorio. Queste linee guida sono aperte anche ad altre iniziative a chiunque voglia inserire nuovi progetti per cercare di arrivare con un accordo di programma.
nuova unità: A proposito di Europa, ci risulta che un gruppo di lavoratori dell’ex Ilva abbia inoltrato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A che punto è la procedura?
Stefano Sibilla: Nel giugno 2017 un gruppo di lavoratori e cittadini patrocinato da FLMUniti con l’aiuto di legali fortemente motivati, si è rivolto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Giusto prima del lockdown dovuto a Covid 19, mi sono recato a Strasburgo, insieme con il segretario nazionale Antonio Ferrari e con Maurizio Puma del Direttivo nazionale, ad una conferenza presso la Corte che ha riservato alle nostre motivazioni una forte attenzione. Stiamo attendendo la pronuncia della Corte confidando nella condanna dello Stato italiano.
Di sicuro questa condanna non sarebbe risolutiva, ma rafforzerebbe la posi-zione del nostro sindacato. Rimane chiaro che la vittoria o la sconfitta non dipendono dai tribunali, europei o nazionali che siano, ma dalla mobilitazione dei lavoratori su obiettivi chiari e condivisi anche dalla popola-zione.
|
luglio 2020 | redazione |
Le trappole dello smart working | |
da un gruppo di lavoratori
L’ennesimo strumento ideato dall’impresa per massimizzare i profitti senza dover fare investimenti, innovazione o formazione
Con il favore della crisi sanitaria, che impone scelte radicali, la narrazione liberista prova a descrivere lo smart working come la nuova frontiera del lavoro, densa di opportunità. I benefici possono essere notevoli in molti casi, ma lo sono anche le trappole che nasconde. Si tratta davvero di un trampolino verso il lavoro futuro, o piuttosto di una finestra che può farci riaffacciare pericolosamente sul passato?
Si è fatto un gran parlare di smart working da quando l’epidemia Covid-19 ha imposto a molti il lavoro da casa. Dal 23 febbraio, nel giro di poche settimane il numero di persone a utilizzare questa modalità di lavoro è più che raddoppiato in Italia, superando 1,8 milioni (dati Ministero del Lavoro, 1/5/2020).
Per alcuni versi è stato il modo per garantire una fonte di reddito, evitando di ricorrere agli strumenti ben più temibili delle casse integrazione e dei licenziamenti. D’altra parte, la celebrazione di questo strumento da parte della politica e dei mezzi di informazione, spesso con toni eccessivamente entusiastici, non ha trovato sempre una corrispondenza nella realtà pratica.
Con lo smart working, com'è noto, non vige l’obbligo di doversi recare sul luogo di lavoro, si può al contrario lavorare ovunque ci siano le condizioni necessarie per svolgere in sicurezza le proprie mansioni. Non si è inoltre tenuti ad osservare orari di lavoro prestabiliti, con la facoltà quindi di gestirsi in autonomia le otto ore della giornata lavorativa.
È innegabile che il lavoro in regime di smart working porti dei vantaggi per quanto riguarda il bilanciamento vita-lavoro: la riduzione degli spostamenti e dei relativi costi, la diminuzione delle emissioni inquinanti. Molti lavoratori sperimentano con lo smart working condizioni di vita migliorate, soprattutto considerando le situazioni dei pendolari con lunghe tratte di percorrenza quotidiana.
Si riesce a minimizzare i tempi morti, ritagliandosi spazi per riorganizzare impegni personali in orari che diversamente sarebbero impossibili, e rimane più tempo anche per gestire le incombenze domestiche.
In queste settimane la decretazione d’emergenza ha temporaneamente liberalizzato lo smart working, consentendo l’accesso ad una platea molto vasta di lavoratori che hanno usufruito per la prima volta delle possibilità suddette.
Il lavoro agile del resto ha molti altri aspetti meno edificanti, che a occhi poco attenti possono sfuggire in un primo momento.
Non ci riferiamo solo a quegli inconvenienti che ben presto vengono riscontrati, cioè la frequente inadeguatezza delle postazioni di lavoro domestiche, con gli inevitabili mal di schiena e mal di testa che la posizione scorretta comporta.
Non ci riferiamo neanche a quell’altro effetto collaterale, seppur molto serio, che è l’isolamento, il calo drastico della possibilità di contatto sociale, di confronto e crescita che un ambiente di lavoro tradizionale dovrebbe teoricamente garantire. Questi fattori nel lungo periodo iniziano a pesare sensibilmente sull’umore e sulla motivazione del lavoratore.
Partiamo semmai dalla considerazione che lo smart working rappresenta un enorme risparmio dal punto di vista aziendale.
Si abbassano prima di tutto i costi di struttura: pochi dipendenti in sede contemporaneamente significano bollette più basse per energia, acqua e gas; la possibilità di locali più piccoli e quindi di affitti più bassi; si risparmia sulle spese di pulizia; si risparmia sui costi di mensa e buoni pasto.
Il punto è che quasi tutte queste voci ricadono invece sulle spalle del dipendente, le cui spese aumentano per i pasti da consumare, per il riscaldamento invernale e per il condizionamento estivo dell’aria, per le altre utenze domestiche, oltre che per la connessione internet e l’eventuale computer, che non sono disponibilità gratuite o da dare per scontate.
Oltre a questo, diversi studi indicano che il rendimento del lavoratore in smart working cresce mediamente del 20%, a tutto vantaggio del datore di lavoro.
L’immagine idilliaca del dipendente che lavora sereno all’ombra di un pergolato, padrone dei propri spazi e dei propri tempi, si scontra con quella più realistica del lavoratore costretto a condividere connessione internet e ambiente domestico, spesso privo del diritto alla disconnessione e con tendenza a lavorare ben oltre le otto ore quotidiane. Situazione aggravata ancor di più, in questo periodo di emergenza sanitaria, dalla necessità di conciliare il lavoro con la presenza di eventuali coniugi e figli, questi ultimi costretti in casa dalla chiusura delle scuole fino a data da stabilire.
Soprattutto, le ricerche evidenziano che il lavoro smart, senza adeguati vincoli, tende a spostarsi in molti casi dal lavoro su base oraria verso il lavoro ad obiettivi. Uno scenario frequente è questo: al datore di lavoro non importa come il dipendente distribuisca nella giornata le ore di lavoro (meglio, perché così perde senso il concetto di straordinari, e si ha il pretesto per fare richieste in orari improbabili), in realtà non interessa neanche più molto se lavora le classiche otto ore, basta che sia tutto pronto per dopodomani. Il risultato è che quello che sulle prime sembra una conquista di libertà, nelle mani delle imprese più aggressive e nei confronti dei dipendenti più precari diventa presto uno scivolamento verso il cottimo, un ritorno a modalità di lavoro domestiche pre-industriali, ottocentesche, con carichi di lavoro superiori al consueto.
In sostanza lo smart working, ad un livello più generale, costituisce l’ennesimo strumento ideato dall’impresa per massimizzare i profitti senza dover fare investimenti, innovazione o formazione. Le aziende riescono così a essere più competitive, semplicemente erodendo reddito dai lavoratori.
Questa ennesima estrazione di profitto alimenta un enorme trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto (dal lavoro al capitale, come sarebbe più corretto dire) che a livello globale si stima raggiungerà i 10.000 miliardi di dollari entro il 2030 (fonte Regus).
Senza considerare le agevolazioni fiscali riservate alle imprese che adottano modalità di lavoro agile, un’ulteriore deviazione di risorse pubbliche dai lavoratori verso le imprese.
In questo quadro che già di per sé chiarisce gli interessi in gioco, si aggiunge la difficoltà per i lavoratori di organizzarsi e lottare per i propri diritti. Quando il lavoro si frammenta, e si è divisi non più solo in piccole unità lavorative, ma addirittura atomizzati come entità lavorative individuali, ogni rivendicazione sindacale può diventare un obiettivo irraggiungibile per l’ovvia difficoltà di confrontarsi e riunirsi, anche fisicamente.
In questo senso lo smart working rappresenta a nostro avviso l’ultima tappa di quell’imponente processo di ristrutturazione capitalistica che già a partire dagli anni ’70 ha avuto la funzione di neutralizzare le lotte sindacali e annichilire il movimento operaio.
Per riuscire a smontare coesione e potere contrattuale dei lavoratori, non ci si è serviti solamente dell’automazione, del toyotismo, della precarizzazione, della disoccupazione strutturale, delle delocalizzazioni, delle esternalizzazioni, della rottura dell’unità dei lavoratori dividendoli per livelli. Si è agito anche attraverso il progressivo frazionamento delle masse lavoratrici su unità produttive più piccole, fenomeno di cui lo smart working rappresenta oggi il punto di arrivo. La disgregazione del corpo lavorativo oggi è ai massimi storici, al contrario dell’organizzazione sindacale dei lavoratori.
In questa vera e propria guerra di classe condotta dall’alto, che punta a riprendersi quanto è stato conquistato prima degli ultimi quarant’anni, si colloca anche l’altro fronte aperto per indebolire l’avanzata delle rivendicazioni operaie, quello culturale.
L’impresa si propone sempre più come sponsor dei nuovi valori dell’attuale pensiero dominante, quello fondato sui miti della competizione e del successo, sul primato dell’individuo sul collettivo, sulla leadership, sul talento, con i quali punta a dotare il lavoratore di nuove lenti di lettura del mondo, privandolo delle sue storiche categorie concettuali, quelle di classe.
In questa ottica vanno viste le attività di team building, le feste, i regali, i momenti motivazionali, l’adozione di ritualità e codici di comunicazione propri, la retorica dell’interesse comune azienda/lavoratori.
Strategie che mirano a promuovere un universalismo culturale aconflittuale ed entusiastico, ad addomesticare il consenso del dipendente, ad incentivarne l’identificazione nell’azienda. Strategie funzionali in ultima istanza a stroncare ogni residuo antagonismo di classe tra capitale e lavoro, ancora oggi la bestia nera per l’impresa.
L’attuale pandemia rappresenta un’opportunità unica per l’impresa di accelerare il processo di diffusione delle modalità di lavoro agili e informali, ora che lo Stato ha eliminato rapidamente ogni vincolo di accordo sindacale e ne incentiva l’adozione, mentre le classi dirigenti inviano i loro esponenti e i loro tecnici a magnificare su tutti i mezzi di informazione i miracoli che lo smart working promette.
È chiaro che non tutte le aziende contribuiscono consapevolmente a questo processo di ridefinizione del rapporto di lavoro, molte più pragmaticamente ne sfruttano solo i vantaggi. Quello che è certo è che ne sono ben consapevoli le loro associazioni di categoria, Confindustria in primis, che hanno individuato un nuovo strumento per accrescere i margini di profitto e il comando sul lavoro, e come tale lo incoraggiano presso i propri associati.
Lo smart working può essere in definitiva uno strumento utile nelle mani dei lavoratori, solamente quando è un’opzione e non un obbligo.
Sta a noi utilizzarlo intelligentemente perché le sue modalità di fruizione garantiscano tempo liberato dal lavoro, usandolo e non facendosene usare come nuova modalità di sfruttamento.
Sta a noi fare in modo che non rappresenti l’atto finale di quella controrivoluzione neoliberista che pezzo per pezzo sta provando a smontare il ruolo dei lavoratori e i loro diritti, così faticosamente conquistati nel tempo.
|
luglio 2020 | redazione |
La prateria brucia | |
La prateria brucia
Daniela Trollio (*)
Il 25 maggio George Floyd, un afroamericano di 46 anni disoccupato, viene ucciso a Minneapolis da 4 poliziotti. Non è il solo e non è il primo ma è la scintilla che incendia la prateria. La protesta dei neri, dei giovani antifascisti, dei disoccupati, della gente comune dilaga in tutti gli Stati Uniti. Centinaia di migliaia di manifestanti si scontrano nelle strade con la polizia, con la guardia nazionale, affrontano gas e pallottole di gomma e arrivano fino a Washington dove, in una dimostrazione di grande coraggio, il presidente Donald Trump – dopo aver minacciato di far sparare ai manifestanti - non solo fa erigere in tempi strettissimi una cancellata attorno alla Casa Bianca, ma cambia velocemente casa e si fa rinchiudere nel bunker progettato per un’eventuale guerra nucleare. Anche al di là dell’oceano si trovano i Franceschiello…
La prateria brucia, lo dicono i numeri: le proteste avvengono in più di 40 grandi città (in totale in più di 500 tra città e paesi), in vari Stati viene decretato il coprifuoco e viene mobilitato il più numeroso contingente della Guardia Nazionale, 10.000 persone vengono arrestate.
Non solo negli USA ma in tutto il mondo si manifesta contro il razzismo e contro la polizia (compresa quella del proprio paese), identificata come il braccio armato di un sistema profondamente brutale e ingiusto.
Trump chiede che scenda in campo l’esercito ma i suoi generali si rifiutano di mobilitare i soldati.
Purtroppo non c’è bisogno di andare molto lontano per capire il perché ed è un perché che spiega molte cose, non solo degli USA ma anche di casa nostra. Non esiste, se non in minima parte (come dimostra l’esistenza di “Antifa”, il gruppo antifascista accusato da Trump di terrorismo e che torna alla luce quando scoppiano queste lotte), un’organizzazione stabile del proletariato americano che si ponga l’obiettivo dell’abbattimento del sistema capitalista e sia in grado di portare questa idea all’interno della classe.
Il PC nordamericano da molti anni fa delle elezioni il banco principale della “lotta”, rinunciando alla critica di classe. Molte delle avanguardie che si sono espresse nel corso di più di 50 anni hanno finito per adagiarsi nelle pieghe del sistema stesso, nelle università, nelle accademie. Non da oggi sono quelli che propongono politiche di riforma e inclusione, di non discriminazione, la “diversità” e il “multiculturalismo”: i rappresentanti del capitale globale hanno buon gioco, nessuno mette in discussione il sistema e viene così cancellato (come è successo anche in Europa) il linguaggio di classe e con esso la coscienza, l’identità di classe. In questi giorni bollenti giornali, televisioni, star della politica, del cinema, dello sport sono tutti pronti, apparentemente, a sostenere le rivendicazioni dei manifestanti. Ma se abbattere statue è un atto di giustizia simbolica, non mette minimamente in discussione il sistema.
D’altra parte bisogna riconoscere una cosa: il maccartismo, l’odio per il comunismo organizzato dallo Stato, è nato ed ha prosperato per anni e anni negli Stati Uniti. E questo vuol dire qualcosa anche rispetto allo scollamento tra il movimento sociale di protesta che riempie le strade e una avanguardia organizzata che potrebbe dare una prospettiva anti-capitalista a coloro che si battono per un mondo più giusto.
Sappiamo, per averlo già visto e sperimentato in molte altre occasioni, che dalle crisi il capitale esce facendo pagare alle classi subalterne le sue perdite, sia economicamente che dal punto di vista della militarizzazione della società. Dal 2008 abbiamo vissuto una crisi continua che ha visto una grande risposta a livello globale. Infatti, prima che un ‘provvidenziale’ Covid-19 svuotasse le strade, una nuova ondata di lotte aveva percorso il globo – dalla Francia all’Iraq, dal Cile al Libano, all'India e agli stessi Stati Uniti.
Ora milioni di persone in tutto il mondo si sono ribellate contro il razzismo, prodotto del capitalismo e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La loro rabbia, la loro volontà di conquistare un mondo diverso, che ha riportato nelle strade milioni di proletari, può essere l’occasione di un’unione tra antirazzismo e anticapitalismo, l’occasione per ricordare che “il capitalismo non è la soluzione, è il problema”...
(*) CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni
|
marzo | redazione |
da nu. 1 | |
LA NUOVA RUSSIA DEL CAPITALISMO ELTSINIANO-PUTINIANO
Proteste manifestazioni e scioperi ignorati dai mass media che si occupano solo dell'opposizione liberal-borghese o confessionale
Per qualche ragione, l'atteggiamento di molta pubblicistica di sinistra (qualunque significato si attribuisca al termine) nei confronti della Russia odierna si divide in due grandi filoni. Da un lato, la venerazione di tutto quanto proviene da Mosca, ignorando persino le critiche rivolte al Cremlino dal KPRF di Gennadij Zjuganov (non certo un partito “bolscevico”), di cui, pure, spesso ci si fa portavoce. Dall'altro, il completo silenzio su qualsiasi manifestazione dell'opposizione che non sia quella liberal-borghese o confessionale, come se altra non ne esistesse.
Raro leggere qualcosa, ad esempio, sui 200 dipendenti licenziati dai supermarket SPAR e SemJA di Pietroburgo, caricati il 30 dicembre dalla polizia mentre stavano picchettando gli uffici di Intertorg, chiedendo il pagamento di 10 milioni di rubli di salari arretrati. Lo stesso giorno, a Mosca, una cinquantina di custodi addetti a manutenzione e pulizia dei caseggiati del rione “Lomonosov” avevano chiesto un incontro con l'impresa, per lamentare l'organico ridotto alla metà, il non esser ammessi al convitto se non dopo le 18, anche se malati (sono tutti migranti da altre Repubbliche dell'ex URSS, privi di abitazioni, con salari dai 20 ai 27mila rubli: 3-400 euro) mancata fornitura di tenute invernali e di materiali. Il direttore li sbatte fuori dell'ufficio e loro cominciano la protesta in strada. Risultato: tutti alla stazione di polizia e in tribunale.
A metà dicembre c'è stata una settimana di “sciopero all'italiana” (seguendo alla lettera regolamenti e istruzioni) dei conducenti di tram a Pietroburgo, contro la videosorveglianza e la perdita dei premi alla minima infrazione. Si chiedeva anche la modifica dell'impianto salariale, che ora dipende dal numero di corse, il che li costringe a velocità pericolose, con conseguenti incidenti, anche mortali. Manifestazioni di protesta si sono avute al cantiere navale di Kostroma, per i salari in arretrato di due mesi; uno sciopero dei caldaisti a Blagoveščensk, per un ritardo di sei mesi; a fine dicembre avevano manifestato i mille lavoratori moscoviti dello stabilimento di Karačarovskij, contro la liquidazione dell'azienda.
Ma, per molti lavoratori, non c'è alcun contratto e non conoscono il padrone, che si rivolge loro via Instagram. Cose che accadono quotidianamente in ogni paese capitalista che si rispetti.
Denis Šafen, presidente del sindacato regionale di Murmansk per la S.p.A. “Tander”, da cui dipende la catena alimentare “Magnit”, descrive la situazione in tali negozi. Non ci sono cassieri o magazzinieri: ci sono solo commessi; e per lo più donne, che lavorano 13-14 ore al giorno, con un breve intervallo per il pranzo. Sono loro a occuparsi di tutto: casse, prodotti sugli scaffali, spingono carrelli; si occupano spesso del controllo delle merci, che di solito si effettua alle 4-5 di mattina. Alla vigilia del controllo, preparano il negozio e dunque si trattengono fino all'1 e alle 2 del mattino. Tutto questo tempo, ovviamente, non è pagato come dovrebbe. Si riduce continuamente l'intervallo del pranzo; non si tien conto degli straordinari, che sono pagati una misera o non pagati affatto.
Il salario ufficiale di un commesso, dice Šafen, è di 16-19.000 rubli, compresi i premi: ma di rado raggiunge il “minimo salariale”. Il salario base è 4.000 rubli e i premi sono a discrezione del padrone: il Codice del lavoro gli permette di pagarli o no. Poi ci sono le multe: una commessa sta togliendo i prodotti scaduti e all'improvviso la chiamano alla cassa, il controllore urla che è arrivato il camion e c'è da scaricarlo e lei non fa a tempo a mettere le etichette dei prezzi. Con una tale disorganizzazione, è impossibile che non ci siano mancanze e il padrone le compensa con le multe sui salari. Così che c'è un grosso ricambio di personale: spesso le persone se ne vanno dopo il primo stipendio.
A proposito del “minimo salariale”, si deve osservare che, secondo il KPRF, è oggi di 12.130 rubli, ossia 188 dollari, inferiore a quello della maggior parte dei Paesi latino-americani, dell'Africa sub-sahariana (Gabon: 270$; Guinea Equatoriale: 224 $) e persino dell'Ucraina, che lo ha ora portato a 199 dollari. La frazione del KPRF alla Duma aveva presentato un disegno di legge per portarlo a 25.000 rubli, ma vi si è opposto il partito governativo Russia Unita. La Federazione dei Sindacati Indipendenti, chiede addirittura un “paniere di consumo” minimo di 40.000 rubli.
La protesta operaia
Pur se appare difficile parlare di movimento operaio vero e proprio, ancor meno guidato da organizzazioni di classe, proteste e manifestazioni operaie abbracciano più o meno tutta la Russia, anche se sui media occidentali non riscuotono la stessa visibilità dei “ragazzi di Navalnyj” o delle ONG liberal-religiose. Secondo la rete web “ZabastKom” (zabastovka= sciopero – dall'italiano “basta”) la maggior parte delle proteste operaie nel 2019 è stata innescata da bassi salari e ritardi nella riscossione: a luglio 2019, i lavoratori aspettavano ancora 2,57 miliardi di rubli.
Rispetto al 2018, però, la causa primaria dei conflitti è passata dai ritardi (30,4% dei casi) ai livelli salariali (33,6%); seguono, chiusura di aziende, condizioni di lavoro, licenziamenti. La maggior parte delle vertenze si è registrata in trasporti, manifatture e sanità; quindi: industria estrattiva, edilizia, istruzione e scienza, servizi pubblici, commercio. Si è trattato per lo più di richieste rivolte direttamente al padrone, scioperi e manifestazioni, con alterni risultati. Oltre il 77% dei conflitti ha visto una vittoria più o meno parziale e nel 35% dei casi le richieste dei lavoratori sono state pienamente accolte.
Renat Karimov, leader del sindacato dei lavoratori migranti, dice che “il movimento operaio russo è abbastanza organizzato nei settori in cui i posti di lavoro sono legali e necessitano di lavoro specializzato: il settore dei trasporti, ad esempio, o dei marittimi. Ha avuto successo la lotta di piloti e assistenti di volo, contro la riduzione di giornate libere. Ma c'è un “settore” gigantesco di 15-20 milioni di persone, di fatto senza contratti: per quegli operai è molto difficile la difesa dei diritti”.
Il vice presidente della Confederazione del lavoro, Oleg Šein, a suo tempo tra gli esponenti del RKRP, oggi deputato del socialdemocratico “Russia Giusta”, attacca il Codice del lavoro adottato nel 2001 (i precedenti risalivano al 1918, 1922 e 1971) che in pratica, dice, “aumenta l'orario di lavoro, con conseguente forte aumento degli incidenti. Col nuovo codice, inoltre, di fatto i sindacati hanno perso la possibilità di rappresentare i lavoratori. Occorrono cambiamenti nella legislazione sul lavoro” dice Šein, che “allarghino i diritti dei sindacati; ma ciò è possibile solo con cambiamenti politici, per i quali siamo molto indietro”.
Karimov lamenta soprattutto la carenza di sindacati combattivi, di un forte partito proletario: le persone sono disperse, i conflitti di lavoro sono di natura locale, dice; non ci sono scioperi di solidarietà, che d'altronde sono proibiti dall'attuale legislazione. Attraverso il Partito comunista, i lavoratori sono rappresentati nell'arena politica, ma sono rappresentati in forma distorta, che non corrisponde al loro ruolo nella società. C'è molta ingiustizia sociale: le persone con ricchezze miliardarie continuano ad arricchirsi e i restanti milioni di persone diventano più povere”.
Viktor Kotelnikov, sindacalista di Samara, dice che la mostruosa stratificazione tra ricchi e poveri porterà a un corto circuito. Si sono formate tre classi, dice: la prima è costituita dall'amministrazione feudale dei vertici del potere, che ci deruba con le imposte indirette; la seconda dai proprietari dei mezzi di produzione, proprietari di fabbriche, palazzi, navi. Infine, la classe operaia, che conduce un'esistenza miserabile: prima viene spolpata dai capitalisti; poi, ciò che rimane, va alla burocrazia.
Scelte liberali
Intanto, si riduce ulteriormente il controllo statale su imprese strategiche, quali Sovkomflot, RusGidro, Transneft, Rostelekom, Ferrovie, Aeroflot, Rosselkhozbank. Tutte aziende che nel 2018 avevano portato alle casse federali utili fino al 65% più del 2017. E le privatizzazioni portano al declino del potenziale industriale. Secondo lo scienziato Jurij Savelev, dalle “80mila macchine utensili prodotte nel 1985, si è scesi a 9.000 nel 2000, a 4.232 nel 2018. Compriamo tutto all'estero”.
È così che si approfondisce sempre più il divario tra miliardari – i vari Potanin (Nornikel), Alekperov (Lukoil), Mordašov (Severstal), Abramovič (Evraz) - dei settori energetico, chimico, metallurgico, e il resto della popolazione: dal 2010 al 2019, i primi hanno incrementato i propri patrimoni di decine di miliardi dollari, mentre i redditi della popolazione sono diminuiti dell'8,3%. Pare che il 3% dei più ricchi detenga l'89% delle risorse finanziarie del paese. Secondo il KPRF, la povertà sta attanagliando sempre più non solo gli anziani, falcidiati dall'innalzamento dell'età pensionistica: il 61% delle persone tra i 18 e i 40 anni sarebbe oltre la soglia di povertà.
Il “coefficiente Gini” del livello (da 0 a 1) di stratificazione sociale, dice l'analista Aleksej Korenev, è “oggi per la Russia di 0,44, più o meno lo stesso dell'impero romano al suo massimo splendore; mentre in epoca sovietica era di 0,25 e solo a fine anni '80 era salito a 0,28: grosso modo quanto è oggi nei paesi scandinavi”. Ma, evidentemente, il governo giudica ancora troppo basso lo 0,44; ecco dunque che l'IVA, passata nel 2019 dal 18 al 20% per tutti, viene eliminata per quei “poveri” oligarchi “gravati” da sanzioni occidentali. Quanto a tasse, nulla di più sfacciato della flat tax: ci sono 5 diversi coefficienti (dal 9 al 35%, a seconda di stipendio, dividendi, obbligazioni, lotterie, ecc.), ma quello base, uguale per tutti, è al 13% e la maggioranza governativa alla Duma ha sempre respinto ogni progetto di tassazione progressiva. Non ha dubbi Nikolaj Arefeev del KPRF: “Il governo lavora per l'oligarchia! Se un oligarca viene privato di una proprietà da un tribunale straniero, viene compensato dal bilancio russo; se all'estero è soggetto a sanzioni, non paga le tasse in Russia”.
È in questa situazione che si accentua il calo di popolazione che, scrive ROTFront "va avanti dagli anni '90, dalla vittoria del capitalismo. Un calo favorito da impoverimento, declino degli standard di vita, colpi ricevuti da istruzione e sistema sanitario, che hanno determinato il calo di aspettativa di vita e natalità, unite all'aumento della mortalità. L'innalzamento dell'età pensionabile sta ora facendo il resto”.
Secondo il demografo Vladimir Timakov, “intorno al 2050 la popolazione russa sarà ridotta a circa 120 milioni, rispetto ai 146 attuali”: effetto delle riforme liberali eltsiniane, della catastrofica situazione economica e socio-assistenziale, che negli anni '90 e 2000 fecero registrare una “mortalità record”. Negli anni eltsiniani, dice Timakov “le perdite sono state di 12 milioni di nati in meno e 7 milioni di morti in più: un calo di 20 milioni di persone”.
Un nuovo zarismo?
Se il KPRF dice che “il sogno dell'oligarchia al potere in Russia è di ripristinare il tipo pre-rivoluzionario di società divisa in ceti”, c'è chi replica che “abbiamo già una società di censo, medievale. Lo strato superiore dei ricchi detiene quasi tutta la ricchezza, commercia in risorse naturali, che invece dovrebbero appartenere al popolo”. Dunque, “come possono non sentirsi nuovi principi e conti, ai quali tutto è permesso e ai quali la vita sembra una fiaba? Hanno accesso alla migliore medicina, hanno residenza all'estero, i loro figli studiano all'estero. Chiaro che considerino tutti gli altri bestiame, come i servi della Russia zarista. Nel 1917 il popolo smise di sopportare, mentre oggi noi tolleriamo in silenzio”.
In definitiva, si può concordare con i comunisti del RKRP, a proposito della famosa frase di Putin, che "il crollo dell'URSS è la più grande catastrofe geopolitica del secolo". In realtà, il crollo dell'URSS rappresentò “un'intera serie di catastrofi: ideologica, socio-economica, demografica. Ma il liberale Putin si rammarica solo del lato geopolitico. Lui non rimpiange il sistema economico sovietico e le sue conquiste sociali: assenza di disoccupazione, istruzione e sanità gratuite. Oltretutto, su scala geopolitica, l'URSS non sarebbe stata un ostacolo, per i liberali, nel defraudare il sottosuolo e venderne il bottino. Putin si rammarica però solo del crollo geopolitico: non del sistema sociale”.
È il capitalismo. Come diceva il vecchio Sismondi “L'uomo isolato accumulava i prodotti per utilizzarli dopo; l'uomo sociale vede ammassare il frutto dei suoi sudori da parte di colui che li godrà”.
|
marzo | redazione |
da nu. 1 | |
ORGANIZZARSI PER ROMPERE LE CATENE DELLO SFRUTTAMENTO
Davanti all’attacco borghese la lotta della classe oppressa e sfruttata deve superare le decine di organizzazioni sedicenti comuniste che disperdono in mille rivoli le poche avanguardie coscienti, facendoli combattere in ordine sparso
Anni di battaglie operaie, proletarie e sociali hanno prodotto molte avanguar-die di lotta. Oggi è arrivato il momento - e ne siamo in grado - di cominciare a fare un bilancio basandoci su dati concreti.
Lotte di resistenza, a volte eroiche, che però non sono riuscite a formare a-vanguardie comuniste. La mancanza di un’organizzazione politica unitaria del-la classe rappresenta il fallimento di tutti noi impegnati da decenni nel tenta-tivo di costruire un’organizzazione dei comunisti in Italia e, sebbene ne siamo in parte tutti responsabili, la responsabilità più grave è quella degli intellettua-li e dei dirigenti dei vecchi partiti pseudo comunisti e revisionisti.
Alcune di queste forze – il PCI e successivamente Rifondazione Comunista e il Pdci - una volta nell’area del governo sono state responsabili delle guerre im-perialiste, chiamandole “umanitarie” o “missione di pace”, difendendo gli inte-ressi del capitale e dell’imperialismo italiano nel mondo, tradendo la stessa “Costituzione nata dalla Resistenza” (Costituzione borghese frutto di rapporti di forza dopo la lotta antifascista/antinazista), negando persino l’art. 11 che recita: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli al-tri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”.
Gli operai comunisti che hanno preso coscienza e conoscono le leggi che stanno alla base della società capitalista sono quadri capaci di organizzare, o-rientare, dirigere sia le lotte sindacali, economiche e sociali che politiche, sia parziali o generali, e oggi sono in grado di non delegare più agli intellettuali la costruzione del loro partito.
Gli intellettuali di cui oggi ha bisogno la classe operaia sono gli operai che, at-traverso lo studio e la comprensione dei classici del marxismo-leninismo, hanno assimilato nello scontro di classe e nel rapporto prassi-teoria-prassi la giustezza di questa teoria.
Gli intellettuali e i militanti comunisti provenienti da altre classi sociali diven-tano intellettuali rivoluzionari e sono benvenuti nelle nostre file solo se si pongono al servizio della classe e del loro partito.
L’esperienza storica ci insegna che pochi quadri comunisti ma organizzati, possono essere egemoni sulla grande massa e che anche un’organizzazione piccola può essere alla testa di grandi masse.
In questi anni la mancanza di una politica di classe, marxista, ha contribuito a sottomettere gli operai ai partiti borghesi. Evidente a tale riguardo è la divi-sione prodotta dalla separazione fra lotta economica e politica, che ha visto da una parte coloro che lottavano per costruire il “sindacato di classe” e dall’altra quelli che concepivano la lotta politica come mera lotta parlamenta-re e istituzionale. Concezioni che hanno cristallizzato la frammentazione e fa-vorito la dispersione delle lotte in mille rivoli di conflitti parziali, in aziende, fabbriche, settori produttivi e territorio portandole, a volte anche di là dalle loro intenzioni, tra le compatibilità borghesi.
La divisione delle organizzazioni rivoluzionarie - in Italia come altrove - non è solo soggettiva e organizzativa, deriva da condizioni materiali e storiche. Il capitalismo e l’imperialismo, da sempre, corrompono strati di aristocrazia o-peraia e dirigenti di movimenti pseudo-rivoluzionari, concedendo briciole deri-vanti dai sovrapprofitti a capi e capetti che si ritagliano i loro piccoli spazi e prosperano nelle nicchie del sistema.
Quindi, anche se la classe è una, oggi purtroppo sono molte le organizzazioni e i partiti sedicenti “comunisti” che si arrogano il diritto di rappresentarla pre-sentandosi come l’unico vero e autentico partito comunista. Spesso queste organizzazioni e mini-partiti - alcuni senza un operaio al loro interno - in con-correnza feroce fra loro, non riescono a trovare momenti di unità d’azione neanche nella lotta anticapitalista.
L’avanguardia rivoluzionaria, i futuri capi del movimento operaio non possono essere che gli operai intellettuali, che uniscono pensiero e azione, operai che partecipano alla lotta di classe avendo assimilato la teoria rivoluzionaria della liberazione proletaria.
Oggi molte “avanguardie comuniste” si sono diluite nelle lotte o inserite nei giochi del parlamentarismo borghese, costituendo agguerriti stati maggiori i cui capi sono sempre ospitati dai media borghesi in TV o sui giornali nella mi-sura in cui si limitano a criticare aspetti secondari del capitalismo, limitandosi a proporre “miglioramenti”, senza mai evidenziare un progetto o una visione alternativa al capitalismo e dichiarare apertamente di lottare per distruggere lo Stato borghese a favore del potere proletario e del socialismo.
Per questo è più valida che mai l’affermazione che “l’emancipazione della classe deve essere opera della stessa classe operaia”, anche se - come ricor-davano Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista - “... questa or-ganizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, torna ad esse-re spezzata in ogni momento dalla concorrenza tra gli operai stessi”.
La classe operaia e il proletariato mondiale da troppo tempo non hanno un loro partito, una internazionale operaia comunista con sezioni nei vari paesi, con una strategia unitaria contro il capitalismo e l’imperialismo.
La guerra di classe - che il capitalismo internazionale, l’imperialismo (nono-stante le contraddizioni fra blocchi imperialista contrapposti) conduce gior-nalmente contro i popoli oppressi e il proletariato per rapinare le materie pri-me, nella ricerca del massimo profitto - continua a produrre morti, feriti e in-validi in tutto il mondo e mai, come in questo momento, mette in pericolo persino la stessa sopravvivenza del nostro pianeta.
La lotta fra le classi, sebbene latente in molte parti del mondo, in altre si ma-nifesta violentemente.
Le recenti lotte e sollevazioni popolari contro i governi (Francia) e regimi al servizio degli imperialisti in Cile, Ecuador, Bolivia, Haiti e la resistenza antim-perialista–antisionista del popolo palestinese, dei popoli e governi venezuela-no e siriano e altri che resistono alla penetrazione imperialista, per quanto importanti e che per questo vanno sostenute, hanno però il limite di non por-si l’obiettivo della distruzione del sistema capitalista/imperialista e della con-quista del potere politico in mano alla classe operaia rivoluzionaria.
La storia dimostra che anche le lotte più radicali per cambiare la realtà eco-nomica, politica e sociale responsabile dello sfruttamento capitalista necessi-tano di uno strumento in grado di unificare il proletariato e la classe operaia sui suoi interessi immediati e storici, per superare la frammentazione del pro-letariato, la divisione, e per la sua ricomposizione politica verso l’obiettivo dell’abbattimento del sistema capitalista.
Oggi serve un’organizzazione unica del proletariato rivoluzionario, la sola in grado di dirigere questo processo. Da troppi anni la classe operaia italiana è priva di un’organizzazione politica, di un partito comunista che dichiari aper-tamente di battersi per la distruzione del sistema borghese e per il socialismo.
Davanti all’attacco borghese, oggi la lotta della classe oppressa e sfruttata ha necessità di superare le decine di organizzazioni sedicenti comuniste che di-sperdono in mille rivoli le poche avanguardie coscienti, facendoli combattere in ordine sparso.
Quindi oggi non abbiamo bisogno di una formazione politica che agisca “in nome” del proletariato, ma di un’organizzazione, di un reparto d’avanguardia della classe operaia composta in maggioranza da appartenenti all’unica classe realmente antagonista al capitale: la classe operaia. Un’organizzazione di o-perai e proletari rivoluzionari, di militanti comunisti che hanno assimilato e praticano quotidianamente nello scontro di classe e nel conflitto sociale la te-oria della liberazione del proletariato dallo sfruttamento.
Bisogna ripartire dalla materialità dei rapporti di produzione, dalla centralità della classe operaia e proletaria che, al di là della sua coscienza attuale, ha interessi antagonistici al capitale. Rimettere al centro del lavoro politico rivo-luzionario la centralità della classe significa usare e applicare il marxismo le-ninismo come una guida per l’azione. Il proletariato liberando se stesso libera tutta l’umanità.
|
marzo | redazione |
da nu. 1 | |
IL PROGETTO DELLA BORGHESIA
Dalla deindustrializzazione al capitalismo 4.0: obiettivi economici della borghesia lombarda e il suo attacco frontale al comunismo
Nell’ennesima fase in cui il calo del saggio di profitto obbliga il capitalismo a cambiamenti radi-cali nella struttura produttiva e, quindi, nell’organizzazione del lavoro, i comunisti devono capi-re per primi come il capitalismo si sta ristrutturando per poter agire e non alienarsi dalla realtà e dalla classe di riferimento. Le condizioni materiali di vita determinano le forme assunte da di-ritto, politica, filosofia, arte, religione… quindi la realtà economica è la sola che vale la pena di studiare. Marx anticipava il concetto di primato dell’economia su ogni altro ambito della vita. Se il nostro scopo è combattere e sconfiggere il capitalismo, e non possiamo farlo senza l’antagonista di classe, ossia senza i lavoratori, e poiché il capitalismo occulta lo sfruttamento, scambiando per relazione tra cose e merci i rapporti fra gruppi umani, i rapporti di forza fra classi (feticismo della merce), per essere utili ed efficaci dobbiamo comprendere come il capita-le progetta l’organizzazione produttiva, per capire come sfrutterà il lavoro e quindi come i co-munisti devono attrezzarsi per capire e combattere uno sfruttamento di tipo nuovo. Non averlo compreso in passato e non aver agito di conseguenza ha determinato l’attuale sconfitta.
A questo scopo la storia del nord-ovest milanese è esemplare
Era un’area di insediamento della grande industria (l’Alfa Romeo e la raffineria più grande d’Europa ne sono solo gli esempi più conosciuti). Era un’area fortemente po-liticizzata e sindacalizzata e, addirittura, radicalizzata (erano presenti nel territorio cellule BR all’Istituto Tecnico Industriale Cannizzaro di Rho, all’Alfa Romeo di Arese, di Bollate era il Bonisoli che fece parte della cellula che attaccò la scorta di Aldo Moro, persino l’oratorio di Pero era un laboratorio politico di estrema sinistra con un prete estremista ed era frequentato da fi-gli di operai dei grandi insediamenti industriali della zona e che aderirono ad organizzazioni e-xtra parlamentari o di lotta armata). Lo smantellamento di queste due aree produttive è questione cruciale che non abbiamo saputo veder per tempo, analizzare e quindi contrastare efficacemente. La deindustrializzazione del nord-ovest milanese rap-presenta un momento centrale di raccordo fra le scelte neoliberiste del capitalismo mondiale e l’attuazione di tale modello da parte del capitalismo italiano. Evidente-mente una storia che parte da lontano. Una storia che è la realizzazione della strategia del ca-pitalismo mondiale con tappe chiare e rintracciabili; una storia che inizia con la decrescita dei tassi di profitto industriali negli Usa dagli anni ’70 e la crescita del petroldollaro. È il momento il cui capitale decide che è più conveniente spostare gli investimenti dall’economia reale a quella finanziaria e gli interventi legislativi a livello globale sono immediatamente conseguenti: nel 1979 la deregulation finanziaria determina la riaffermazione del modello liberista, l’inizio della fase delle liberalizzazioni e della distruzione del Welfare State là dove esisteva. Intanto l’imperialismo (Vietnam) crea il suo abisso finanziario che provoca la crescita incontrollata del Debito Pubblico cui gli USA reagiscono iniziando a stamparsi la moneta fuori da ogni vincolo. Le conseguenze non si fanno attendere: speculazione su cambi valutari e sempre più voglia dei grandi capitali di investire in finanza. Negli anni ’80, con il modello socialista ormai in crisi, si realizza l’egemonia economica e culturale degli Usa in un mondo sempre più unipolare e privo di alternative sistemiche: edonismo reaganiano e yuppismo italiano, il modello “Milano da bere” promuovono una crescita con ulteriore indebitamento pubblico e privato. Intanto in Italia nel 1981 si realizza il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia con un'ulteriore crescita Debito Pubblico, una decrescita dei tassi di profitto industriali e una crescita degli investimenti finanziari specu-lativi. Il capitalismo era chiaramente cambiato. Gli servivano quindi leggi per assecondare l’ulteriore concentrazione della ricchezza. Quindi attacca il Debito Pubblico e costruisce l’idea che il Debito possa essere ridotto e controllato solo attraverso la distruzione del Welfare e l’affidamento dei servizi alla gestione privatistica “più efficiente e meno costosa per la collettivi-tà”; ha bisogno di liberare capitali per le speculazioni e lo fa costruendo l’idea di un nuovo mo-dello urbano che necessita della deindustrializzazione per aumentare la qualità della vita della collettività; tenta la strada delle delocalizzazioni. Il vero obiettivo è la distruzione della fabbrica e del lavoro garantito da diritti, troppo costoso per una borghesia accaparratrice, la distruzione della coesione di classe, perché la sua parcellizzazione, oltre che indebolire pro-gressivamente le sue possibilità di lottare, faranno prevalere la cultura individualista e qualun-quista, ossia il mare in cui il liberismo può spadroneggiare.
Non è casuale la sequenza degli eventi: settembre 1980 crisi della Fiat con 15000 licenziamenti (mobilità) e sconfitta sindacale con cui inizia la fase discendente per il movimento operaio; 1985 il PCI e la CGIL vengono sconfitti nel referendum sulla scala mobile; nel 1987 l’Alfa Ro-meo passa dallo Stato alla Fiat e i lavoratori da 18000 diventano 4000. Intanto si sviluppava il dibattito intellettuale. In quegli anni alla Statale di Milano si discuteva ancora negli storici cortili e nelle aule occupate: studi come quelli di Sapelli “Sul capitalismo italiano” o “Cleptocrazia” pa-lesavano il concetto di capitalismo italiano come capitalismo straccione e parassitario abituato ad appoggiarsi allo Stato con la collettivizzazione del debito privato e anticipavano l’inchiesta Mani Pulite. Eravamo perfettamente in grado di comprendere che la costante della politica in-dustriale in Italia era il rapporto industria/politica. Capivamo tutto sui bassi saggi di profitto in-dustriali che necessitavano di una riduzione dei costi per liberare i capitali e destinarli agli in-vestimenti finanziari; sapevamo che la politica non avrebbe fatto altro che assecondare con leggi questo processo di deindustrializzazioni garantendo la terziarizzazione, le delocalizzazioni, le esternalizzazioni; dicevamo altrettanto chiaramente che l’obiettivo del capitale era la distru-zione del lavoro produttivo, la parcellizzazione del mondo del lavoro, che la politica e leggi a-vrebbero assecondato la borghesia perché lo Stato è borghese ed è strumento della classe dominante. Ma la borghesia è stata più capace di noi, già divisi e marginali e, da lì a breve, pri-vi di ogni riferimento organizzativo nazionale e internazionale. E la borghesia iniziò il suo attac-co senza trovare alcun ostacolo.
Nel 1990 Amato, per ridurre il Debito Pubblico, sdoganò privatizzazioni, ticket sanitari, ICI, blocco delle assunzioni e aumento dell’età pensionabile. Intanto nel 1989 crollava il Muro di Berlino, nel 1990-91 crollava l’URSS, nel 1991 chiuse i battenti il PCI, nel 1992 firmarono il Trattato di Maastricht. L’obiettivo principale di Maastricht fu da subito la stabilità dei prezzi che implicava chiaramente l’abbattimento dell’inflazione; per contrastare l’inflazione era necessaria una decrescita dei consumi e quindi il blocco salari; per evitare gli aumenti salariali era neces-sario distruggere la possibilità di lotta da parte dei lavoratori: alla borghesia servivano leggi per distruggere il lavoro stabile e la collaborazione sindacale. Infatti nel 1993 passa la concertazio-ne sindacale, nel 2003 la Legge Biagi, nel 2014 il Testo unico sulle rappresentanze. L’attacco alla libertà sindacale e al diritto di sciopero è frontale perché è l’unico strumento dei lavoratori per attuare la lotta di classe, come ci disse Gramsci “gli operai non devono dimenticare mai che dai padroni otterranno sempre per quanto saranno forti”. I dati del 2010 ci dicono che gli scambi mondiali per merci e servizi hanno un valore di 19.500 miliardi di $ mentre transazioni finanziarie sono di 3,6 miliardi di dollari (un valore di 200 volte superiore!). Ma i soldi che van-no all’economia finanziaria vengono comunque dall’economia produttiva: le merci producono denaro che va alle banche che danno capitale da prestito. Marx ci diceva che il denaro fabbrica denaro.
Quindi a chi chiede buone leggi (tutti indignati e riformisti) dobbiamo rispondere che “non sono le leggi a determinare i rapporti sociali ma i rapporti sociali a deter-minare le leggi “ (Gramsci). Non servono buone riforme ma togliere il potere eco-nomico al capitale.
Ora, 2019, nel nord-ovest milanese, al posto delle grandi fabbriche, abbiamo: uno dei centri commerciali più grandi d’Europa, logistica e terziario, lavoro precario e senza regole, il 20% delle case di proprietà delle famiglie dei lavoratori sono finite all’asta, un tasso di abbandono scolastico al 4% e in crescita, un'evidente proletarizzazione del ceto medio con fenomeni di ra-dicalizzazione politica attestati sul populismo leghista e neofascista. Abbiamo partiti comunisti divisi e marginali, sindacati padronali che assecondano mobilità e licenziamenti, sindacati di ba-se troppo impegnati a difendere il proprio orticello e incapaci di incidere. Il capitalismo ha con-seguito il suo obiettivo.
Ma tutto ciò non basta. È necessario dare il colpo di grazia. Il capitalismo non è certo buonista come certa sinistra… Ed ecco il nuovo cambiamento: il capitalismo 4.0, industria 4.0, smart economy, Internet of things. Un uovo modello di produzione e gestione aziendale. Non è la ro-botica. L'ignoranza dei comunisti rispetto a questo tema non è tollerabile per chi pretende di occuparsi di lavoro e lavoratori.
Il Mise definisce l’industria 4.0 come “macchinari connessi al web, analisi delle informazioni ri-cavate dalla rete e direttamente dai consumatori per gestire flessibilmente il processo produtti-vo”. In pratica, dalla rete arrivano informazioni su gusti e ordini, si analizzano punti di forza e debolezza della produzione, si adatta attraverso l’informatica in tempo reale la produzione al mercato. Ansip, vice presidente della commissione europea per il digitale afferma: “l’Ict è il set-tore che cresce di più, il mondo sta andando online, dobbiamo avere connettività globale per creare crescita sostenibile, dare forza a start up e pmi; l’economia digitale renderà il mondo più equo, con maggiore inclusione sociale e più ricchezza a lungo termine per tutti”. Nel 2018 i dati Iulm dicono che: “solo il 20% delle aziende italiane dichiara l’effettiva adozione di soluzioni di Intelligenza Artificiale, uno scenario di scarsa consapevolezza su cos’è: sul fatto che intelligenza artificiale è l’abilità dei computer di svolgere funzioni e ragionamenti tipici della mente umana; applicata alla produzione rappresenta una nuova rivoluzione non solo industriale ma anche so-ciale e umana”. In Italia sembra evidenziarsi una carenza di risorse economiche da destinare all’industria 4.0 a causa di una struttura produttiva storicamente parcellizzata e fondata su pmi, a causa di una carenza tecnologica cronica e di personale adeguato. Quindi si rischia di avere un sistema a due velocità “AI-Divide”: poche grandi imprese affronteranno questa tra-sformazione e troppe imprese pensano invece che non sia adatta a loro.
Intanto Confindustria ringrazia il Governo: “grazie al Governo e al Piano Impresa 4.0 (credito d’imposta per chi investe) avremo un forte aumento nei comparti strategici industria, building, energia e infrastrutture” (tutti settori ad alta intensità di capitale) e chiede al Governo nuovi fi-nanziamenti per infrastrutture e per creare il portare Piano Impresa 4.0 nel settore delle co-struzioni al fine di realizzare Edificio Sostenibile 4.0, ossia un passo verso la “città elettrica del futuro”. Arrivano anche i primi dati: le imprese che hanno adottato il modello 4.0 hanno avuto una crescita di fatturato del 58% ma l’86% delle imprese segnala difficoltà a reperire ingegneri e tecnici e segnala difficoltà nel mantenere i livelli occupazionali del personale non qualificato. In Italia (dati Osservatorio Industria 4.0 della School of Management del Politecnico di Milano) a giugno del 2018 l’industria 4.0 era in crescita del 30% e in Lombardia la sua maggiore localizzazione (guarda caso con immediata recessione oc-cupazionale pari a -1%).
Ancora una volta il nord-ovest milanese sarà il laboratorio in cui la borghesia spe-rimenterà le sue nuove forme di accumulazione. Un laboratorio progettato fin dal 1996 dal “celeste” Formigoni su mandato di “poteri celestiali invisibili”: Malpensa, il polo fieristico Rho-Fiera, Expo, Il centro commerciale di Arese, il futuro “mall” (cen-tro commerciale camuffato da un nuovo nome visto che i centri commerciali sono in crisi in tutto il mondo) di Cascina Merlata, il post Expo con Mind (Milano Innovation District), chilometri di rete stradale, Alta Velocità, prolungamento della metropoli-tana. A fronte di tutta questa “celestiale bellezza” in tre mesi sono aumentate le crisi industriali improvvise e le “crisi” di aziende sane. Un esempio? L'Ex Iveco, ora Cnh Industrial di Pregnana Milanese, multinazionale del gruppo Exor (famiglia Agnelli) che chiuderà nel 2020 lasciando a casa 300 lavoratori oltre i lavoratori delle 40 società in appalto e delle 110 aziende dell’indotto. Chiuderà pur essendo considerata un modello per produttività, organizza-zione e utili. Chiuderà perché gli Agnelli hanno deciso, con il piano “transform 2 win”, di centra-lizzare la produzione a Torino dove investiranno in industria e logistica 4.0 e, grazie ai finan-ziamenti Ue al sostegno di Trump all’agricoltura statunitense, investiranno nel green e macchi-ne agricole. I lavoratori italiani coinvolti nella riorganizzazione saranno 17.000 e almeno 700 i licenziati perché non qualificati per il nuovo modello industriale.
Nelle numerosissime assemblee pubbliche tenutesi dal 2017 in poi ci è stato detto: “l’area E-xpo sarà il laboratorio sociale di tutti i cambiamenti 4.0. Infatti diventerà “Parco della scienza e dell’innovazione” sul modello della Silicon Valley. Il tutto sarà gestito da progetto MIND, Milano Innovation District di Lenlease (società australiana che fattura 50 miliardi di euro anno e ha ottenuto una concessione di sfruttamento su area expo per 99 anni; dovrà gestire 1.000.000 mq dentro Expo di cui 250.000 mq. a suo piacimento). È uno sviluppo privato dell’area e il privato è svincolato dalle procedure del codice d’appalto e quindi sarà tutto più fa-cile da gestire per i privati che vogliono insediarsi. Ma Mind avrà successo solo se il territorio asseconderà lo sviluppo e quindi servirà intercettare le PMI del territorio e il territorio dovrà fornire le competenze (scuole). Tutte le scuole dovranno collaborare (Rho ha tutti gli indirizzi delle scuole superiori). Dentro Mind ci promettono 50.000 posti di lavoro nuovi ma il terri-torio dovrà fornire competenze adeguate; inoltre arriveranno 60.000 persone al giorno che do-vremo far insediare nel territorio rendendolo attrattivo. In Mind si insedieranno nuove multina-zionali e migliori lavoratori che potranno insediarsi nel territorio se lo stile di vita che sapre-mo offrire sarà attraente. Mind sarà un ecosistema dell’innovazione e delle scienze della vita di livello internazionale. Bisogna investire e il pgt non dovrà essere un ostacolo. Ad oggi l’area in-dustriale di via Risorgimento - che ha 173 fabbriche con 3300 lavoratori - ha pgt a bassa tra-sformabilità; bisogna cambiarlo per poter cambiare la destinazione d’uso dei capannoni in commercio, ricettivo, indifferenza fra le attività, terziario, attività innovative 4.0 e anche attività temporanee. La popolazione mondiale ha un trend in crescita ma è in declino la capacità di crescita economica e c’è un aumento dell’età media; quindi bisogna migliorare la qualità della vita”.
Il Presidente del Consiglio di Regione Lombardia ha affermato: “Rho è l’asse di sviluppo strategico dell’economia italiana, come previsto da Piano Formigoni del 1996 (Malpensa, Fiera, Expo, Parco scientifico); l’Alfa Romeo e la raffineria sono crepate ed è finalmente en-trata la luce”.
Ma vediamo “le magnifiche sorti progressive” in che cosa consistono. Il post Expo prevede, nel Parco della scienza, l’insediamento di:
• Human Technopole, un centro di ricerca sulla qualità della vita (7 ambiti di ricerca: geneti-ca, dna, neurologia, alimentazione, sociologia e trasformazioni sociali…) e porterà almeno 1500 ricercatori reclutati in UE;
• Università Statale, attualmente distribuita su 13 poli, verrà raggruppata in 3 poli (Festa del Perdono, Città Studi, Expo). In Expo verranno 47 corsi di laurea con 20000 studenti e 2000 prof e ricercatori. Scienze for Citizen formerà i migliori studenti che troveranno immediata-mente lavoro nell’industria 4.0 o nelle multinazionali dell’area;
• L’Ospedale Galeazzi si trasferirà totalmente in Expo (sia ospedale che centro ricerca) in nuova struttura di 6 piani. Porterà: 1500 posti letto, 1000 lavoratori di personale ausiliario, 700 medici, 500 ricercatori, 5000 utenti al giorno. Ovviamente è gestito da una fondazione privata;
• Multinazionali prevalentemente chimiche, farmaceutiche e alimentari: alcune hanno già op-zionato terreni in Expo e saranno tutte collegate a ricerche di Human Technopole, Universi-tà e Galeazzi.
Il Post Expo avrà un impatto per 7 miliardi di euro di investimento, con ampliamento delle aree residenziali, dei servizi alle imprese, dei servizi alla persona e ricreativi e nuove infrastrutture con miglioramento della viabilità e dei mezzi pubblici. Ovviamente i Sindaci dell’area, indipen-dentemente dal colore politico, sono trasversalmente entusiasti. Il Sindaco di Rho (PD) dichia-ra: “obiettivo: post expo deve essere grande opportunità di trasformazione del territorio e Rho deve saper cogliere l’opportunità diventando area di stanziamento stabile dei nuovi lavoratori e studenti (non seguire esempio di Città Studi che di sera è zona morta). Via Risorgimento (zona industriale) non deve essere una barriera a questo sviluppo, non deve essere una barriera tra post Expo, Rho e Arese ma deve diventare un grande boulevard che unisce il post Expo a Rho e al centro commerciale di Arese e al centro commerciale di Cascina Merlata (fra Pero e Mila-no)”. Dichiarazione di Assolombarda: “ Le aree da trasformare sono Ex Alfa Romeo, Cascina Merlata, post Expo, Bovisa e lo Scalo Farini. Bisogna creare infrastrutture a carico del pubblico e far riferimento al documento di Assolombarda “Il futuro del lavoro” per assecondare crescita. Ogni giorno arriveranno a Rho 60000 persone (oggi ha 50000 residenti) e quindi fuori Expo l’ambito trasformabile dovrà essere su 5 comuni con 3.000.000 mq per nuove costruzioni, ter-ziario e residenziale. Bisogna investire in mobilità, scuola, tempo libero, sport, socialità, immo-bili residenziali. Bisogna aumentare la qualità urbana. Il progetto si svilupperà fra il 2018 e il 2023”. Alla domanda: “ma se la zona industriale di via Risorgimento dovrà diventare un grande boulevard dove finisce il lavoro?” Non otteniamo nessuna risposta se non “il lavoro non è com-petenza dei Comuni”. E invece noi sappiamo cosa succederà e la nostra pratica politica lo con-ferma immediatamente. Alla prima giornata di apertura dello “Sportello Lavoro Rhodense”, ser-vizio che abbiamo inaugurato proprio nell’autunno in collaborazione con altre organizzazioni sindacali e politiche del territorio nell’ambito del coordinamento di lotte del Nord-Ovest Milane-se, servizio che abbiamo voluto perché coscienti che la situazione lavorativa peggiorerà velo-cemente, immediatamente si sono presentate lavoratrici di un’azienda francese in via Risorgi-mento che chiuderà a breve. L’impresa ha deciso di accentrare la produzione in Francia svilup-pando il modello 4.0 (grazie a finanziamenti UE e del governo francese) e quindi abbandonerà l’Italia licenziando e risparmiando. Inoltre il proprietario del capannone in cui l’impresa è at-tualmente localizzata sembra essere molto contento della decisione perché potrà finalmente vendere l’area a impresa ricettiva multinazionale. Sessanta lavoratori dequalificati italiani sa-ranno disoccupati, l’azienda accentrerà la produzione in madrepatria grazie ad investimenti pubblici che le consentiranno di riconvertirsi in modello 4.0 e aumentando gli utili, a noi resterà l’ennesimo grande hotel con lavoro a chiamata per giovani che si abitueranno al precariato pe-renne.
Il progetto sociale della borghesia
D’altro canto la borghesia lombarda ha già presentato il suo piano pubblicamente. A maggio 2018 Assolombarda ha presentato alla regione Lombardia “Il futuro del la-voro”, libro bianco sul lavoro. Non è un libro di ciò che gli imprenditori desiderano ma di ciò che ordinano alla politica di fare, di ciò che dovrà essere il futuro del lavoro, ma non solo. È stato definito il Main Kampf della borghesia lombarda. In sostanza la borghesia dichiara chiusa la fase delle delocalizzazioni in questa nuova fase della globalizzazione, in cui il mercato interno del lavoro, totalmente ormai deregolamentato, offre migliori opportunità di sfruttamen-to in patria perché maggiormente qualificato e adatto a sfruttare l’occasione della rivoluzione 4.0. Nell’organizzazione del lavoro dell’industria 4.0 non esiste più l’orario di lavoro e il luogo di lavoro, il salario non è più rapportabile al tempo e al luogo in cui il lavo-ratore viene usato ma solo alla performance del lavoratore, alla sua individuale abilità e utilità per l’impresa. Il mercato del lavoro dovrà essere caratterizzato da un nuovo concetto di stabilità “non più basata sul posto di lavoro ma sulla costruzione di car-riere discontinue”. Ma il piano della borghesia lombarda va oltre l’impresa. Il libro bianco presenta un quadro chiaro del progetto sociale della borghesia. L’invecchiamento del-la popolazione comporterà forti pressioni sulla sostenibilità del welfare che non potrà più essere universale ma necessariamente aziendale, la contrattazione dovrà essere aziendale, tutti gli e-lementi poco produttivi (ammalati, cronici, disabili) dovranno essere resi più produttivi, le don-ne dovranno sostituire la maternità con voucher per il pagamento di baby-sitter, la rappresen-tanza dei lavoratori deve recepire gli accordi fra le parti, gli studenti dovranno iniziare l’alternanza fin dalle elementari visitando le aziende del territorio, i manager potranno insegna-re in aula con pari dignità degli insegnanti, il diritto del lavoro dovrà essere semplificato per “non essere pregiudizialmente ostile all’impresa”. Un progetto complessivo di società to-talmente assoggettata agli interessi esclusivi dell’impresa. La borghesia afferma: “con l’avvento della IV Rivoluzione Industriale… emerge una rinnovata relazione tra aree urbane, territorio e catene globali del valore… la dimensione globale non esaurisce lo spazio delle im-prese … esiste oggi un ruolo fondamentale nel livello locale e territoriale che, proiettandosi verso il mondo, cambia volto … questo avviene mediante la costruzione di ecosistemi e hub territoriali che sappiano attrarre tutti gli attori che concorrono a creare valore… la fabbrica non è più soltanto un perimetro entro il quale avviene la produzione, ma si sviluppa orizzontalmente giungendo a coincidere con un’intera area urbana e con il territorio circostante. I modelli di integrazione locale partono quindi dall’impresa e si allargano intercet-tando tutto ciò che può portare valore all’impresa … infrastrutture fisiche e digitali, scuole che forniscono competenze, università, parchi scientifici, centri di ricerca completano lo sviluppo in house, istituzioni garantiscono infrastrutture materiali e immateriali … una geografia dei lavori che avrà sempre più come stella polare le competenze e la qualità del capitale umano”.
Tutto questo è Mind! Tutto questo sta già avvenendo nella Silicon Valley italiana, in una frazione che si chiama Mazzo di Rho…
E non basta. Il vero scopo del libro bianco della borghesia è l’attacco frontale al co-munismo. Non può essere un caso che il libro bianco di Assolombarda inizi proprio con la se-guente affermazione: “gli ultimi anni hanno fatto registrare ampi miglioramenti nel mercato del lavoro e nella sua regolamentazione ma lo scenario presenta ancora molti elementi di criticità e, soprattutto, continua ad essere caratterizzato da con-tese ideologiche e politiche, con preoccupanti orientamenti di ritorno al passato. Non sorprende quindi, il cospicuo divario che ci allontana dal resto d’Europa su tutti i principali indicatori del mercato del lavoro a partire dal nodo della produttività”.
Quindi se vogliamo resistere e tornare ad essere efficaci e percepiti come utili dobbiamo non ab-bandonare il metodo del materialismo storico: è il metodo la nostra arma vincente che ci consente di non scollarci dalla realtà. Non siamo più negli anni '70, comprendere la nuova fase del capitali-smo, usare i suoi stessi strumenti e a volte il suo stesso linguaggio, essere coscienti della sua for-za, sapere che loro sanno di noi e organizzarci di conseguenza; studiare il nemico, l’economia, il capitalismo e la struttura produttiva; di conseguenza chiederci cos’è il proletariato oggi e cosa sarà nel futuro e, se sarà sempre meno una tuta blu e sempre più un tecnico. Come superare la separa-tezza attuale, che si amplierà in futuro, fra comunisti e proletariato e nuovo proletariato? Tre sono le nostre lotte: economica, politica, ideologica. In questa fase di resistenza: presenza nei sindacati, organizzazione politica per organizzare i lavoratori per combattere le sconfitte e garantire ai lavora-tori rapporti di forza adeguati nello Stato borghese verso il Partito che faccia lotta ideologica e ogni membro sia un dirigente attraverso la preparazione ideologica e di massa.
Non può essere un processo di ricostruzione accelerato ma deve essere iniziato prima possibile per occupare quello spazio politico che la stessa evoluzione dello sfruttamento potrebbe creare.
|
30 marzo 2020 | redazione |
da nu. 2 | |
SCALA DI MILANO: PROCESSO PER I LAVORATORI MORTI D’AMIANTO
Amianto alla Scala fino agli anni Novanta, dossier shock dei familiari delle vittime: "Bonificata solo grazie ai lavoratori
È quanto denunciato in un dossier curato dai rappresentanti di una serie di associa-zioni, tra cui il 'Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio, diffuso il 19 febbraio nel giorno in cui in Tribunale a Milano è ripreso il processo a carico di cinque ex dirigenti del teatro, accusati di omicidio colposo in relazione alle morti di una decina di lavoratori che avrebbero respirato le fibre killer in teatro, pri-ma delle bonifiche dei locali. Secondo le associazioni e i lavoratori, gli "interventi di bonifica" sono stati "ottenuti non per obbligo di legge e per prevenzione, ma per le denunce dei lavoratori, gli unici che hanno posto la necessità di porre rimedio all'ina-lazione di fibre di amianto da parte degli ignari spettatori del Teatro alla Scala".
In questo processo i 5 dirigenti imputati sono accusati di omicidio colposo in relazio-ne alla morte di nove lavoratori, elettricisti, attrezzisti, un macchinista, una cantante lirica e un siparista, esposti alla sostanza cancerogena dagli anni Settanta in poi. La 'pattona', è spiegato nel dossier, "è crollata durante una prova di scena nel 1992 ed è stata dismessa in modo grezzo con forbicioni e flessibili, senza misure di preven-zione per i lavoratori". Il 25 marzo la prossima udienza.
Riportiamo il dossier completo dal titolo: Breve storia della presenza dell’amianto alla Scala.
Nonostante la ristrutturazione del Piermarini (2002-2004), in teatro il problema a-mianto ha continuato a esistere. Lo dimostra il caso del sottotetto sopra la cupola della Sala, dove l’amianto era utilizzato per l’isolamento termico-acustico della volta platea, intorno agli oblò dove passa il fascio di luce dei fari, sui rivestimenti dei tubi dell’acqua. Arrivò su tutti i giornali milanesi, la forte polemica scoppiata tra il Comita-to scaligero sostenuto dalla CUB Informazione e Spettacolo, e la direzione del Teatro e l’Amministrazione comunale, il quale hanno dapprima negato il problema, e poi tentato di rinviare la bonifica della volta platea. In quell’occasione, divenne di domi-nio pubblico la realtà denunciata dai lavoratori: per anni le fibre di amianto sono sta-te respirate, sia dal personale del Teatro che dagli ignari spettatori, estasiati dalle musiche e dallo spettacolo, ma investiti dalle fibre killer.
La nostra tenacia ha portato al risultato dell’intervento di bonifica, conclusa il 16 ot-tobre 2009 con un Certificato di Restituibilità dell’ASL di Milano a seguito “dell’intervento di rimozione di amianto in matrice friabile”. Ancora il 28 aprile 2010 i lavoratori tecnici del teatro avevano inoltrato un esposto all’Asl per denunciare le condizioni di lavoro in un luogo malsano e insicuro, “il locale seguipersona del lam-padario storico” dove gli operatori passano tantissime ore al giorno durante le prove e gli spettacoli. Durante i sopralluoghi sono stati scoperti ancora residui di amianto sotto la stoffa grigia delle pareti, “sfuggito” agli esperti della bonifica dell'estate pre-cedente e a quella del 2004.
A giugno 2010 è stata fatta una nuova denuncia per realizzare la seconda bonifica conclusa ad agosto dello stesso anno.
L’oggetto con maggior concentramento delle fibre è stato la famosa “Pat-tona”, una mole di lamiera di 17x12 mt. foderata di stoffa in amianto, posi-zionata tra il palcoscenico e la sala. Fungeva da tagliafuoco e isolamento acustico, si chiudeva e apriva contemporaneamente al sipario per i cambi di scena e alla fine dello spettacolo, oppure per svolgere in buca le prove dell’orchestra mentre in pal-coscenico si montava una scena. Per molti anni la “pattona”, ad ogni suo movimen-to, rilasciava le fibre di amianto che si disperdevano in palcoscenico in Sala e in buca dell’orchestra. E’ crollata durante una prova di scena nel 1992 e dismessa in modo grezzo, tagliata con i flessibili, senza misure di prevenzione per i lavoratori scaligeri.
In palcoscenico l'amianto si trovava in diverse forme, nella componentistica mec-canica ed elettrica degli impianti e dei proiettori di scena, nelle guarnizioni degli sti-piti delle porte tagliafuoco, nelle coperte di amianto antincendio per proteggere l’ambiente dal calore emesso dai proiettori, queste ultime venivano interposte per evitare il contatto diretto dei corpi illuminanti con fondali, telette e altri oggetti sce-nografici appesi in soffitta. Anche quando si realizzavano le saldature in scena du-rante gli allestimenti, si mettevano per terra per evitare incendi.
Le coperte venivano usate anche in sala per evitare il pericolo di incendio del legno e delle stoffe decorative; venivano custodite dai vigili del fuoco anche durante le prove degli spettacoli in II galleria cosi come anche nei palchi chiamati “bar-cacce” dove si montavano i proiettori.
I condotti di aspirazione e ventilazione del palcoscenico erano rivestiti in amianto; attraverso rivestimenti d’amianto, arrivava l’aria condizionata anche al palco reale.
L'amianto veniva usato in scena attraverso i lunghi guanti per spegnere i corpi in-candescenti come torce e candele. Anche i grossi tavoli di lavoro della sartoria, uti-lizzati per stirare e cucire avevano sotto il panno della stoffa un rivestimento in a-mianto. Tutti questi materiali e attrezzature sono stati adoperati o in contatto diretto da diverse categorie di lavoratori, come vigili del fuoco, elettricisti, meccanici, attrez-zisti, macchinisti, sarte, scenografi-pittori falegnami calzolai, parrucchieri, ispettori, maestri collaboratori, comparse, da tutte le masse artistiche (ballerini, professori d'orchestra, coristi). Nonché in modo indiretto dagli impiegati.
La sala prove del coro situata al 3° piano del vecchio edificio è stata bonificata so-lo alla fine degli anni '80.
Ricordiamo che l’amianto era presente in altri locali del complesso del teatro, ini-ziando dalla Palazzina di via Verdi che era collegata direttamente al teatro e che per tantissimi anni ha ospitato la scuola di ballo dove centinaia di bambine/i ragazzi/e hanno studiato per 8-12 ore al giorno; anche gli uffici amministrativi per alcuni sono stati ospitati in quella palazzina con soffitti e muri rivestiti d’amianto, compresa la tromba della scala principale. L'edificio è stato bonificato parzialmente alla fine degli anni '90 ma è tuttora in attesa di una bonifica totale.
Anche alla Piccola Scala (fino al 2001) esisteva un sipario rigido scorrevole in tes-suto di amianto che fungeva da isolamento termico/acustico. Dopo la chiusura al pubblico fu utilizzata come prolungamento del palcoscenico e fungeva da deposi-to delle scenografie tra uno spettacolo e l'altro, nel retro dei palchi della Piccola c'e-rano dei laboratori di pittura e alcuni piccoli uffici ricavati dalla vecchia struttura. I camini dei fumi della centrale termica erano rivestiti in amianto. Si trovava inoltre, nelle soffittature di locali, come quelli al piano terra della sala prove dei musicisti percussionisti e dentro il magazzino generale di ricambi e cancelleria.
Altre sedi del Teatro
L’amianto era presente anche nei locali dei laboratori del Teatro alla Scala, prima dislocati nelle sedi di Pero e di Bovisa, dove i tetti in eternit rilasciavano fibre che si depositavano sulle scene nelle stanze dei laboratori e nelle celle dove venivano con-servate sia le scene che i costumi, che poi venivano condotti sul palco del Piermarini. L’amianto alla Bovisa era presente nelle coperte ma soprattutto nella famosa “minie-ra”, il luogo dove si lavorava il ferro che armava le scene, e serviva per proteggere i lavoratori durante le saldature
Dal 20 febbraio 2001 questi laboratori hanno traslocato presso l'ex insediamento industria-le delle acciaierie Ansaldo in via Bergognone a Milano, dove sono stati esposti lavoratori e coristi, dato che l’area venne bonificata dall’amianto solo nel 2005/6.
Ancora: a Figino in via Capo Rizzuto, dove esiste un altro storico deposito di scenografie, a maggio del 2009 da parte del Comitato e della Cub è stata denunciata la presenza di a-mianto sui tetti; solo nel 2018 è avvenuta la bonifica (65000 mq). In via Daimler dove ci sono grandi Magazzini di deposito scene, durante il monitoraggio in tutte le sedi scaligere deciso dall’ufficio tecnico solo nel 2016, sono stati individuate e successivamente bonifica-te le catene di sostegno del capannone ricoperte di amianto. Durante questo monitoraggio generale, all'ex cinema Abanella sede da tantissimi anni della sala prove dell’orchestra, so-no state rinvenute delle coperte in amianto nella sala proiezione e nelle condotte del ri-scaldamento.
Gli ultimi ritrovamenti di amianto
Ottobre 2014: Esposto all’ASL per rinvenimento da parte degli elettricisti di proiettori di lu-ci con componentistica di amianto: Abbiamo convinto la Direzione ad analizzare il parco lu-ci del teatro alla Scala: è stato così trovato amianto in proiettori di tipo Pollux, Polaris, Svoboda, Castor e Sirio. Segnalati anche i Mizar cioè proiettori da 500w. La lista completa dei proiettori contaminati è stata intorno a 200 pezzi, in seguito smaltiti tutti.
Marzo 2015: Inizia il cantiere della palazzina di via Verdi 3 di proprietà della fondazione Scala, per bonificare sia i piloni in acciaio che le putrelle avvolti in amianto.
Il Processo, le morti causate dall’amianto
Elenchiamo, a imperitura memoria, le dieci vittime per le quali si sta celebrando il proces-so.
1: Enzo Mantovani (mesotelioma) deceduto in agosto del 2000; è stato la prima vittima per amianto in teatro. Lavorava in palcoscenico come meccanico e addetto alla manovra del sipario antiacustico (pattona) con fodera in tessuto di amianto. 2: A.P. è morto nel 2005. Lavorava nell'ex laboratorio costruzioni scene e deposito della Bovisa come fale-gname, dopo all’Ansaldo. 3: Roberto Monzio Compagnoni, deceduto a novembre 2011, ca-rismatico caposquadra dei vigili del fuoco lavorava al presidio antincendio permanente in Scala. Esposto all’amianto per ambiente contaminato e anche a causa di tute, guanti che indossava e a teli ignifughi in amianto che utilizzava. 4: F.B. deceduto nel 2012. Tecnico di palcoscenico, macchinista esposto per contatto diretto e ambientale in palcoscenico. 5: S.P. deceduto nell’aprile del 2012. Lavorava nella squadra trasporti in via Capo Rizzuto a Figino, poi negli anni '90 nei laboratori per la movimentazione e trasporto delle scene si-tuato nel quartiere della Bovisa, via Baldinucci. Dopo il trasloco all’Ansaldo dei laboratori scaligeri in via Bergognone nel 2001, il suo lavoro si era svolto presso la portineria dello stabile.
6: P. S. deceduto nel 2013. Aveva lavorato come musicista alla Scala dal '60 all’83 in quali-tà di flautista. 7: L.P. deceduta a causa di mesotelioma ad aprile 2013. Aveva lavorato co-me corista fin dagli anni '60 al 1991/92. 8: B.P. lavorava come tecnico di palcoscenico macchinista dal '73 al '93 muore a 59 anni di cancro al polmone. 9: F.C. colpito da meso-telioma pleurico ed oggi l’unico testimone vivente degli ammalati alla Scala, nel processo amianto/Scala; ha lavorato vicino al sipario della Piccola Scala, dove vi era lo studio e il magazzino dei fonici. 10: E.M., celebre pianista e direttore d’orchestra.
L'asbestosi cronica è invece la malattia che ha colpito Demetrio Asta, ex siparista della Scala che andò in pensione nel '91, deceduto l’11 novembre del 2014.
Un risultato positivo dalle lotte del Comitato: riconosciuto il diritto alla sorve-glianza sanitaria
Nell’ottobre 2013 l'ASL iscrive nel registro degli ex esposti amianto della Regione Lombar-dia i lavoratori Scala e come conseguenza riconosce loro il diritto alla sorveglianza sanita-ria, stabilendo una catalogazione di tutte le categorie professionali, secondo i criteri stabili-ti dal PRAL approvato dalla Giunta Regionale con deliberazione n. 8/1526 del 22 dicembre 2005. Successivamente L’ASL di Milano ha inviato per posta a diverse centinaia di lavora-tori ed ex lavoratori del Teatro alla Scala i certificati di riconoscimento della loro passata esposizione all’amianto
Nel Dicembre 2013 fu sancito un Protocollo d'intesa fra il nostro Comitato, l'Asl, Fondazio-ne Scala e la Clinica del lavoro per attivare la sorveglianza sanitaria.
Un grave problema ancora aperto: il difficile rapporto tra Amianto e (in)Giustizia
A marzo 2019, il Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio, Il Comitato ambiente e salute del Teatro alla Scala, all’Associazione Italiana Esposti amian-to, medicina democratica, sindacati di base CUB e SGB, hanno discusso con esperti di Di-ritto e Medicina, rappresentanti di movimenti sorti in difesa della salute dei lavoratori e dei cittadini esposti alle fibre killer, sugli ostacoli che si incontrano nel riconoscere le respon-sabilità penali dei soggetti che hanno diretto i luoghi di lavoro senza prevenire i danni alla salute e all’ambiente.
Si tratta di un problema ancora aperto, soprattutto a Milano, dove tuttavia esiste un dato innegabile: centinaia di lavoratori deceduti a causa dell’amianto respirato nei luoghi di la-voro.
Questo è il quadro nel quale si sta celebrando il processo ai dirigenti della Scala.
|
febbraio2020 | redazione |
da n.1/2020 | |
Il
progetto della borghesia ·
Università
Statale, attualmente distribuita su 13 poli, verrà raggruppata in 3 poli (Festa
del Perdono, Città Studi, Expo). In Expo verranno 47 corsi di laurea con 20000
studenti e 2000 prof e ricercatori. Scienze for Citizen formerà i migliori
studenti che troveranno immediatamente lavoro nell’industria 4.0 o nelle
multinazionali dell’area; ·
L’Ospedale
Galeazzi si trasferirà totalmente in Expo (sia ospedale che centro ricerca) in
nuova struttura di 6 piani. Porterà: 1500 posti letto, 1000 lavoratori di
personale ausiliario, 700 medici, 500 ricercatori, 5000 utenti al giorno.
Ovviamente è gestito da una fondazione privata; ·
Multinazionali
prevalentemente chimiche, farmaceutiche e alimentari: alcune hanno già
opzionato terreni in Expo e saranno tutte collegate a ricerche di Human
Technopole, Università e Galeazzi. |
ottobre 2019 | redazione |
Fronte unico | |
Il fronte unico proletario e la lotta contro la socialdemocrazia
Fabrizio Poggi
Lo scorso 18 agosto i comunisti hanno ricordato il 75° anniversario dell'assassinio, a Buchenwald, di Ernst Thälmann, segretario della KPD - Kommunistische Partei Deutschlands. Arrestato nel marzo 1933, un mese dopo la nomina di Hitler a cancelliere, per 11 anni Thälmann fu trasferito da un carcere all'altro. Verso la mezzanotte del 17 agosto 1944, secondo la ricostruzione fatta sull'organo della DKP, Unsere Zeit, “una limousine arrivò al lager di Buchenwald. Il prigioniero fu fatto scendere. Il suo ultimo cammino fu tra un'ala di SS. Si avvertirono tre colpi in rapida successione”, poi un quarto. Hitler in persona aveva ordinato l'assassinio.
In certa sinistra, si incappa oggi di rado in giudizi favorevoli su Ernst Thälmann. Sopravvive la stantia omelia di socialdemocratici e trotskisti, secondo cui la contrapposizione, ispirata da Stalin, dei comunisti tedeschi alla socialdemocrazia, avrebbe favorito Hitler. Ma, in quante occasioni, i socialisti in posizioni di comando avevano chiuso sedi comuniste, proibito l'attività dei sindacati comunisti, inviato la polizia a sparare contro i comunisti, come avvenne il 1° Maggio 1929 a Berlino, sotto il governo di Otto Braun, quando il capo socialdemocratico della polizia, Karl Zörgiebel, represse una dimostrazione operaia, provocando 30 morti, o il 17 luglio 1932 ad Amburgo, allorché un altro capo socialdemocratico della polizia fece sparare su un corteo di comunisti, uccidendone 17, e come avvenne a Brema, Monaco, nella Ruhr, in Slesia...
Anche certa sinistra-sinistra, trattando dei comunisti tedeschi dell'epoca, si riduce ai cliché sulle “oscillazioni senza principio dello stalinismo”, una delle cui varianti, “nello spartito ideologico staliniano”, era la politica del socialfascismo, “promossa da Stalin e dall'Internazionale Comunista stalinizzata tra il 1929 e il 1933”, e che “portò il KPD nel 1931 a sostenere un referendum promosso dai nazisti contro il governo Brüning”.
La situazione tedesca
In sintesi: nel 1931 la KPD (Kommunistische Partei Deutschlands) si era dapprima opposta al referendum indetto da Elmi d'acciaio e NSDAP contro il governo socialdemocratico di Otto Braun in Prussia; dopo che la SPD ignorò l'appello a unire le forze contro i nazisti, i comunisti si schierarono per il referendum che, pensavano, poteva aprire crepe nell'ala prussiana della NSDAP, di Gregor Strasser.
Oggi, i comunisti imputano doverosamente a Palmiro Togliatti la degenerazione revisionista del PCI, che data anche prima del 1956. Ma, illustrando la posizione dell'Internazionale Comunista sul referendum dell'agosto 1931 in Prussia, egli scriveva: “potevano i comunisti astenersi dal prendere parte alla lotta? ... l'astensione poteva avere un valore solamente... come un appoggio al governo socialdemocratico. Era possibile ai comunisti dare questo appoggio? ... La socialdemocrazia tedesca è, sul continente europeo, la più forte organizzazione reazionaria la quale tenga incatenati al carro del capitalismo dei milioni di lavoratori... La influenza dei capi socialdemocratici sugli operai è il più grave ostacolo a una lotta efficace contro il fascismo, è uno dei più forti elementi che i fascisti, nella loro lotta per giungere al potere, hanno a loro favore”. La SPD continuava infatti a sostenere il governo Brüning e la sua Notverordnungpolitik (decreti d'urgenza, con draconiane misure antioperaie e antipopolari) dicendo che ciò “serve a evitare un male più grave, cioè un governo fascista. La teoria del minor male è, oggi, lo strumento di cui essi si servono per disarmare ideologicamente le masse”.
I comunisti contavano inoltre di conquistare determinati settori della NSDAP. In una lettera aperta del novembre 1931 “Agli elettori della NSDAP e ai membri delle SA”, ad esempio, la KPD di Berlino-Brandenburgo scriveva che, mentre il “vostro Führer” non fa che servire grande capitale e grossi banchieri, i lavoratori berlinesi dovrebbero seguire l'esempio di tanti membri della NSDAP, che “hanno marciato insieme” ai comunisti; “combattete insieme a noi nel fronte dell'esercito rivoluzionario, per il pane, il lavoro, la libertà, il Socialismo”.
La KPD, anche nei momenti di più acuta contrapposizione ai governi socialdemocratici, non aveva mai smesso di cercare l'unità d'azione con quella parte della SPD disposta a lottare contro il Zentrum cristiano-liberale e la destra nazionalista. Nel 1926, comunisti e socialdemocratici avevano fatto fronte comune al referendum, poi perso, sull'esproprio senza indennizzo dei latifondi dei nobili prussiani. Tra fine anni '20 e inizio '30, Thälmann chiama ripetutamente all'unità d'azione operai socialdemocratici e cattolici, per lottare spalla a spalla: Schulter an Schulter mit uns zu kämfen; questo, nonostante le posizioni filo-governative della SPD, che proseguiva nella Tolereriungspolitik, a sostegno dell'impopolare governo Brüning quale “kleinere Übel”, male minore.
Nel febbraio 1930, al Presidium allargato dell'IKKI (Com. Esec. dell'IC), mentre si ribadiva la necessità di un “implacabile smascheramento della socialdemocrazia quale principale sostegno per l'instaurazione della dittatura fascista”, si sottolineava che si deve “saper distinguere tra apparato partitico social-fascista e operai di fabbrica ancora sotto l'influenza della socialdemocrazia, in modo che, con un'applicazione conseguente della tattica del fronte unico dal basso, si possano conquistare questi operai a una decisa lotta rivoluzionaria comune”.
Fronte unico dal basso
Appaiono oggi quantomeno singolari certi sibillini riferimenti alla politica della KPD, e arbitrari accostamenti alla linea dell'IC. È vero che, con il pretesto di “stare in mezzo alle masse”, perché si giunga alla “costituzione del Governo di Blocco Popolare che spalancherà le porte al Socialismo”, qualcuno aveva aperto un credito in bianco al passato governo gialloverde. È pure vero che altri, pretendendo di lottare contro un PD euro-atlantico (di per sé, cosa doverosa) e suoi accoliti, che “si mobilitano alacremente solo per il Gay Pride e per difendere un’immigrazione senza regole, funzionale e foraggiata dal neoliberismo”, hanno finito ugualmente per schierarsi con i fascio-leghisti salviniani. Ma, vedere in tali esternazioni, presunte “oscillazioni senza principio dello stalinismo”, significa prendersi gioco della storia.
La KPD, a difesa delle condizioni di vita della classe operaia, massacrata da imposizioni di Versalles e Piano Young, crisi economica e disoccupazione, non poteva non smascherare la politica dei vertici della SPD che, col governo di Hermann Müller, aveva proibito gli scioperi, decretato il blocco delle assunzioni, la fine delle assicurazioni sociali, sparato sugli operai, minacciando l'aperta dittatura fascista.
Nel dicembre 1930, l'organo della KPD, Die Rote Fahne scriveva: “La dittatura fascista non è più una minaccia, ma è già qui. Il capitalismo tedesco è al collasso e nessuna dittatura, nemmeno quella fascista, potrebbe salvarlo. Il nemico principale è ora la dittatura fascista”. All'XI Plenum dell'IKKI, nel marzo-aprile 1931, Thälmann affermava che lo sviluppo del fascismo in Germania “non è una manifestazione della forza della borghesia e di debolezza o sconfitta del proletariato, bensì del fatto che la borghesia deve ricorrere alla sua forma estrema di dominio, il fascismo, per impedire l'incombente rivoluzione proletaria”. Il “culmine del movimento nazionalsocialista è ormai passato”, dirà Thälmann. Correggendo quella valutazione, la stessa sessione dell'IKKI stabilì però che “Se ci ponessimo dal punto di vista che la crisi politica in Germania è già una tappa superata, che siamo entrati in una fase di crisi rivoluzionaria, ... inizieremmo rapidamente ad annullare i compiti che ancora non abbiamo risolto”. E proseguiva: “La crescita del fascismo negli ultimi tempi è stata possibile solo sulla base del sostegno della socialdemocrazia... apripista della fascistizzazione dello Stato capitalista… Una lotta vittoriosa contro il fascismo richiede dai partiti comunisti la mobilitazione delle masse sulla base di un fronte unico dal basso contro tutte le forme di dittatura borghese... la borghesia monopolista e il suo Stato organizzano e utilizzano il movimento fascista (nazionalsocialista) delle masse piccolo-borghesi per indirizzare il loro malcontento sul binario del rafforzamento del capitalismo... una vittoriosa lotta contro il fascismo in Germania richiede il tempestivo smascheramento del governo Brüning quale apripista della dittatura fascista”.
La socialdemocrazia e il fascismo
Intervenendo il 18 settembre 1931 di fronte agli operai amburghesi, Thälmann si rivolgeva ai capi della SPD: “Che cosa ne avete fatto del partito di August Bebel e Wilhelm Liebknecht? Di un partito di socialisti, avete fatto un partito di capi di polizia, ministri, del più incredibile tradimento di classe contro il proletariato!”; e agli operai socialdemocratici: “Il governo prussiano e l'ADGB (Allgemeiner Deutscher Gewerkschaftsbund: sindacati socialdemocratici) non sono elementi di forza per la classe operaia, ma baluardi per il governo Brüning e la reazione capitalista. ...Vi chiediamo, compagni socialdemocratici: volete combattere per Brüning o per il socialismo? Con i comunisti... contro il governo che porta avanti la dittatura fascista, contro Brüning! ... a tutti i compagni di classe socialdemocratici: ... rompete con i socialisti di polizia!”.
Due mesi dopo, Thälmann scriveva su Die Rote Fahne che “la socialdemocrazia ha sempre raccontato agli operai che solo Hitler era il fascismo, mentre Brüning era l'ultimo baluardo della |
agosto 2019 | redazione |
Mire capitale mondiale | |
Le mire imperiali planetarie del capitale mondiale
Quando si dice che l'imperialismo e le rivalità interimperialistiche sono cose passate...
Fabrizio Poggi
Stati Uniti contro Europa, Russia a favore dell'Europa; Russia che vuol distruggere l'Europa, USA alleati dell'Europa contro la Russia; Europa e USA a braccetto contro Russia e Cina; Russia e Cina alleate dell'Europa contro gli USA... determinazioni che, già da diversi anni, rischiano di invecchiare in fretta. Ma, soprattutto, prossime all'astrattezza, se prese così, di per sé, quale semplice dato geopolitico, che fotografa un asettico “mondo multipolare”, senza scrutare le forze sociali interne che muovono quei soggetti. Una pura immagine, dunque, che solo nella forma si discosta dall'aperta genuflessione filo-atlantica del neo-segretario del PD - quel Nicola Zingaretti presentato come il “nuovo”, rispetto a grembiulini, squadra e compasso di passate gestioni di quel partito – che osanna USA e NATO quali incarnazioni del “tessuto del multilateralismo internazionale”.
Un “mondo multipolare”, certo, e di sicuro in continuo movimento, conformemente alla legge dello sviluppo a balzi del capitalismo e della conseguente rincorsa tra potenze capitalistiche, di cui ora una sorpassa le altre e un momento dopo viene a sua volta sorpassata, mentre altre vecchie potenze non reggono più la concorrenza e soccombono, anche se fanno di tutto per rimandare la propria fine. Sono gli stessi analisti di una delle banche più potenti al mondo, la JPMorgan Chase, a scrivere nero su bianco che "nei prossimi decenni l'economia mondiale passerà dal dominio degli Stati Uniti e del dollaro USA a un sistema in cui l'Asia eserciterà un maggiore potere". È sempre più appariscente la crisi dell'egemonia anglosassone: secondo Fortune, tra le prime 500 imprese multinazionali del pianeta, ce ne sono 129 cinesi, contro 121 USA. Per quanto riguarda le banche, l’Ufficio Studi di Mediobanca classifica: Industrial and Commercial Bank of China, Agricultural Bank of China, China Construction Bank e, soltanto quarta, proprio la JpMorgan Chase, davanti a un altro istituto cinese, la Bank of China.
È in questa continua “rivoluzione” geopolitica, d'altra parte, che perdurano anche alcune costanti.
La minaccia nucleare USA
Ad esempio, un paio di mesi fa, il Consiglio statunitense per le denominazioni geografiche ha deciso di mutare la trascrizione internazionale del nome della capitale ucraina, da “Kiev” in “Kyiv” - ovviamente, la decisione è stata presa dal padrone di casa – ma ciò che invece Washington non ha cambiato, o ha adattato ai tempi, è l'elenco delle città della Russia verso cui sono puntati i missili americani, rispetto alla lista di obiettivi scelti sessant'anni fa contro l'URSS. Allora, il primo colpo nucleare era previsto sugli aerodromi bielorussi di Bykhov e Orša, in cui erano stanziati i bombardieri strategici M-4 e Tu-16, seguiti poi da altri 1.100 aeroporti; dopo, sarebbe toccato a Mosca, Leningrado, Gorkij, Kujbyšev, Sverdlovsk, Novosibirsk, oltre a Pechino, Varsavia, e alcune altre decine di città, in cui l'obiettivo era costituito dalla popolazione civile. Al momento, quantomeno in apparenza, quella del lancio di missili nucleari sembra “l'ultima opzione” e la contrapposizione USA-NATO con Mosca si manifesta con il dispiegamento di uomini e mezzi sempre più vicino ai confini russi e manovre militari ininterrotte, dal mar Baltico al mar Nero, dalla Polonia ai Paesi baltici, dalle coste della Germania a quelle della Romania, ecc.
Ma la Russia di oggi, se non è certo l'Unione Sovietica (come non di rado dimenticano certuni, anche a sinistra, presi da nostalgie che confondono soggetti tra loro non comparabili: litri con metri, per dire), non è però nemmeno più la Russia degli anni '90, quando le doglie della “accumulazione originaria” la rendevano una sorta di saloon da far-west, in cui “sparare al pianista” costituiva il passatempo quotidiano delle bande che si contendevano territori, si spartivano industrie, le svendevano ai capitali stranieri... La fobia antisovietica e l'ingordigia del capitale internazionale stavano allora svegliando il “genio della lampada”, che poi avrebbe messo in pericolo la supremazia di monopoli americani ed europei: ciò che sta accadendo oggi.
Lo ha ribadito chiaro e tondo, per chi nutrisse ancora qualche dubbio, Vladimir Putin al forum economico di Piter nel giugno scorso: se nel 2007 il Presidente russo aveva avvertito che l'Occidente era sull'orlo di un pericoloso confronto, ora ha illustrato la dottrina russa di contrapposizione globale con gli USA, non riconoscendo più il sistema di dominio mondiale degli Stati Uniti. “Mosca lancia una sfida totale a quel sistema” dice il politologo Aleksandr Khaldej e “si unisce con la Cina e con quei soggetti mondiali che non hanno perso la volontà di salvarsi dal giogo americano”. Mosca dichiara apertamente l'esistenza di due blocchi: con gli USA e contro di essi e, per la prima volta, Putin ha annunciato l'obiettivo di dividere l'Europa dagli Stati Uniti, mostrando, con l'esempio del “Nord Stream 2” - su cui la Germania, nonostante le minacce di Trump, non intende fare marcia indietro - la non corrispondenza degli interessi europei con quelli USA. L'Europa non è più nemmeno un vassallo per gli Stati Uniti, ha detto in pratica Putin, ma è diventata una preda.
Le mire imperialiste europee
Valutazione, questa, in larga parte condivisibile, salvo le ambizioni (e, soprattutto, le potenzialità) di tale “preda” di farsi a sua volta cacciatore, a partire dallo strumento militare, con cui Washington tiene da decenni sotto controllo il vecchio continente: i passi sempre più concreti verso la costituzione dell'Esercito europeo, in contrapposizione alla NATO, sono lì a dimostrarlo.
Quanto valgano, in questo quadro, le lamentazioni di quel fogliaccio chiamato “Democratica”, lo si può dedurre dalle grida di sdegno lanciate in occasione dei presunti rubli russi alla Lega e ai “presunti affari con uno Stato estero in conflitto con l’Unione europea... e in competizione con le tradizionali alleanze internazionali del nostro Paese che hanno allarmato cancellerie e diplomazia internazionale”. In sostanza, da una parte i fascio-leghisti dagli elmi cornuti sono stati accusati di aver sollecitato per sé “l'oro di Mosca”; dall'altra, i demo-reazionari di livella e filo a piombo urlavano che si tratta di un fatto “inquietante”, soprattutto perché, dicono, vi sarebbe correlata la volontà dei fascio-leghisti giussaniani “di cambiare l’Europa” e farla “essere molto più vicina alla Russia”. Quindi, “Non si può tollerare il sospetto che il partito del Ministro dell’interno abbia bussato a quattrini al portone di una potenza nemica”, oltretutto portatrice di un “programma che richiama alcuni degli obiettivi di fondo che l’Unione sovietica perseguiva negli anni della Guerra Fredda nei confronti delle democrazie liberali e del progetto comunitario europeo". Mancava solo, a coronare cotanto afflato patriottico, che i demo-atlantici dal maglietto e scalpello intonassero l’inno “il Piave mormorò”, pur anche tacendo, per timido impulso di pudore, sul “non passa lo straniero!”, dal momento che è già in casa, da settant’anni, da Aviano a Ghedi-Torre (nelle due basi sono dislocate 75 delle 150 bombe nucleari B-61 che gli USA tengono in Europa), da Camp Derby, a Sigonella a Napoli, da Vicenza a La Maddalena a Comiso; rispondono ligi ai suoi ordini, tanto i carrocci di Pontida, come ha ribadito a Washington il fascio-leghista numero 1, sia i compassi con squadre di Rignano.
Trzecia Rzeczpospolita Polska über Deutschland
La finanza e i monopoli europei ambiscono da tempo ad andare per conto proprio, a far affari dove, quando e con chi vogliono, senza obbedire ai comandi USA. Ma, altrettanto da tempo, c'è chi ambisce a ergersi a paladino degli interessi USA e rafforzare il proprio ruolo sul vecchio continente: “Più esercito USA sul fianco orientale della NATO”, titolava a giugno il polacco Rzeczpospolita, pur se la missione oltreoceano del Presidente Andrzej Dudą non aveva portato i risultati attesi, dell'apertura (nemmeno con soldi polacchi) della base “Fort Trump” e di un'intera Divisione USA, cui ambiva Varsavia. Quasi che non bastassero i quindicimila soldati “alleati” presenti in Polonia, le unità corazzate, aerei, unità logistiche e di comunicazione, forze speciali, battaglione multinazionale NATO a Orzysz, la base missilistica a Redzikowo e la base aerea di Łask, con caccia F-16. Soprattutto, i colloqui Trump-Dudą avevano anche sfumature anti-tedesche: non a caso, alla vigilia di essi, l'ambasciatore tedesco in Polonia si era opposto pubblicamente a una base militare americana permanente in territorio polacco. Il fatto è che, osserva rubaltic.ru, se militarmente "Fort Trump" sarebbe diretto contro la Russia, in termini politici è non meno diretto contro la Germania e la "Vecchia Europa" nel suo complesso.
Ma, se sul versante militare le porte sembrano abbastanza ben serrate e Trump non ha fretta di trasferire ulteriori truppe sul vecchio continente, ecco che Varsavia, costatando come Berlino continui a spostare verso est l’asse della propria politica estera, principalmente per la questione del gasdotto “North stream 2”, prova a rafforzare i legami inter-oceanici per altro verso, decidendo di procedere alla realizzazione nel Baltico, vicino a Danzica, di un terminale galleggiante per il gas di scisto USA, che andrà a raddoppiare quello di Świnoujście, in fase di modernizzazione.
Come noto, infatti, i contrasti tedesco-americani, oltre che sul bilancio militare che, per Berlino, è oggi intorno all'1,2% del PIL, vertono principalmente sul gas, e non solo. La Casa Bianca chiede alla Germania di ridurre sia l’acquisto di gas dalla Russia, sia l’importazione dalla Cina di componenti informatici, sia gli scambi con l’Iran.
Tutti con tutti e contro tutti
Dunque, al forum di Piter, ricorda ancora Khaldej, Putin ha definito gli Stati Uniti predoni, briganti, pirati: un diretto tentativo di delegittimare l'egemonia americana; un predone, infatti, non è un normale “concorrente”, è un criminale, con cui si parla il linguaggio della forza. In pratica, Putin ha detto che Russia e Cina sono pronte alla guerra (per ora, solo commerciale, per lo più), mettendo di fatto in dubbio, ora anche pubblicamente, la leadership USA nelle varie aree del mondo in cui si incuneano Russia, Cina ed Europa.
È così che Mosca sta discutendo con Pechino l'abbandono del dollaro negli scambi bilaterali; lo stesso fa Mosca con Bruxelles - euro e rubli - nel commercio dei prodotti energetici e lo stesso con l'India, mentre espande la cooperazione con l'Iran, per rafforzare ulteriormente le posizioni russe nell'area mediorientale. È così che la Cina esorta gli stati asiatici della Shanghai Cooperation Organisation (SCO: Cina, Russia, Kazakhstan, Kirghizia, Tadžikistan, Uzbekistan) a costruire “una nuova architettura di sicurezza integrata” nella regione.
Contrapposizione, dunque; insieme a un intreccio di interessi per cui, secondo uno studio riportato dalle Izvestija, la Russia è tornata tra i primi dieci paesi europei con i maggiori volumi di investimenti esteri diretti e, tra i paesi investitori, proprio gli USA sono uno dei primi, insieme a Germania, Cina, Francia e Italia. Da parte sua, la Russia, secondo il rapporto annuale BP, mantiene il quarto posto per le forniture di gas liquefatto (GNL) in Europa, con una quota del 10%, dietro a Qatar (32%), Algeria e Nigeria (17% ciascuna) e davanti a Norvegia (6%) e USA (5%).
Contrapposizione che si manifesta anche nel confronto tra mezzi militari USA e russi, in una concorrenza che prevede anche scontri diretti tra armamenti avversari, per accaparrarsi nuovi clienti sul mercato delle armi. Così che, se gli USA reclamizzano in tutto il mondo i propri F-35 (ma l'Europa sta lavorando al proprio caccia, il cosiddetto Future Combat Air System, successore dell’Eurofighter Typhoon e del Dassault Rafale, nonostante il cosiddetto “filo-russo” Salvini confermi per l'Italia l'acquisto obbligato dei costosissimi e inaffidabilissimi F-35) da Mosca rispondono che quegli aerei sono alla facile portata dei missili russi S-300, S-400 e S-500. E così per tutte le altre armi, dai carri armati, ai sommergibili, ai bombardieri.
Per un altro verso, nello scontro con la Cina, Washington cerca la sponda russa, anche se, a proposito di presunti “scambi” Trump-Putin per le sfere d'influenza su Venezuela e Ucraina, non sembra proprio che si debba arrivare ad alcun baratto. Il solito Aleksandr Khaldej sostiene che entrambi hanno bisogno di ambedue le zone: “i paesi globali hanno interessi globali”, siano USA, Russia o Cina. Era così già ai tempi dell'URSS, quando si scherzava sullo slogan “abbiamo bisogno della pace” e qualcuno rispondeva “sì, e preferibilmente tutto”, giocando sul termine mir, che in russo significa sia pace che mondo. Mosca e Washington non si scambieranno zone di influenza: casomai, si preparano a sottrarsele, in ogni parte del mir, e la cosa riguarda a maggior ragione aree chiave quali Ucraina e Venezuela. L'abbandono dell'Ucraina da parte degli USA, afferma Khaldej, rafforzerebbe la Russia e significherebbe l'avvio di un ristabilimento delle frontiere dell'ex URSS sotto egida di Mosca e l'inevitabile alleanza con Pechino: cioè, il colpo di grazia per gli Stati Uniti. Perciò, difficilmente la Casa Bianca la cederà.
Per evitare questo, l'ex assistente di Ronald Reagan, Douglas Bandow, auspica il miglioramento dei rapporti USA-Russia sulla base del riconoscimento della Crimea russa e l'arresto dell'espansione a est della NATO, in cambio però di una “sciocchezza”: la fine del sostegno russo al Donbass! Un'ipotesi fantasiosa, dettata da un'unica preoccupazione, sempre più evidente alla luce della guerra commerciale USA-Cina: quella di una più stretta collaborazione tra Mosca e Pechino. Il politologo Dmitrij Drobnitskij ricorda infatti il cosiddetto “triangolo Kissinger" degli anni '70, secondo cui interesse USA è quello di tenere Mosca e Pechino più vicine a sé di quanto non lo siano l'una con l'altra, uno dei cui effetti collaterali, però, sottolinea Svetlana Gomzikova su Svobodnaja Pressa, in fin dei conti è stato quello di far sì che, anche grazie a quella politica nixoniana, qualche decennio dopo la Cina divenisse la prima economia del mondo, “parte integrante non solo dell'economia globale, ma anche parte inseparabile della cosiddetta Cimerika”. In sostanza, l'ipotesi di Bandow sarebbe quella di dichiarare pari pari a Mosca “fai quello che vuoi con l'Ucraina, ma, per l'amor del cielo, smetti di avvicinarti alla Cina”. Questo, nonostante che, secondo il mensile russo “Vita internazionale”, il tasso di crescita dell'economia cinese nel secondo trimestre del 2019 sia rallentato fino al minimo storico dal marzo 1992, a causa della guerra commerciale con gli USA, del rallentamento del commercio mondiale e della crescente sfiducia degli investitori.
Di fatto, Washington continua, come per il passato, a manovrare per isolare la Russia da quelle ex Repubbliche sovietiche rimaste apparentemente “neutrali”: principalmente Kazakhstan e Bielorussia, dopo le aperte “conversioni” di Paesi baltici, Georgia, Azerbajdžan, Ucraina, e gli ondeggiamenti delle Repubbliche minori centro-asiatiche, aree in cui gli USA, per loro ammissione, contrastano "l'influenza malvagia della Russia". L'esempio più diretto è quello della Kirghizija: nel 2015, Biškek aveva denunciato l'accordo di collaborazione con gli USA; poi, lo scorso anno, il Presidente Sooronbaj Žeenbekov, si era pronunciato per la ripresa della cooperazione. In risposta, il Dipartimento di Stato ha assicurato che gli Stati Uniti sono impegnati a rafforzare relazioni "basate sulla fiducia, l'uguaglianza e il rispetto reciproco": tradotto, significa che il Pentagono punta alla riapertura della base aerea di Manas, attivata nel 2001 per le operazioni NATO in Afghanistan e chiusa nel 2014 per decisione dell'ex Presidente Almazbek Atambaev.
Quanto poi a considerare “l'Europa” un'entità compatta, solo gli imbroglioni possono continuare a propagandarlo, visto come, nei fatti, la stessa leadership franco-tedesca oscilli ora a favore di uno, ora dell'altro dei due “Paesi guida”. La concorrenza mondiale procede a colpi di guerre valutarie, cioè di tentativi dei diversi Paesi di migliorare la propria posizione competitiva attraverso la svalutazione, per ottenere tassi di cambio relativamente bassi. Nel corso degli anni, tali manovre hanno favorito il dumping cinese, anche se non solo Pechino ha fatto ricorso alla svalutazione monetaria. Così, dall'inizio del 2019, la Banca popolare cinese ha "riversato", senza eccessivo rumore, oltre 700 miliardi di dollari nel sistema bancario, fornendo prestiti al settore industriale e bancario: lo stesso che aveva fatto la BCE, in “Europa”, nei tre anni precedenti.
Pompando oltre 2.6 trilioni di euro appena stampati nell'economia “europea” (quale delle economie europee?), la UE ha indebolito la valuta, con l'obiettivo di rendere i propri prodotti più competitivi nei mercati esteri. Donald Trump ha dichiarato che ciò è scandaloso, perché "le banche centrali dell'Europa e della RPC stanno manipolando il sistema finanziario per competere con l'America". Vero; ma anche Washington ha fatto lo stesso per anni.
Quando si dice che l'imperialismo e le rivalità interimperialistiche sono cose passate... |
agosto 2019 | redazione |
Venezuela | |
Venezuela e diritti umani
Il “Rapporto Bachelet”
Daniela Trollio
Nei primi giorni di luglio l’Alta Commissaria del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU – Michelle Bachelet, ex presidentessa del Cile – ha presentato il suo Rapporto sul Venezuela. Un dato innanzitutto: delle 558 interviste su cui è basato il Rapporto, 460 sono state effettuate all’estero in Spagna, Argentina, Cile, Colombia, Ecuador, Brasile, Messico e Perù. Cioè l’82% degli intervistati non vive in Venezuela. Il Rapporto afferma che in Venezuela vengono violati i diritti umani. Mancano cibo, medicine, non c’è libertà di espressione, c’è cor-ruzione; insomma una grave crisi umanitaria.
Sappiamo che i “diritti umani”, come il “terrorismo”, sono i nuovi cavalli di battaglia dell’imperialismo per giustificare, agli occhi dell’opinione pubblica, le sue guerre di rapina.
E il rapporto della Bachelet (figlia di un generale costituzionalista del governo Allende torturato a morte durante la dittatura, prigioniera lei stessa, che ha studiato al Collegio Interamericano di Difesa di Fort Lesley, che nel corso del-la sua presidenza si è distinta, sul tema, per essere la prima ad applicare, in democrazia, la Legge Antiterrorista di Pinochet contro il popolo Mapuche e per aver impedito la discussione sulla cancellazione di tale legge nel parla-mento cileno, tanto che essa è tuttora in vigore) è una evidente dimostrazio-ne di quanto sopra.
Bachelet scrive che “Fino a questo momento un paese ha imposto sanzioni settoriali più ampie a partire dal 29 agosto 2017”. Questo misterioso paese – gli USA – non ha nome nel rapporto.
L’uso di parole anodine come “sanzioni settoriali” – cioè il sequestro dei beni dello Stato venezuelano depositati all’estero, il blocco delle importazioni di ci-bo, di medicinali, di beni di prima necessità ecc. ecc. - ci ricordano tanto la definizione “danni collaterali” usata per evitare di dire “assassinio di civili in-nocenti”.
Continua il Rapporto: “Siamo stati informati di carenze dal 60 al 100% di farmaci essenziali in 4 delle principali città del Venezuela, tra cui Caracas. E anche che “L’Inchiesta nazionale sugli Ospedali del 2019 ha constatato che, tra novembre 2018 e febbraio 2019, 1.557 persone sono morte a causa della mancanza di medicinali negli ospedali”. Neanche una parola, nel rapporto, su alcuni fatti: 300 mila dosi di insulina pagate dallo Stato bolivariano del Vene-zuela non sono arrivate nel paese perché Citibank ha bloccato la vendita del medicinale che langue in un porto internazionale. O sul fatto che il laboratorio colombiano BSN Medical ha bloccato un carico di Primaquina, medicinale usa-to per la malaria.
Bisognerebbe anche ricordare all’Alta Commissaria che in Cile, nel suo paese, secondo i dati dello stesso Ministero della Salute, tra gennaio e giugno del 2018 sono morti 9.724 cileni che erano in lista di attesa nel sistema sanitario pubblico. E che circa 23 operazioni effettuate dal Governo bolivariano tramite il sistema finanziario internazionale sono state bloccate l’anno scorso, tra cui 39 milioni di dollari per acquisto di alimenti, prodotti basici e medicine.
Altro tema – toccato nel Rapporto e molto caro ai “difensori” dei diritti umani - è la mancanza di libertà di espressione. ” Secondo il Rapporto “Negli ultimi anni il Governo ha cercato di imporre un’egemonia comunicazionale, imponendo la propria versione dei fatti”. Bachelet sembra ignorare che la te-levisione via cavo – utilizzata in maggioranza in Venezuela, è proprietà di so-cietà private, come la stampa scritta, privata anch’essa per il 75%. Le stazioni radio pubbliche sono in totale il 32%. E non sa niente neanche del ruolo gol-pista delle reti “social” fin dal lontano 2002. E ci fermiamo qui con gli esempi.
In sostanza il Rapporto della Bachelet contribuisce al disegno dell’impero di sconfiggere per fame un paese che da decenni lotta per la propria indipendenza reale, per il diritto a scegliere il proprio destino.
Ironia della storia: più di 40 anni fa fu proprio così che lo stesso impero strangolò la patria dell’Alta Commissaria. Lei pare essersene dimenticata, ma i venezuelani no. |
marzo 2019 | redazione |
cultura | |
I comunisti britannici: Politica di identità o politica di classe?
Quello che ci insegna il capitalismo è una parodia della classe lavoratrice
Uno dei temi su cui si è soffermato l'8° Congresso del Communist Party of Great Britain (marxist–leninist), lo scorso settembre, è stato quello della cosiddetta identità di genere. “L'unica cosa che ci unisce è la classe”, hanno detto i comunisti che militano nel CPGB (m-l), al cui interno, a quanto pare, è in corso una serrata discussione sul tema dell'identità e dell'attivismo LGBT+. Al Congresso è stata adottata in modo preponderante la mozione del CC, mentre sono state respinte altre mozioni, in cui si chiedeva di inserire l'attivismo LGBT+ nel programma del partito.
“I socialisti devono evitare la trappola della politica borghese dell'identità, se vogliono fare progressi nell'unire la classe lavoratrice contro il capitalismo”, ha detto nel suo intervento un membro del CC del partito. La ragione del nostro dibattito di oggi è “un fenomeno che ho incontrato per la prima volta come accademico facendo un master e poi un dottorato in discipline umanistiche. Negli ultimi otto anni, sono stato impegnato a tenere conferenze sulle identità LGBTQ, la teoria queer e le politiche di identità. La prima cosa che mi è stata insegnata, come studente e successivamente come parte dello staff accademico nei primi anni 2000 - basata su… quello che l'Euroleftismo considerava "la fine della lotta di classe" - era che non abbiamo bisogno di parlare di classi nelle discipline umanistiche; che non è più “trendy” considerare “la grande narrativa di classe”, e che tali idee erano decadute dopo il maggio '68. Invece, mi è stato detto, dovevamo parlare di "identità", basata sulla nozione di "differenza". Dovevo familiarizzare con il movimento filosofico che si concentra sulla differenza; che non parla più di cose che possono riunire persone attorno a una realtà condivisa, o condizioni materiali che le persone possono avere in comune, ma dichiara tutto ciò un "fallimento", sostenendo che sia inutile cercare cose in comune con gli altri.
Mi è stato insegnato che questa comprensione del "fallimento" dovrebbe essere alla base delle scienze umane e della cultura contemporanea, e che non è più necessario studiare le scienze "positive" come la sociologia con le sue rigide categorie; che non c'è bisogno di ricercare spiegazioni sociologiche per i fenomeni culturali, perché ciò porta a conclusioni “deterministiche”. Invece, è necessario andare direttamente alle teorie poststrutturaliste, alle idee sulla "decostruzione" e ai filosofi postmoderni come Jacques Derrida, per affrontare la "differenza", quale unica idea che unisce le persone.
Sono retribuito a ore, senza contratto a tempo indeterminato, come docente donna, perché le imprese universitarie hanno messo in atto una politica di discriminazione positiva, che fa battere cassa quando assume un uomo che si identifica come "donna" e che può ottenere il posto di docente e che ha molto più senso finanziario per la direzione dell'università invece che pagare il mio congedo di maternità.
Bisogna confrontare le basi materiali della mia esistenza e l'identità di uomo che si definisce donna, e che ha studiato Derrida, come ho fatto io. Quest'uomo ha tutto il sostegno filosofico, oltre ai finanziamenti universitari, per rafforzare la sua posizione e definire le preoccupazioni di classe un "progetto fallito": questo è ciò che insegnano nel postmodernismo - la fine della logica, la fine della storia, la futilità della lotta sociale e della resistenza.
Siamo in questo partito perché siamo d'accordo con ciò che ha detto Karl Marx? Comprendiamo la necessità di sfuggire a questa educazione capitalistica che ci disabilita; che disabilita la nostra capacità di unire e di comprendere ciò che abbiamo in comune e di agire su di esso; che ci insegna a feticizzare la nostra sconfitta? Mi sono stati offerti vari lavori per parlare della mia "sconfitta", di ciò che mi rende diverso, come donna... Si può approdare alle carriere accademiche essendo "anti-patriarcali" e considerando se stessi come "una classe per noi". Ma non siamo in questo partito perché crediamo di essere una classe “di genere”: nessun marxista-leninista dovrebbe crederci.
Si può sicuramente guadagnare di più insegnando agli altri a credere di essere una classe in sé, ma noi siamo qui perché difendiamo la verità, non la carriera. Difendiamo Stalin perché difendiamo la verità storica, non perché Stalin ci distingue come "diversi". Sono sicuro che oggigiorno alcuni possono venire in questo partito per essere 'loro stessi': un altro modo "radicale" di feticizzare la loro "identità" e dichiararsi "diversi" da altri gay o altre lesbiche o altre persone "di genere".
Difendere Stalin può diventare un altro modo di autoidentificarsi. Ma non siamo qui per difendere le nostre identità individuali; siamo qui per trovare veramente ciò che ci può condurre alla società comunista. Se vogliamo aiutare le persone che si trovano in uno stato di dipendenza, allora dobbiamo essere comunisti e avere il coraggio di parlare delle cose che sono un'alternativa a ciò che ci insegnano.
In primo luogo, dobbiamo diventare consapevoli di quali siano esattamente le bugie e gli errori che la classe dominante ci sta insegnando, e di come queste ideologie ci disabilitino, mentre ci nascondiamo in una narrazione sulla “legittimazione” individuale, "azione" e "auto-liberazione". Ci insegnano che abbiamo un agire più "ibrido", "fluido", individuale, distaccato dalla biologia o dai fondamenti materiali, dal precariato. Ci insegnano che in realtà è fuori moda aspettarsi di godere della pensione, di un reddito o di un'abitazione permanente; è trendy essere "raminghi"; è creativo vivere nella precarietà e non avere un lavoro permanente. Ci insegnano ad amare il "cambiamento" e disprezzare la "stabilità"; unirci agli altri per amare la nostra "miseria" - ciò che il capitalismo ci ha rubato. Ci insegnano ad amare le imposizioni del capitalismo, i traumi dello sfruttamento; insegnano alla gente a pensare che questo atteggiamento sia rivoluzionario. Ma è falsa coscienza e nient'altro. Fanno una parodia della classe lavoratrice. Questa ideologia ci segrega, ci isola in folle solitarie e passive di "io". Ci insegnano a odiare ciò che è sano e ad amare invece le nostre malattie.
Il momento della verità è venuto per me quando è stato negato il mio dottorato di ricerca. La mia tesi era una critica all'educazione "inclusiva" del New Labour. In esso, parlavo della disabilità degli studenti e, apparentemente, commettevo “l'errore" di non riuscire a collegare la disabilità con la politica dell'identità, e ne parlavo invece in termini di classe. Sostenevo che l'educazione borghese opprime i bambini non perché siano disabili, fisici o mentali, ma perché sono bambini della classe lavoratrice. Sostenevo che il capitalismo definisce l'identità borghese come capacità; le persone sono considerate capaci quando appartengono alla borghesia e si sottomettono alla sua ideologia. Il capitalismo considera l'identità della classe lavoratrice come una disabilità e cerca di "gestirla" e integrarla nel suo sistema di sfruttamento.
Nel momento in cui ho iniziato a trarre tali conclusioni, gli esaminatori hanno contestato la mia metodologia con "motivi etici" e mi hanno negato il dottorato. Ho dovuto ripresentare la mia tesi, perché, secondo gli esaminatori, stavo "etichettando" le persone chiamandole "classe lavoratrice". L'unica autentica identità è stata da loro censurata come "etichettatura". Mi è stato proibito di parlare della classe dei miei studenti, mentre potevo condurre senza problemi sondaggi sui "desideri sessuali" dei bambini delle scuole elementari.
Sono in questo partito perché il comunismo è l'unico discorso, l'unica filosofia, l'unico modo per parlare delle cose come stanno e radunare le persone non attorno alla loro "deficienza", ma attorno alla loro unica identità collettiva, l'unica che abbiamo e che è basata sulla nostra classe. Non siamo qui per feticizzare i nostri traumi, come li viviamo sotto il capitalismo.
In una società comunista, le persone sperimentano se stesse e gli altri in modo diverso, ad esempio in una società come quella cubana. Non possiamo paragonarci a Cuba. Cuba si è sviluppata lungo un percorso socialista; il popolo è al potere; essi approvano una legislazione rilevante per la loro società e il suo posto nella sfera internazionale. Ai bambini cubani non viene insegnato ciò che insegnano ai nostri figli. Lo Stato e il governo socialista filtrano le cose in modo molto diverso perché l'economia non è la stessa che abbiamo qui. Le leggi cubane sulla LGBTQ non possono essere paragonate alla politica britannica dominante.
Dobbiamo ripristinare le cose che ci uniscono e non le cose che ci dividono. L'unica cosa che ci unisce è la classe, e se ti preoccupi del benessere degli omosessuali, delle donne violentate, dei bambini disabili ecc., devi dichiarare che l'unica opzione che hanno è quella di agire collettivamente, in modo politico organizzato, basato sui loro interessi di classe, e non su un vago idealismo.
Il marxismo-leninismo è l'unico modo per garantire il successo della lotta dei lavoratori. In quanto leninisti, marxisti, non diciamo alle persone che ciò che stanno attraversando è qualcosa che dovrebbero indossare come identità, perché tali identità isolanti li disabilitano. I "diritti dei transgender" rappresentano l'ideologia borghese; l'intera questione confonde la realtà. È puro idealismo, perché la realtà è che non possiamo scegliere la nostra identità a volontà. È un'illusione, un errore e un crimine insegnare alle persone a pensare di poter scegliere in questo modo, sotto il capitalismo. Siamo qui per aiutarli a dissipare le loro illusioni borghesi, e le nostre per prime, per quanto gravose e dolorose possano essere.
Traduzione e sintesi a cura di fp |
gennaio 2019 | redazione |
Internazionale comunista | |
1919-2019: i cento anni dell'Internazionale Comunista
Dal 2 al 6 marzo 1919 si svolse a Mosca il primo Congresso del Comintern, in un momento di crescita del movimento rivoluzionario mondiale e di generale entu-siasmo per la nuova organizzazione, tanto che il secondo Congresso, un anno dopo, con le famose 21 condizioni, ritenne necessario porre un freno all'adesio-ne di quei partiti socialisti ancora impregnati di opportunismo
Fabrizio Poggi
Dopo il centenario della Rivoluzione d'Ottobre, nel 2017; dopo il bicentenario della nascita di Karl Marx, nel 2018; i comunisti celebrano quest'anno i cento anni di quella Conferenza comunista internazionale, apertasi il 2 marzo 1919 a Mosca, che il 4 marzo proclamò la fondazione dell'Internazionale Comunista e si trasformò nel primo Congresso del Comin-tern.
L'atmosfera in cui si tenne l'incontro era di generale entusiasmo, per la crescita del movi-mento rivoluzionario mondiale; tutti gli interventi in quel primo Congresso, conclusosi il 6 marzo, esprimevano la certezza che in molti paesi europei si sarebbe presto arrivati alla ri-voluzione proletaria. Il delegato del giovane Partito comunista tedesco, Hugo Eberlein, dis-se che non era “lontano il tempo in cui il proletariato tedesco porterà la rivoluzione alla sua vittoriosa conclusione”. Il rappresentante ungherese concluse: “Possiamo già ora pre-dire che il Comunismo in Ungheria rivestirà un ruolo decisivo”. Molti delegati si dichiararo-no convinti che “l'idea di collaborazione con la borghesia è già praticamente spenta all'in-terno del movimento operaio e il proletariato sempre più decisamente volta le spalle ai ca-pi social-riformisti”.
In effetti, nonostante la sanguinosa repressione della rivoluzione a Berlino, nel gennaio precedente, a opera del governo socialdemocratico, con il massacro di centinaia di operai e dei capi del movimento spartachista, col feroce assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Lu-xemburg, poi di Leo Jogiches e di tanti altri capi comunisti negli eccidi di marzo, la situa-zione europea infondeva entusiasmo: di lì a poco sarebbero state proclamate Repubbliche sovietiche in Ungheria, Baviera, Slovacchia, poi però soffocate nel sangue, al pari delle ri-voluzioni tedesca e finlandese.
Anche in campo riformista si cercava di riallacciare i legami internazionali. Tra i partiti so-cialisti restii ai tentativi di rianimare la morta II Internazionale o di trovare “terze vie” (In-ternazionale “due e mezzo”) alcuni chiesero l'adesione all'IC. Tra il 1° e il 2° Congresso, i partiti socialisti di Francia, Italia, Germania, Norvegia e altri avevano rotto con l'Interna-zionale di Berna, orientandosi verso Mosca. Si trattava di partiti centristi, diretti da elemen-ti di destra e ciò dettò la necessità di adottare le famose 21 condizioni per l'ammissione al-l'IC, approvate dal 2° Congresso nel 1920, tra cui le principali erano il riconoscimento della dittatura del proletariato, espulsione dal partito di riformisti e centristi, centralismo demo-cratico.
La degenerazione della II Internazionale
Lenin e i bolscevichi russi denunciavano da molti anni la degenerazione della II Interna-zionale e allo scoppio della prima guerra mondiale, col vergognoso atteggiamento dei prin-cipali capi riformisti, avevano cominciato a parlare della necessità della fondazione di una nuova Internazionale, comunista. Il 1° novembre 1914, Lenin scriveva sul Sotzialdemocrat, organo del Partito bolscevico: “La maggioranza dei capi dell'attuale II Internazionale socia-lista ... hanno tradito il socialismo votando i crediti di guerra, ripetendo le parole d’ordine scioviniste (“patriottiche”) della borghesia dei “loro” paesi, giustificando e difendendo la guerra, partecipando ai ministeri borghesi... Il fallimento della II Internazionale è il falli-mento dell’opportunismo, che si è sviluppato sul terreno delle particolarità del periodo sto-rico trascorso (cosiddetto “pacifico”) ... Oggi non si può costituire un’effettiva unione in-ternazionale dei lavoratori senza rompere decisamente con l’opportunismo... Alla III Inter-nazionale spetta il compito di organizzare le forze del proletariato ... per la guerra civile contro la borghesia di tutti i paesi, per il potere politico, per la vittoria del socialismo!”.
Alcuni embrioni della futura III Internazionale erano spuntati prima del 1914. Nonostante i partiti socialisti fossero ridotti ad appendici governative, di fronte alla prospettiva della guerra, al VII Congresso di Stoccarda della II Internazionale nel 1907 e a quello straordi-nario di Basilea nel 1912 si erano levate voci contro la guerra. Il manifesto di Basilea di-chiarava che “i lavoratori gridano ai governi un ammonimento che è una sfida: osate di proclamare la guerra e noi reagiremo con tutti i mezzi. Se dobbiamo morire, non moriremo uccidendo i nostri fratelli, ma ci sacrificheremo per la causa della emancipazione operaia, cercando di rovesciare per sempre il dominio della borghesia”. La coscienza dell'irriforma-bilità della II Internazionale e dell'impellenza della creazione di una nuova Internazionale si faceva strada, e non solo tra i dirigenti bolscevichi.
Nella corrispondenza con Aleksandr Shliapnikov dell'ottobre 1914, Lenin scriveva che “No-stro compito oggi è la lotta inflessibile e aperta contro l'opportunismo internazionale e co-loro che lo coprono (Kautsky)... È sbagliata la parola d'ordine della “pace”: la parola d'or-dine deve essere quella della trasformazione della guerra nazionale in guerra civile”. Un mese dopo, in “La guerra e la socialdemocrazia russa”, lanciava l'appello a trasformare la guerra imperialista in guerra civile, accolto sprezzantemente dai vertici social-sciovinisti e dagli opportunisti alla Kautsky. A essi rispose Rosa Luxemburg, rinfacciando a Kautsky di aver trasfigurato l'appello del Manifesto dei Comunisti, trasformandolo in “Proletari di tutti i paesi unitevi in tempo di pace e prendetevi reciprocamente alla gola in tempo di guerra”.
Nel 1915, alla Conferenza di Zimmerwald, si crearono una destra e una sinistra e quest'ul-tima, disse Lenin, costituiva “un primo passo verso la III Internazionale; un timido e incoe-rente passo verso la scissione dall'opportunismo”. Un anno dopo, a Kienthal, ancora “un modesto passo in avanti – in sostanza si segna il passo” (Lenin): la destra di Zimmerwald era ancora per la conciliazione con i social-sciovinisti e respingeva l'idea di una III Interna-zionale. Ne “Il programma militare della rivoluzione”, Lenin scriveva che “La lotta contro l'imperialismo, se non è strettamente collegata alla lotta contro l'opportunismo, è una fra-se vuota o un inganno. Uno dei principali difetti di Zimmerwald e di Kienthal, una delle cause fondamentali del possibile fiasco di questi germi della III Internazionale, consiste appunto nel fatto che la questione della lotta contro l'opportunismo non è stata, non dico, risolta nel senso della necessità di rompere con gli opportunisti, ma neppure posta aper-tamente”.
Nella primavera del '15 scriveva ad Aleksandra Kollontaj: “Come si può “riconoscere” la lotta di classe senza capire che è inevitabile che in dati momenti essa si trasformi in guerra civile?”; e nel dicembre 1916, rivolto a Ines Armand: “Bisogna saper combinare la lotta per la democrazia con la lotta per la rivoluzione socialista, subordinando la prima alla secon-da”.
In numerose opere di quel periodo, Lenin continuò a denunciare l’opportunismo e il social-sciovinismo, delineando al contempo le basi ideologiche della nuova Internazionale. “La di-fesa della collaborazione delle classi” scriveva Lenin, “il ripudio dell'idea della rivoluzione socialista e dei metodi rivoluzionari di lotta … la trasformazione in feticcio della legalità borghese, la rinuncia al punto di vista di classe e alla lotta di classe... queste sono le basi ideologiche dell'opportunismo”.
Verso l'Internazionale Comunista
Ancora rivolto alla Kollontaj, nel marzo del '17 Lenin scriveva: “È chiaro che “Zimmerwald” è fallita… La maggioranza di Zimmerwald è costituita da Turati e C, Kautsky e Ledebour, Merrheim: tutti costoro sono passati sulla posizione del socialpacifismo, condannato così solennemente (e così sterilmente!) a Kienthal... Il “centro” di Zimmerwald poi è Robert Grimm, il quale il 7 gennaio 1917 si è alleato con i socialpatrioti della Svizzera per la lotta contro la sinistra!”. In quell'anno, tra le famose “Tesi di Aprile”, scriveva: “Rinnovare l'In-ternazionale. Prendere l'iniziativa della creazione di una Internazionale rivoluzionaria con-tro i social-sciovinisti e contro il "centro"; la VII Conferenza del POSDR (b), poi, impegnava il Partito a prendere l’iniziativa di creare una Terza Internazionale. Nell'agosto successivo, rivolto all'Ufficio estero del CC, scriveva: “Considero la partecipazione alla conferenza di Stoccolma e a qualsiasi altra insieme coi ministri (e farabutti) Cernov, Tsereteli, Skobelev, un vero e proprio tradimento … tutta questa “semi”-socialsciovinistica Commissione di Zimmerwald, che dipende dagli italiani e dai ledebouriani, i quali desiderano l'”unità” coi socialsciovinisti, è la più deleteria delle istituzioni... Noi commettiamo il più grave degli er-rori … mandare per le lunghe o differire la convocazione di una conferenza della sinistra per la fondazione della III Internazionale… I bolscevichi, la socialdemocrazia polacca, gli olandesi, la Arbeiterpolitik, il Demain: ecco un nucleo già sufficiente. Ad esso si aggiunge-ranno di certo... una parte dei danesi... una parte dei giovani svedesi... una parte dei bul-gari, i sinistri dell'Austria, una parte degli amici di Loriot in Francia, una parte dei sinistri in Svizzera e in Italia e poi gli elementi... del movimento anglo-americano”.
Nel gennaio 1918, una conferenza di partiti e gruppi socialisti, indetta a Pietroburgo dal Partito bolscevico, decise la convocazione della conferenza internazionale. Un ulteriore stimolo venne dalla fondazione, nella seconda metà del 1918, di partiti comunisti in Au-stria, Polonia, Ungheria, Finlandia, Lettonia, Argentina. La situazione suscitava entusiasmo, ma ciò che più mancava, come osservava Lenin, era il fattore soggettivo: l'organizzazione internazionale dei comunisti avrebbe aiutato a superare quella carenza. A conclusione del-l'articolo pubblicato sulla Pravda dell'11 ottobre 1918, dal titolo “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky” (dato il procrastinarsi dei tempi della pubblicazione dell'omonima o-pera e l'urgenza di smascherare le calunnie al potere sovietico lanciate da Kautsky che, nonostante tutto, godeva ancora di una certa influenza, Lenin aveva sintetizzato il conte-nuto del libro in un articolo di giornale) Lenin scriveva che “La più grande disgrazia e il maggior pericolo per l'Europa è il fatto che qui non c'è un partito rivoluzionario. Ci sono partiti di traditori, del tipo degli Scheideman, Renaudel, Henderson, Webb e Co, oppure degli spiriti servili del tipo di Kautsky. Non c'è un partito rivoluzionario... [questa è] una grande disgrazia e un grande pericolo. Per questo, è necessario smascherare in ogni modo i rinnegati del tipo di Kautsky, sostenendo i gruppi rivoluzionari dei proletari effettivamente internazionalisti, che ci sono in tutti i paesi. Il proletariato volterà presto le spalle ai tradi-tori e ai rinnegati e seguirà quei gruppi, formerà da essi i propri capi”.
Dopo la Rivoluzione d'Ottobre, dopo l'urgenza di far fronte alla guerra civile e arginare i primi interventi di truppe straniere, a Mosca si tornò a mettere al centro la creazione della nuova Internazionale. Due fattori convinsero i bolscevichi che la situazione fosse matura per la creazione della Terza Internazionale. Il primo, fu la fondazione, a dicembre 1918, del Partito comunista in Germania, considerata il cuore del movimento rivoluzionario in Eu-ropa; il secondo, a febbraio 1919, fu il congresso socialdemocratico di Berna, che condan-nava la Rivoluzione d'Ottobre e ribadiva l'ostilità alla rivoluzione socialista.
Il 1° Congresso dell'IC
Si giunse così alla fondazione dell'Internazionale Comunista, le cui prime deliberazioni, per la sostanza stessa della propria nascita, in lotta con l'opportunismo socialdemocratico, si incentrarono sulla denuncia del tradimento dei principi del socialismo scientifico da parte della vecchia II Internazionale. Ciò si riflesse nei principali documenti adottati al Congres-so.
Contro le formule opportunistiche che consideravano la repubblica parlamentare borghese come la migliore delle repubbliche e ponevano lo Stato “al di sopra delle classi”; contro i centristi socialdemocratici che parlavano di “democrazia pura”, o di “democrazia in genera-le”, contrapposta al potere proletario della Russia sovietica, i comunisti consideravano ur-gente smascherare tali concezioni riformiste, che idealizzavano la democrazia borghese. “Il punto di vista democratico-formale” scriveva Lenin, è proprio “il punto di vista del demo-cratico borghese, il quale non riconosce che gli interessi del proletariato e della lotta di classe proletaria stanno al di sopra”. E ancora: “La democrazia è una delle forme dello sta-to borghese, difesa da tutti i traditori dell'autentico socialismo, che si trovano ora alla testa del socialismo ufficiale e che sostengono che la democrazia contraddice la dittatura del proletariato”. L'assassinio di Liebknecht, Luxemburg e di centinaia di operai tedeschi, costi-tuiva una tragica prova del cinismo della democrazia borghese. Il Congresso dichiarò che non esiste alcuna “democrazia pura”, che rispecchia un'unica “volontà popolare”, dato che nella società divisa in classi e nello Stato di classe non può esserci una volontà unica. Già nel 1916 Lenin aveva scritto che “la democrazia è anch'essa una forma di stato, che dovrà scomparire allorché scomparirà lo Stato” e che “la democrazia è anch'essa il dominio di “una parte della popolazione sull'altra”, è anch'essa uno stato”. Avrebbe poi ribadito il con-cetto all'VIII Congresso del Partito bolscevico, nel marzo 1919: “Oggi vediamo che molti ex-marxisti – ad esempio, in campo menscevico – sostengono che nel periodo della batta-glia decisiva tra proletariato e borghesia possa regnare la democrazia in generale”.
In quel periodo di ascesa del movimento rivoluzionario, in cui era all'ordine del giorno l'ab-battimento del capitalismo, il congresso fondativo dell'IC non poteva non porre come cen-trale la questione della conquista del potere da parte del proletariato, la questione della forma statale del potere proletario. Contro le litanie opportuniste sulla “democrazia pura”, seguendo i concetti del Manifesto di Marx ed Engels, secondo cui la borghesia non lascia volontariamente il potere, il Congresso fece propri i concetti leninisti su democrazia e ditta-tura. “La cosa più importante, ora” aveva scritto Lenin un anno prima, “è dire addio a quel pregiudizio intellettuale borghese, secondo cui dirigere lo Stato possono solo speciali fun-zionari, interamente dipendenti dal capitale”; al contrario, la strada verso la “progressiva liquidazione dello Stato” passa per “il sistematico coinvolgimento di un numero sempre maggiore di cittadini al diretto e quotidiano adempimento della propria parte di onere alla direzione dello Stato”.
Lo Stato proletario
All'inizio degli anni '90 del XIX secolo Friedrich Engels aveva detto che“... l'unica istituzione che il proletariato trova pronta dopo la propria vittoria, è proprio lo Stato. Per la verità, questo Stato necessita di cambiamenti molto significativi, prima di poter adempiere alle sue nuove funzioni”. Ora, stravolgendo il pensiero di Engels, gli opportunisti sostenevano che egli proponesse non di distruggere il vecchio Stato, ma solo di cambiarne le funzioni. In realtà, Engels polemizzava con gli anarchici, secondo i quali il primo atto della rivoluzio-ne socialista sarebbe stato la liquidazione di ogni Stato, anche dello Stato proletario. Dopo la Comune di Parigi, sia Engels che Marx avevano sempre parlato di “spezzare”, “elimina-re”, “tagliare”, “liquidare” lo Stato borghese, quale macchina per l'oppressione della classe operaia, e sostituirlo con il nuovo Stato proletario. Il primo Congresso dell'IC ritenne fon-damentale chiarire che l'instaurazione del potere proletario equivale a eliminare, spezzare la macchina statale borghese e creare una struttura statale nuova, che in Russia si era concretizzata nei Soviet, definiti da Gramsci “forma immortale di organizzazione della so-cietà” e che avevano cominciato a diffondersi in numerosi paesi europei, quali embrioni di un nuovo potere.
La “rivoluzione è un'autentica rivoluzione e non vuota e gonfiata retorica demagogica” scriveva Gramsci nell'estate 1919, “solo quando si incarna in uno Stato di un tipo determi-nato, allorché diviene sistema organizzato di potere... La rivoluzione proletaria è tale solo quando dà vita a uno stato di tipo nuovo – lo stato proletario – e si incarna in esso… Lo Stato socialista non può incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalista, ma è una crea-zione fondamentalmente nuova rispetto ad esse… La formula “conquista dello Stato” deve essere intesa in questo senso: creazione di un nuovo tipo di Stato, generato dalla espe-rienza associativa della classe proletaria, e sostituzione di esso allo Stato democratico-parlamentare”.
Un tratto importantissimo del potere proletario consiste nella sua funzione di repressione della resistenza delle classi sfruttatrici e nella costruzione del socialismo. L'essenza della questione, aveva già scritto Lenin, è “se si conserva la vecchia macchina statale (legata con mille fili alla borghesia e interamente impregnata di routine e immobilismo) o se essa venga distrutta e sostituita con una nuova”. Nel 1917, in “Stato e rivoluzione”, scriveva che “L'opportunismo non conduce il riconoscimento della lotta di classe per l'appunto fino al momento principale, fino al periodo del passaggio dal capitalismo al comunismo, fino al periodo dell'abbattimento della borghesia e della sua piena liquidazione. Di fatto, questo periodo è inevitabilmente un periodo di lotta di classe di un accanimento senza precedenti, in forme quanto mai aspre e, conseguentemente, anche lo Stato di questo periodo deve essere uno Stato democratico in modo nuovo (per i proletari e i non possidenti in genera-le), e dittatoriale in modo nuovo (contro la borghesia)”. Uno Stato che, in Russia, si espri-meva nei Soviet degli operai dei soldati e dei contadini. Il “passaggio dal capitalismo al comunismo” produrrà un'immensa “varietà di forme politiche” nei diversi paesi, scriveva Lenin, “ma la essenza sarà inevitabilmente una: la dittatura del proletariato”. E Gramsci, su L'Ordine Nuovo: “L'essenziale fatto della rivoluzione russa è l'instaurazione di un tipo nuovo di Stato: lo Stato dei Consigli”; poi, nel luglio 1919, continuava: “Aderire alla Inter-nazionale comunista significa aderire alla concezione dello Stato soviettista e ripudiare o-gni residuo della ideologia democratica, anche nel seno della attuale organizzazione del movimento socialista e proletario”. E a novembre, pensando all'Italia, scriveva: “Gli operai e i contadini d'avanguardia … hanno indicato al Partito la via della presa del potere, la via del governo, la cui base costituzionale non sia il parlamento eletto a suffragio universale, sia dagli sfruttati che dagli sfruttatori, bensì il sistema dei Consigli degli operai e dei conta-dini, che incarnino sia il governo del potere industriale, sia quello del potere politico, che servano quale strumento per la rimozione dei capitalisti dal processo di produzione e per la privazione del loro ruolo di classe dominante in tutti gli organismi nazionali di gestione centralizzata dell'attività economica del paese”.
I documenti del 1° Congresso dell'IC
Il 4 marzo 1919 il Congresso approva la Piattaforma dell'IC. In essa si dice che, date le crescenti contraddizioni del sistema capitalista, l'umanità “è minacciata di completo an-nientamento” e vi è “una sola forza che può salvarla, ed è il proletariato”. La “conquista del potere politico da parte del proletariato significa la liquidazione del potere politico della borghesia”, con “il suo esercito, la sua polizia, i suoi giudici e direttori di carcere, i suoi preti, funzionari”. E ciò “non significa soltanto un cambiamento della compagine ministe-riale, ma l'annientamento dell'apparato statale del nemico, il disarmo della borghesia, degli ufficiali controrivoluzionari, delle guardie bianche e l'armamento del proletariato, dei solda-ti rivoluzionari, della guardia rossa operaia; la destituzione di tutti i giudici borghesi e l'in-sediamento di tribunali proletari; l'abolizione del dominio dei funzionari statali reazionari e la creazione di nuovi organi d'amministrazione proletari. La vittoria del proletariato sta nel distruggere l'organizzazione del potere avversario e nell'organizzazione del potere proleta-rio”.
Si afferma quindi che, “come ogni Stato, lo Stato proletario è un apparato coercitivo... di-retto contro i nemici della classe operaia … per spezzare e rendere impossibile la resisten-za degli sfruttatori”. Di contro, “la democrazia borghese, non è niente altro che la dittatura mascherata della borghesia. La tanto esaltata "volontà collettiva del popolo" non esiste più di quanto esista il popolo come un tutto unico. Di fatto le masse e le loro organizzazioni sono totalmente estromesse dall'effettiva amministrazione statale. Nel sistema sovietico l'amministrazione passa per le organizzazioni di massa, e tramite loro per le masse stesse, poiché i soviet accostano un numero sempre crescente di lavoratori all'amministrazione statale”.
Il nuovo Stato proletario, si afferma nella Piattaforma, espropria la borghesia e socializza la produzione; condizione della vittoria, è però la “rottura non solo con i diretti lacchè del capitale e i boia della rivoluzione comunista, ruolo ricoperto dalla destra socialdemocratica, ma anche la separazione dal “centro” (kautskyani) che nel momento decisivo abbandona il proletariato e flirta con i suoi nemici dichiarati”. È maturo il tempo, si afferma, per la lotta del proletariato internazionale per il potere, per la dittatura del proletariato, che deve spezzare la resistenza della borghesia e assicurare il passaggio al socialismo. “La dittatura del proletariato è la lotta di classe del proletariato che ha vinto e ha preso nelle proprie mani il potere politico contro la borghesia vinta, ma non ancora liquidata”.
Il Congresso approva poi le 22 Tesi di Lenin su “Democrazia borghese e dittatura del pro-letariato”, in cui vengono sviluppati i concetti già esposti in Stato e rivoluzione e La rivolu-zione proletaria e il rinnegato Kautsky. Vi si illustra il carattere limitato, di classe, della democrazia borghese e la necessità storica della sua sostituzione con la dittatura del prole-tariato: “In nessun paese capitalistico esiste la “democrazia in generale”, ma esiste soltan-to la democrazia borghese”. Si denuncia il ruolo della socialdemocrazia, che usa ipocrita-mente le formule di “democrazia pura”, “democrazia in generale” e “dittatura in generale”, senza specificare di quale classe e contro quale classe, per calunniare lo Stato sovietico, lottare in generale contro la rivoluzione proletaria e difendere, di fatto, la borghesia. Il po-tere sovietico, dice Lenin, è la forma statale concreta, scoperta dalle masse stesse, della dittatura del proletariato. La storia insegna che nessuna classe oppressa è mai giunta al dominio, senza attraversare un periodo di dittatura, cioè di conquista del potere politico e di repressione violenta della più disperata e più rabbiosa resistenza degli sfruttatori, che non arretrano dinanzi a nessun delitto. La borghesia, continua Lenin, il cui dominio è dife-so oggi dai socialisti che parlano contro la "dittatura in generale" e si spolmonano per la "democrazia in generale", ha conquistato il potere nei paesi progrediti a prezzo di “una se-rie di insurrezioni, guerre civili, repressione violenta di re, feudatari, proprietari di schiavi e dei loro tentativi di restaurazione. I socialisti di tutti i paesi … hanno illustrato al popolo migliaia e milioni di volte il carattere di classe di queste rivoluzioni borghesi, di questa dit-tatura borghese. Perciò, l'odierna difesa della democrazia borghese sotto forma di “demo-crazia in generale" e le odierne urla e grida contro la dittatura del proletariato sotto forma di urla contro la "dittatura in generale", rappresentano un aperto tradimento del sociali-smo, il passaggio di fatto dalla parte della borghesia… Tutti i socialisti, illustrando il carat-tere di classe della civiltà borghese, della democrazia borghese, del parlamentarismo bor-ghese, hanno interpretato l'idea che già Marx ed Engels, con maggior precisione scientifi-ca, avevano espresso con le parole secondo cui la repubblica borghese più democratica non è altro che una macchina per la repressione della classe operaia da parte della bor-ghesia, della massa dei lavoratori da parte di un pugno di capitalisti”.
Parlando dello Stato proletario, Lenin afferma che l'essenza del potere sovietico consiste nel fatto che “la costante e unico fondamento di tutto il potere statale, di tutto l'apparato statale è l'organizzazione di massa proprio di quelle classi che erano oppresse dal capitali-smo, cioè operai e semi-proletari... Proprio quelle masse che, anche nelle repubbliche bor-ghesi più democratiche, pur avendo per legge uguali diritti, di fatto, con mille mezzi e trucchi, erano escluse dalla partecipazione alla vita politica e dal godimento dei diritti e li-bertà democratiche, partecipano ora in permanenza e immancabilmente, e in modo decisi-vo, alla gestione democratica dello stato”. Del resto, in Stato e rivoluzione, aveva già scrit-to che “la rivoluzione deve consistere non nel fatto che una nuova classe comandi, diriga per mezzo della vecchia macchina statale, ma nel fatto che essa spezzi quella macchina e comandi, diriga con una nuova macchina”. E nel dicembre del 1919, a proposito di Assem-blea costituente e Dittatura del proletariato, scriverà: “Pieni di pregiudizi piccolo-borghesi, avendo dimenticato la cosa più importante dell'insegnamento di Marx sullo Stato, i signori “socialisti” della II Internazionale guardano al potere statale come a qualcosa di sacro, un idolo oppure la risultante di elezioni formali, l'assoluto della “democrazia conseguente”.
Nel “Manifesto dell'IC al proletariato di tutto il mondo” si afferma infine che “Settantadue anni fa, il Partito Comunista annunciò al mondo il proprio programma sotto forma di "Ma-nifesto". Già allora il comunismo, appena apparso sull'arena della lotta, fu circondato dalle vessazioni, menzogne, odio e persecuzioni delle classi possidenti. L'epoca dell'ultima deci-siva lotta è giunta più tardi di quanto si attendessero e sperassero gli apostoli della rivolu-zione sociale. Ma essa è giunta. Noi comunisti, rappresentanti del proletariato rivoluziona-rio di diversi paesi d'Europa, America e Asia, riuniti nella Mosca sovietica, ci sentiamo e ci riconosciamo quali successori e dirigenti di quella causa, il cui programma era stato pro-clamato 72 anni fa. Il nostro compito consiste nel generalizzare l'esperienza rivoluzionaria della classe operaia, epurare il movimento dall'opportunismo e dal social-patriottismo, uni-re gli sforzi di tutti i partiti veramente rivoluzionari del proletariato mondiale e con ciò faci-litare e accelerare la vittoria della rivoluzione comunista in tutto il mondo”.
Oltre a Piattaforma, Tesi e Manifesto, tra i principali documenti del Congresso ci furono le Risoluzioni su: Atteggiamento verso le correnti “socialiste” e la conferenza di Berna, Terro-re bianco, Coinvolgimento delle operaie alla lotta per il socialismo; le Tesi sulla situazione internazionale e la politica dell'Intesa; l'Appello agli operai di tutti i paesi.
Nel luglio 1919, in risposta a un intervento del leader del Partito operaio indipendente bri-tannico, Ramsay MacDonald, a proposito della fondazione dell'IC e della rottura con l'In-ternazionale gialla di Berna, Lenin scrive che con persone quali MacDonald, “tipico rappre-sentante della II Internazionale, degno compagno d'armi di Scheidemann e Kautsky, di Vandervelde e Branting e compagnia bella”... la scissione è necessaria e inevitabile, perché non si può compiere la rivoluzione socialista a fianco di coloro che difendono la causa della borghesia. … Noi consideriamo l'Internazionale di Berna, nel suo complesso, un'Interna-zionale gialla, di traditori e di rinnegati, perché tutta la sua politica è una “concessione” al-la borghesia. Ramsay MacDonald sa bene che abbiamo costituito la III Internazionale e abbiamo rotto incondizionatamente con la II, poiché ci siamo convinti della sua irrimedia-bilità, della sua incorreggibilità, del suo ruolo di serva dell'imperialismo, di conduttrice del-l'influenza borghese... nel movimento operaio. … L'Internazionale “di Berna” è ... un'orga-nizzazione di agenti dell'imperialismo internazionale, che agiscono all'interno del movimen-to operaio. Per vincere effettivamente l'opportunismo, che ha condotto alla fine ignominio-sa della II Internazionale, per aiutare di fatto la rivoluzione ... bisogna: fare tutta l'agita-zione e la propaganda dal punto di vista della rivoluzione, in opposizione al riformismo... Nessuno dei partiti dell'Internazionale “di Berna” soddisfa questa esigenza. Nessuno dimo-stra anche solo d'aver capito che in tutta l'agitazione e propaganda bisogna spiegare la differenza tra riforme e rivoluzione, bisogna educare incessantemente alla rivoluzione (...)”.
“... esiste una sola Internazionale di fatto ed esistono due uffici, due burocrazie dell'Inter-nazionale operaia: uno a Mosca, un altro a Berna”, scriveva Gramsci nel giugno 1919; “u-no, vicino, che non riscuote nessun prestigio, che non gode nessuna autorità, larva evane-scente che passeggia l'Europa occidentale col passaporto vidimato e timbrato dai governi capitalistici. L'altro, lontano, comunicante con i suoi aderenti, saltuariamente, con senzafilo lacunosi e mal tradotti; ma vivo nelle coscienze, attivo ed operante come tutte le energie storiche che scaturiscono dalla necessità sociale. L'internazionale operaia è una sola, l'In-ternazionale comunista rivoluzionaria”.
A cento anni di distanza, oggi che il posto dei social-sciovinisti a difesa degli interessi della “propria” borghesia e del “proprio” Stato è occupato dai liberal-reazionari del PD e il ruolo di centro-conciliatore è rivestito dalle loro appendici della “sinistra” sakharoviana, è compi-to dei comunisti dar vita a una organizzazione strutturata su base marxista-leninista, radi-cata tra i reparti d'avanguardia della classe operaia, che smascheri i reggicoda “democrati-ci” di capitalisti e banchieri, per giungere a spezzare, frantumare il loro apparato statale, sulla strada della dittatura del proletariato e del socialismo.
|
gennaio 2019 | redazione |
Venezuela | |
Venezuela, una dichiarazione di guerra
Brevi note su un copione già visto
Daniela Trollio (*)
Cosa sta succedendo in Venezuela è noto a tutti i lettori di "nuova unità" e vi invitiamo a leggere l’intervista al 2° console del Venezuela a Milano pubblica-ta in questa pagina, anche perché – come sempre – nessun rappresentante della nostra tanto decantata stampa “libera e democratica” (le maggiori testa-te italiane appartengono a De Benedetti, Berlusconi, Confindustria e Medio-banca, alla faccia della “pluralità”…) ha ritenuto di far sentire la voce del go-verno bolivariano legittimamente eletto (attraverso un sistema elettorale de-finito da anni come il più sicuro del mondo) e del suo popolo. Del resto è no-to che la prima vittima delle guerre è sempre la verità.
Ci limitiamo quindi a poche, brevi note. Brevi perché si tratta di un copione già visto, che è comunque ripetuto contando sulla nostra deplorevole man-canza di memoria.
Uno dei primi atti del governo statunitense nella crisi venezuelana è stato il blocco dei conti e dei pagamenti della Citgo, la filiale statunitense della PDVSA venezuelana che raffina il petrolio (venezuelano) negli Stati Uniti e dei depositi bancari dello Stato venezuelano negli USA, il cui titolare diventa, per grazia di Trump, il presidente-autonominato Juan Guaidò.
Ricordate il cosiddetto “oro di Gheddafi”? Si trattava di 143 tonnellate di oro e di circa 130 miliardi in valuta della Banca Centrale Libica, quindi dello stato li-bico, letteralmente spariti dalla faccia della terra… e dall’informazione “libera e democratica”.
Le riserve naturali: il Venezuela è un paese ricchissimo di risorse naturali, tra cui quelle di petrolio che rappresentano il 24% della produzione dell’OPEC (l’Arabia Saudita ne possiede il 21%). Oggi gli USA sono alla ricerca disperata di petrolio: la loro produzione interna sta diminuendo e, nonostante per que-sto abbiano incendiato il Medio Oriente, il loro problema si fa sempre più gra-ve.
Il Venezuela ha la più grande riserva di acqua dolce dell’America Latina. Da anni scienziati e analisti avvertono che le prossime guerre – grazie al dissen-nato sfruttamento imperialistico delle risorse del pianeta – avranno per og-getto proprio l’acqua, “l’oro blu”.
Il Medio Oriente, dicevamo. Nonostante le devastanti aggressioni militari dell’imperialismo USA e dei suoi alleati (Europa in prima fila, non dimenti-chiamocene) che hanno distrutto negli anni la vita di circa 100 milioni di per-sone, non sono riusciti a controllare Iraq, Afganistan, Libia, Sudan e – ultima ma importantissima – la Siria, che ha resistito e contrattaccato. Bisogna quin-di recuperare terreno: e allora ritornano al cortile di casa, l’America Latina, con tutti i mezzi, dalle elezioni fraudolente alle minacce militari.
Oggi stanno cercando di sganciarsi anche dall’Afganistan, dove stanno atti-vamente trattando con i talebani: dove andranno tutti i militari statunitensi “ritirati”? Un indizio lo abbiamo. Pochi giorni fa, durante un’intervista televisi-va, John Bolton – il consigliere alla Sicurezza Nazionale di Trump – si è pre-sentato con un bloc notes sotto il braccio su cui era scritta la seguente frase “5.000 uomini in Colombia?”. Forse un po’ incautamente, l’auto-nominato Guaidò gli ha fatto subito eco annunciando il seguente progetto: “Annuncia-mo una coalizione mondiale per gli aiuti umanitari e la libertà in Venezuela. Abbiamo già tre punti di raccolta per gli aiuti: Cucutà (Colombia) è il primo. Un altro sarà in Brasile e un altro in un’isola dei Caraibi”. La Colombia, Stato narco-trafficante e terra promessa delle bande paramilitari. Già, perché prima di utilizzare i propri soldati quando la guerra non viene fatta dall’aria ma di-rettamente sul terreno, gli USA - evidentemente il Vietnam brucia ancora - preferiscono che siano altri a sporcarsi le mani, loro consigliano, addestrano e forniscono soldi, armamenti e logistica. Non per niente l’organizzatore della “transizione democratica” in Venezuela nominato da Trump è Elliot Abrams, il venditore di armi dello scandalo Iran-Contra, condannato ma amnistiato da Bush padre, organizzatore degli Squadroni della morte in Salvador, Honduras, Nicaragua e Guatemala,
Dall’altra abbiamo il legittimo presidente del Venezuela bolivariano, Nicolàs Maduro, che dice al suo popolo: “Se vogliamo la pace, prepariamoci a difen-derla!”, annunciando che le 50.000 “unità popolari di difesa” - le milizie popo-lari che assommeranno a circa due milioni di miliziani, “in tutti i quartieri, pa-esi, città e villaggi”- saranno incorporate alla Forza Armata Nazionale Boliva-riana (FANB).
Ci sono altri obiettivi: far fuori il Mercosur, il progetto di integrazione econo-mica latino-americana e l’ALBA, il Trattato di Commerci dei Popoli, alternativa all’ALCA, il trattato di “libero” commercio promosso dagli USA; smantellare Petrocaribe, che fornisce petrolio ai paesi della regione (come Cuba e Nicara-gua) a condizioni più favorevoli del mercato internazionale; bloccare i cre-scenti investimenti in Venezuela di Cina e Russia…
Non si tratta, comunque, solo di economia e geopolitica. L’imperialismo non può più tollerare che ci siano popoli – e governi – ribelli che vogliono liberarsi dalla sua morsa e decidere in prima persona del proprio destino. Il Venezue-la, come già Cuba, Bolivia e altri paesi, rappresenta un pericoloso esempio che è possibile farlo, e perciò va cancellato perché altri non lo raccolgano.
Ed è questo che interessa anche noi, questo che fa della battaglia del Vene-zuela bolivariano e antimperialista oggi – e di altri paesi ieri e domani – la no-stra stessa lotta. È interesse della classe operaia internazionale sostenere le lotte antimperialiste e dei popoli oppressi perché ogni sconfitta dell’imperialismo significa un rafforzamento della lotta di classe per la libera-zione dallo sfruttamento capitalista e dall’oppressione all’interno dei singoli paesi.
Poche parole ancora, rivolte a tutti quei “rivoluzionari” nostrani che in questi anni hanno scelto la via della… non scelta. Né con l’imperialismo né con Gheddafi, né con gli USA né con Assad… e adesso né con l’imperialismo né con Maduro (= né con il popolo venezuelano). Sono le parole di qualcuno che di anti-imperialismo e di lotte dei popoli oppressi e sfruttati se ne inten-deva parecchio e che per questo ha dato la vita. Sono le parole di Ernesto Che Guevara ad Algeri, il 24 febbraio 1965:
“E ogni volta che un paese si stacca dal tronco imperialista non solo si vince una parziale battaglia contro il nemico fondamentale, ma si contribuisce an-che al suo reale indebolimento e si fa un passo avanti verso la vittoria defini-tiva”.
|
20 maggio 2019 | redazione |
elezioni europee | |
“LA
SINISTRA” PER LA UE |
17 marzo 2019 | redazione |
Intervista | |
Gilet
gialli per far cadere Macron e la sua grandeur |
politica | |
Contratto di governo, contratto di classe | |
L'insediamento del nuovo governo Di Maio-Salvini ha una sua originalità sia sul come Lega-M5S siano arrivati al risultato elettorale, sia su com'è stato definito il cosiddetto contratto tra Lega (nord) e Movimento 5 stelle. Un risultato che ha visto la partecipazione al voto di poco più del 50% degli aventi diritto con la Lega di Salvini che ha portato via voti soprattutto ai suoi alleati di centro-destra arrivando ad un risultato del 16% contro un M5S che invece ha superato il 34%. Ma, buon viso a cattiva sorte, è andato bene al M5S per riuscire a formare un governo che hanno definito di cambiamento.
Abbiamo assistito alle manovre del Presidente Mattarella per dare a tutti i costi un governo al paese, tanto che è stata rifiutata la nomina a ministro dell'economia di Savona perchè poteva rappresentare un pericolo per l'economia, di far fluttuare i mercati finanziari, di spaventare i grandi investitori stranieri, far aumentare lo spread mentre è stato accettato Salvini a ministro degli Interni. Evidentemente secondo la Presidenza della Repubblica sarebbe meno pericoloso!! Invece quanto sia pericoloso lo abbiamo visto fin dai suoi primi giorni del suo insediamento. Salvini spaventa gli immigrati, è ben accetto dai settori economicamente dominanti perché piace al grande capitale chi è forte con i deboli e debole con forti.
Una formula nuova di governo, quella di un contratto privatistico tra due parti apparentemente diverse, ma che trovano un comune interesse nel Programma del fare e nella spartizione delle poltrone di governo e del sotto-governo. Un contratto che consente ad ognuna delle parti di fare e dire quello che elettoralmente ritengono più conveniente in vista di prossime elezioni. Un governo di propaganda reazionaria urlata, ma che nella sostanza rappresenta una continuità con i governi borghesi che lo hanno preceduto, altro che cambiamento! E non poteva che essere così. Il loro stare insieme è possibile perché hanno un blocco sociale cui fanno riferimento entrambi, una comune base elettorale divisa tra Nord (la lega) e Sud (M5S).
La borghesia come classe sociale è stratificata in settori e interessi diversi e anche contrapposti. Nel suo sviluppo moderno - quella delle grandi aziende, dei monopoli e delle multinazionali, della grande finanza - il grande capitale è costretto, per la sua sopravvivenza, a gettare sul lastrico settori interi della sua classe . “I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l'artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare l'esistenza loro di ceti medi dalla rovina. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancor più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all'indietro la ruota della storia”. (Manifesto Marx-Engels)
La crisi generale, in particolare nel nostro paese, ha acutizzato questa contraddizione: da un lato nel periodo di sviluppo o di minor crisi è stato incrementato lo sviluppo della piccola e media borghesia utile sia a frammentare la lotta del proletariato, sia a creare quella sovrastruttura tecnologica, intellettuale e infrastrutturale necessaria a mantenere il paese nelle prime file degli Stati imperialisti. Dall'altro lo sviluppo ineguale e la concorrenza - che caratterizzano la società capitalista - hanno distrutto gran parte delle strutture produttive piccole e medie e intaccano anche quei settori della pubblica amministrazione che fino ad ora sono stati la base elettorale dei vari partiti borghesi dalla DC al PSI e al PCI poi PD. Il grande capitale deve risparmiare sulle spese di gestione del proprio Stato borghese per poter dirottare maggiori soldi alle grandi imprese che si trovano in competizione sullo scenario internazionale.
La massa enorme di piccola borghesia rivendica il suo “posto al sole”: “Oggi la piccola borghesia si è trasformata nella truppa scelta della reazione, vigila sui castelli, altari e troni dai quali spera la salvezza contro la miseria, in cui è stata spinta dallo sviluppo economico...” (Kautsky-1906)
L'approccio a queste contraddizioni divide la politica dei vari schieramenti politici che, come espressione del grande capitale, promette ricchezze a tutto il popolo. Se il paese è tra i primi posti dello schieramento imperialista, sarà maggiormente sensibile all'esportazione di merci e capitali e appoggerà politiche estere adeguate a stare in Europa ecc. Chi è maggiormente legato ai settori in sofferenza a causa della stasi del mercato interno, della difficoltà di ottenere credito bancario senza possibilità di fare investimenti produttivi o è maggiormente colpito dalla concorrenza dei capitalisti italiani ed esteri più competitivi, tenderà a legarsi alle proposte nazionaliste, ai dazi protezionistici alle parole d'ordine del “prima gli italiani”. Ma nessuna delle varie fazioni della borghesia mette in discussione il capitalismo, anzi tutti lo prospettano come la società migliore per l'umanità. Il comune denominatore rimane quello di dare aiuti alle imprese: chi vuole aiutare le grandi ad essere competitive sui mercati internazionali e chi vuole aiutare le piccole per essere all'altezza delle richieste qualitative delle grandi. Una frattura che nella descrizione appare schematica e netta, ma che nella realtà non è.
Le posizioni politiche della piccola borghesia oscillano e si contraddicono contemporaneamente ma sono univoche contro il proletariato che lotta per la sua emancipazione dallo sfruttamento. Sono con la Russia di Putin e con gli Usa di Trump; tutti sono con Israele e la NATO; sono contro l'Europa ma sono tutti per l'Unione Europea; sono contro gli immigrati: chi li vuole accogliere e chi no, ma sono tutti pronti a pagare le bande di miliziani (Libia) o paesi come la Turchia di Erdogan per fare il lavoro sporco. Tutti sono d'accordo per un'immigrazione programmata in base alle esigenze dell'economia nazionale e possibilmente di alta qualità professionale. E c'è chi propone un piano Marshall europeo per l'Africa al fine di poter partecipare al bottino da contendere con altre potenze imperialiste già presenti nel Continente. Sono gli esponenti della stessa classe sociale che oltre un secolo fa ha deportato e reso schiavi, per incrementare le proprie ricchezze, milioni di uomini.
Nella mobilitazione reazionaria della borghesia le sue frazioni piccolo-medie sono le “truppe scelte”, sono quella parte più vicina al popolo che possono fare da trade-union con esso. Quando sbraitano contro le banche, contro la legge Fornero o per il reddito di cittadinanza, contro i privilegi della casta ecc. - in un paese dove la disoccupazione arriva a superare il 40% della popolazione attiva e dove non esistono case popolari -, lo slogan "prima di tutto gli italiani" convince o illude anche settori popolari. Inventare poi un finto nemico (l'immigrato) da combattere è sempre stato un buon metodo usato dai padroni al potere per nascondere la verità e orientare la rabbia contro falsi obiettivi.
Le forze reazionarie Lega e M5S sono state percepite come alternative (a cosa?) come forze capaci di andare contro lo stato di cose presenti. Una percezione stimolata dai mezzi di informazione e anche da quelle forze di "sinistra" e da settori sindacali che le hanno indicate come cambiamento sia prima che dopo le ultime elezioni. Da quando D'Alema definiva la Lega Nord di Bossi una “costola della sinistra” alle ultime elucubrazioni sinistre di chi pensava che il M5S potesse essere uno strumento di indebolimento e destabilizzazione dello schieramento e del potere borghese, o che votare M5S fosse il male minore, il voto utile (a cosa?) di fronte allo sfascio della sinistra borghese e riformista.
Anche ora si intravedono esitazioni nell'attaccare il governo DiMaio-Salvini, differenziano tra le parti più reazionarie - apertamente razziste e fasciste di Salvini -, diventano cauti e possibilisti con la parte rappresentata dal M5S e sperano sempre nello sviluppo di contraddizioni tra i componenti del governo invece che puntare sulla mobilitazione e l'organizzazione dei lavoratori per abbattere questo governo, nel suo insieme, antipopolare, fascista e razzista.
Queste posizioni derivano dal fatto che una parte consistente della piccola borghesia è scaraventata nelle fila del proletariato e questi strati declassati portano il proprio punto di vista nel proletariato stesso. Esprime le sue oscillazioni di classe intermedia e in via di estinzione attraverso opinioni e atteggiamenti politici e, naturalmente, entra in contatto con partiti e organizzazioni varie, anche quelle proletarie. Anzi fa di tutto per creare Partiti e organizzazioni, per porsi alla testa del proletariato e tentare di dirigerlo.
Organizzazioni che oscillano da posizioni super-rivoluzionarie e parole d'ordine altisonanti, a posizioni riformiste e conciliatrici con il potere borghese e imperialista. Questa piccola borghesia rappresenta uno dei tanti pericoli per la classe operaia in quanto strumento diretto o indiretto della penetrazione dell'ideologia borghese nella classe. È lo strumento della frammentazione, del frazionismo, è il freno per l'organizzazione autonoma e indipendente della classe in partito politico, nel Partito Comunista.
|
Decreto dignità: ora è legge | |
Il testo della legge di conversione del DL n. 87/2 | |
Le nuove norme: dai contratti ai licenziamenti illegittimi alle scom-messe, ecco le misure
Il Decreto Dignità - dopo aver ottenuto il via libera definitivo dell’Aula del Se-nato con 155 sì, 125 no e 1 astenuto - è diventato legge in un clima di rissa. Urla, cartelli, appelli alla calma, con cori da stadio che ripetevano più volte la parola `Di-gni-tà´, hanno accompagnato a Palazzo Madama il voto definitivo.
Il decreto dignità, su cui il viceministro 5Stelle Di Maio si era speso parec-chio, aveva creato molte aspettative negli elettori del governo del “cambia-mento” Lega-5 Stelle ma, una volta definitivamente approvato, delude tutte le aspettative non solo di chi si aspettava la definitiva abrogazione del Job acts, ma anche di imprese, professionisti e soprattutto lavoratori.
Nella legge, infatti, non si parla di flat tax, e non è stato abrogato lo spe-sometro (di fatto neanche una proroga), solo un ritocco (peraltro ancora non pienamente definito) del redditometro.
Anche per chi ci aveva creduto, il risultato è abbastanza deludente, o quan-tomeno inferiore alle aspettative. Non viene ripristinato l’art. 18, non è abolito il job acts, ma solo riformate le norme sui licenziamenti e sui contratti a termine; ed è introdotto un vincolo sulle delocalizzazioni.
Quindi per i padroni rimane la libertà di licenziare come e quando vogliono: pagheranno qualche mensilità in più, un’elemosina che non cambia la sostan-za del potere padronale sulla forza lavoro. Eppure la questione lavoro è stato il cavallo di battaglia su cui il vice premier e ministro del lavoro Luigi Di Maio aveva molto insistito in campagna elettorale.
Ma vediamo i punti del decreto dove sono riformate le norme sui licenzia-menti e sui contratti a termine; e viene introdotto un vincolo sulle delo-calizzazioni.
1 - Le novità sul lavoro
a) I contratti a termine avranno una durata massima di 24 mesi rispetto ai 36 della vecchia legge. Per i nuovi contratti ci sarà l’obbligo di motivare i rin-novi.
Se il contratto a termine supera i 12 mesi e non sono indicate le causali, il contratto si trasforma automaticamente a tempo indeterminato.
I contratti a tempo determinato, compresi quelli in somministrazione, non possono superare il 30% dei contratti a tempo indeterminato nella stes-sa azienda. Previste anche multe di 20 euro al giorno per la somministrazione fraudolenta e l’esclusione delle agenzie di somministrazione dall’obbligo di in-dicare le causali per il rinnovo dei contratti a termine.
I costi aggiuntivi applicati ai rinnovi (0,5%) si applicheranno anche ai contrat-ti a termine in somministrazione.
Da questo provvedimento è però escluso il lavoro domestico, che non rientra nelle penalizzazioni stabilite per i rinnovi dei contratti a termine. La maggiora-zione contributiva dello 0,5 per cento non varrà per collaboratori domestici e badanti.
b) Bonus
Istituito un bonus del 50% dei contributi per le assunzioni di under 35, che dal prossimo anno sarebbe scattato solo per assunzioni di under 30; esso sa-rà esteso anche al 2019 e al 2020. L’esonero del 50% dei contributi previden-ziali a carico dei padroni è riconosciuto per massimo 3 anni e con un tetto di 3mila euro su base annua. Le coperture arriveranno dall’aumento del prelievo erariale unico sugli apparecchi da gioco a partire dal 2019.
c) Licenziamenti illegittimi
È innalzata l’indennità massima che passa da 24 a 36 mensilità, mentre la minima passa da 4 a 6 mensilità.
2 - Voucher
I nuovi voucher potranno essere utilizzati dalle aziende agricole, e anche da-gli alberghi con un massimo di 8 dipendenti (per gli altri settori è 5 il limite di dipendenti). I voucher diventano una forma di pagamento per pensionati, disoccupati, studenti under 25 con durata massima di 10 giorni di contratto.
I lavoratori dovranno essere pagati entro il termine di 15 giorni dallo svolgimento della prestazione lavorativa.
3 – Delocalizzazioni e contrasto alla delocalizzazione
Multe a chi delocalizza: le aziende che hanno ottenuto aiuti dallo Stato per impiantare, ampliare e sostenere le proprie attività economiche in Italia e che spostano la sede al di fuori dell’Unione Europea prima che siano trascorsi 5 anni dalla fine delle agevolazioni subiranno una sanzione da 2 a 4 volte il be-neficio ricevuto.
Sulla scia del nazionalismo, dello slogan “prima gli italiani” e per la “protezio-ne del lavoro italiano”, è introdotto un vincolo alle delocalizzazioni: chi riceve aiuti statali per investimenti produttivi non potrà spostare la sede aziendale all’estero per i successivi cinque anni.
4 - Gioco d’azzardo
Fine della pubblicità del gioco per limitare le ‘ludopatie’ .
Il famoso “nuoce alla salute”, dopo i pacchetti di sigarette, varrà anche per i “gratta e vinci”. I tagliandi per tentare la fortuna dovranno avere note espli-cative (che coprano almeno il 20 per cento della superficie del biglietto su en-trambi i lati) sui rischi del gioco d’azzardo, come succede per i pacchetti di si-garette. Chi viola il divieto di pubblicità del gioco d’azzardo sarà sanzionato con multe fino al 20% della sponsorizzazione (minimo 50mila euro).
Per giocare alle slot e per tutelare i minori sarà obbligatorio, come avviene per le macchinette che distribuiscono tabacco, la tessera sanitaria. Ma anche qui fatta la legge ecco subito l’inganno e l’ipocrisia: l’unica eccezione al divie-to è rappresentata dalle lotterie nazionali.
5 - Maestre
Proroga dei contratti fino a 30 giugno 2019 e un concorso straordinario per risolvere il problema delle maestre diplomate prima del 2001/2002. Sa-ranno prorogati tutti i contratti fino al 2019, trasformando quelli a tempo in-determinato in contratti a termine fino al 30 giugno 2019 e prorogando chi aveva già il contratto a tempo determinato.
Queste in sintesi le misure del Decreto Dignità
Come sempre qualcuno pensa "piuttosto di niente, anche se poco meglio questo rispetto a quanto fatto dai governi di "centrosinistra”, anche se il “piuttosto” è poca casa rispetto alle promesse elettorali.
In ogni caso sui contratti a tempo determinato vengono introdotte, rispetto a prima, due importanti novità:
• la durata massima scende da 36 a 24 mesi;
• tornano le causali, che devono essere inserite per giustificare i rinnovi (la norma parla di inserimento dopo i primi dodici mesi.
In caso di violazione dell’obbligo di indicare la causale in caso di rinnovo dopo dodici mesi, il contratto si trasforma automaticamente in assunzione stabile.
Aumenta poi l’indennità massima per i licenziamenti illegittimi che passa da 24 a 36 mensilità, mentre la minima sale da 4 a 6 mensilità.
Ma le delusioni più grandi per la classe media sono state prodotte dalla parte fiscale: erano attesi provvedimenti ampiamente pubblicizzati come quelli su spesometro, redditometro, studi di settore e split payment.
L’unico di questi provvedimenti realmente concretizzatosi è l’abolizione dello split payment per i soli professionisti. Con il Decreto Dignità, d’ora in poi ai professionisti, l’IVA non si applicherà più alle prestazioni di servizi assoggetta-te a ritenuta Irpef. Ciò significa che i professionisti (ingegneri, architetti, av-vocati e altri a partita Iva) torneranno a riscuotere l'imposta sui compensi fat-turati alle amministrazioni pubbliche, con loro grande soddisfazione.
Per il resto, chi si era illuso che con la Lega al governo sarebbe cominciata la pacchia ha dovuto subire una serie di delusioni cocenti.
Quella più clamorosa riguarda lo spesometro, che non solo non viene abro-gato ma che non sarà nemmeno oggetto di proroga. Il decreto legge in og-getto, non fa altro che statuire una situazione già prevista. L’invio telematico dello spesometro potrà essere trimestrale o semestrale. L’unica novità rispet-to a prima è che l’invio del terzo trimestre potrà essere effettuata sino al prossimo 28 febbraio 2019. Per il primo semestre la scadenza rimane al 1° ottobre, mentre quello del secondo semestre rimane sempre al 28 febbraio.
Quindi tanto rumore per nulla...
Altra delusione è quella del redditometro. Anche questo adempimento non è stato abrogato, come promesso da diversi esponenti della maggioranza di Governo. Il decreto prevede solo la sospensione dei controlli sugli anni 2016 e seguenti, in attesa che un ulteriore provvedimento introduca un nuovo strumento.
Viene, infine, limitato il beneficio fiscale dell’iper-ammortamento, che potrà essere ripreso a tassazione qualora i beni agevolabili siano stati destinati a strutture con sede all’estero.
L’unica promessa pienamente mantenuta è quindi essere quella sul divieto della pubblicità del gioco d’azzardo.
|
Migranti e rifugiati politici | |
Migranti e rifugiati politici Gli operai, i prolet | |
Sulla pelle dei migranti è in atto una campagna che ha fatto la fortuna elettorale di diversi partiti, dalla Le-ga di Salvini al M5 Stelle Di Maio e Grillo, ma questo è un tema abbastanza traversale che accumuna anche partiti di centrosinistra, a cominciare dal PD.
La caccia e il disprezzo razzista verso lo “straniero” fanno ormai parte del pensiero dominante di un popolo – il nostro - che ha dimenticato che milioni di suoi fra-telli, connazionali, sono stati costretti a spargersi per il mondo quando gli stranieri eravamo noi.
Chi si scrive non ha mai dimenticato i racconti del padre e dei suoi amici e compagni, meridionali venuti al nord in cerca di lavoro e in seguito, per mancanza di lavoro, trasferitisi in Germania. Più volte ho ascoltato di na-scosto i racconti di mio padre che, quando tornava a ca-sa, diceva a mia madre che gli italiani, al pari di altri lavoratori, turchi, spagnoli ecc., erano costretti a emi-grare per guadagnarsi il pane, erano considerati esseri umani di serie b.
In Germania questi lavoratori vivevano in baracche e quelli che non avevano il permesso di lavoro erano “clan-destini” e spesso quando al sabato sera si ritrovavano fra compaesani e tra alcuni scoppiava qualche zuffa - i-nevitabile quando si è lontani da casa e il sabato sera è l’unica occasione di svago - tutti gli italiani venivano identificati come mafiosi e attaccabrighe e per questo era impedito loro di entrare in alcuni bar o caffè dove campeggiava la scritta “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Quando arrivavano negli Stati Uniti erano te-nuti in quarantena.
Anche nella Repubblica Italiana nata dalla Resistenza la divisione fra il nord e sud dell’Italia non si è mai sa-nata e allora era ancora più evidente. Le fabbriche del “miracolo economico” di Milano e di Torino reclutavano manodopera dal sud e dal Veneto, costringendo al trasfe-rimento coatto decine di miglia di persone senza fornir-gli adeguati servizi. Quelli erano gli anni in cui a To-rino e Milano nelle portinerie dei palazzi erano affissi cartelli con la scritta “qui non si affittano case ai me-ridionali” costringendo molti lavoratori a dormire nelle macchine dismesse o ad occupare le case sfitte o appena costruite (come succede oggi agli esseri umani chiamati “extracomunitari”). I loro figli erano chiamati “i fiò del terùn” (i figli dei terroni).
I paesi occidentali, capitalisti, l’imperialismo - com-preso quello italiano - prima depredano le risorse, le materie prime con le guerre di rapina, distruggendo le risorse locali dei paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina costringendo milioni di esseri umani a fuggire dalle guerre e dalla fame e poi, ipocritamente, davanti agli esodi di massa parlano di invasione e mobi-litano gli eserciti, la polizia alle frontiere, fino alla chiusura dei porti.
La penetrazione economica delle economie imperialiste in paesi sovrani distrugge le economie locali, costringe al-la fame e alla sete milioni di persone nel mondo provo-cando nuove forme di schiavitù.
L’ultimo esempio del respingimento della nave Aquarius dai porti italiani attuato dal governo giallo-verde di leghisti e 5 Stelle, è l’esempio lampante dell’ipocrisia dei difensori dei “valori cristiani” e chi, come il Mini-stro dell’Interno Salvini, ha fatto la campagna elettora-le e i comizi ostentando il rosario in mano.
Che cosa sarebbe successo se invece di migranti sulla na-ve Aquarius al posto di 629 profughi a bordo, ci fossero stati degli animali in quelle pessime condizioni? Sareb-bero stati considerati animali “clandestini” da abbattere o da salvare? I benpensanti di tutti gli schieramenti po-litici sarebbero insorti.
La maggioranza della popolazione sarebbe insorta indigna-ta; in primis i due vice primi ministri a caccia di voti e consensi per le prossime tornate elettorali.
In realtà, come dimostra il grafico che riportiamo, l’Italia è il paese che ha meno rifugiati in Europa.
grafico
E ancora, la proposta del Ministro dell’Interno Salvini di schedare i Rom (dimenticandosi della Costituzione ita-liana e che i numerosi nomadi che vivono nei campi di cittadinanza italiana al pari di Salvini) è in continuità con le leggi razziali dei regimi nazisti e fascisti.
L’ipocrisia dei razzisti del governo gialloverde del “cambiamento”, in particolare del Ministro dell’interno, nasconde la realtà - quella di essere forte con i deboli e servi dei poteri forti - che a parole dicono di voler combattere. I difensori del libero mercato che rivendica-no la libera circolazione delle merci e dei capitali, la sovranità nazionale prima di tutto, si inchinano ai capi-talisti di ogni colore, ai ricchi, al capitale interna-zionale e transazionale, mentre trattano gli esseri umani poveri peggio degli animali.
Con la parola d’ordine “prima gli italiani” la Lega - ma anche il movimento 5Stelle - hanno fatto il pieno dell’elettorato piccolo borghese e, in mancanza di un’organizzazione che rappresenti gli interessi immediati e storici della classe operaia e proletaria, hanno rac-colto consensi e voti anche fra gli sfruttati, illusi di poter mantenere i loro “miserabili privilegi” (così oggi vengono definiti dai borghesi i diritti conquistati con le lotte operaie che oggi stanno smantellando), convinti che i migranti siano la causa del peggioramento delle lo-ro condizioni di vita e di lavoro.
In realtà il nemico degli italiani è in casa loro e non sono gli immigrati che arrivano con i barconi. Sono i pa-droni, i borghesi che sfruttano la forza lavoro al di là del colore della pelle, e che attraverso la concorrenza fra proletari abbassano a tutti il salario e creano un enorme esercito di riserva.
Il governo del “cambiamento” si esprime a parole contro l’Europa e i poteri forti, rivendica la sovranità nazio-nale nei servizi TV, ma si genuflette davanti all’imperialismo europeo, e in particolare quello ameri-cano: il governo continua a pagare oltre 80 milioni di euro al giorno per appartenere alla NATO, oltre alle spe-se per le missioni dei militari italiani impegnati nelle guerre di rapina nel mondo e per il continuo riarmo.
I sostenitori dello slogan “padroni a casa nostra” accet-tano senza discutere la servitù militare cedendo, come già i precedenti governi borghesi che governano nell’interesse dei padroni, molte parti del territorio dello Stato italiano a uno Stato estero (USA) e alla Na-to, mantenendo e accollandosi i costi delle 120 basi di-chiarate, ufficialmente, oltre a 20 basi militari Usa to-talmente segrete e ad un numero variabile (al momento so-no una sessantina) d’insediamenti militari o semplicemen-te residenziali con la presenza di militari USA, senza sapere dove siano ubicate le armi, anche se è risaputo che molte basi sono provviste di atomiche “tattiche” tan-to da far considerare l’Italia la più importante portae-rei USA del Mediterraneo.
Cartina basi Nato in Italia
In Italia ci sono oltre 100 miliardi di evasione fiscale, altri 100 miliardi si calcola siano le spese per la buro-crazia, altrettante sono il costo della corruzione.
Milioni di persone sono senza lavoro e senza pensione, ma Salvini - scaricando la colpa di tutti i mali sui migran-ti - dichiara che la “festa è finita” e definisce “cro-ciere” l'attraversamento del mare su barconi fatiscenti, fa la guerra ai migranti - badate bene non ai padroni che li sfruttano per pochi euro nella raccolta degli ortaggi e della frutta - ma alle ONLUS e alle cooperative solida-li, riducendo la spesa per la solidarietà (che in massima parte proviene dal fondo europeo): secondo il Ministro dell’Interno oggi la spesa di 5 miliardi per i migranti è insostenibile.
Dividere i lavoratori in base al colore della pelle, alla nazionalità, mettendoli in concorrenza fra di loro è uti-le solo ai padroni e ai loro governi. Gli operai nel si-stema capitalista non hanno patria, ma sono solo forza lavoro al servizio del capitale, da sfruttare quando l’industria tira e licenziare quando non servono più a valorizzare il capitale o perché lo spostano all'estero sfruttando altra manodopera.
Gli operai, i proletari, sono una classe internazionale con gli stessi interessi. Schiavi nel sistema capitalista che lottano per la loro liberazione dalle catene e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per loro e per tutta l’umanità.
Parafrasando Salvini anche noi diciamo che il nemico è in casa nostra ma non sono i migranti economici o i rifugia-ti politici, sono i padroni e i loro governi (oggi gial-loverde).
Nella nostra lotta di resistenza, per il potere operaio e il socialismo contro l’imperialismo mondiale cominciamo a combattere prima i padroni italiani e i loro governi.
Sulle nostre bandiere riscriviamo il motto: Proletari di tutto il mondo uniamoci.
|
Ucraina | |
Il Donbass teme sempre più un attacco ucraino | |
Che Kiev stia preparando qualcosa di grave nel Donbass sembra fuor di dubbio; da tempo si parla di un'offensiva su larga scala contro le milizie popolari. Quando i let-tori di nuova unità vedranno questo numero del giornale, quello di cui scriviamo potrebbe essere già di molto in-vecchiato. Si ipotizza infatti che una grossa provocazio-ne dei putschisti potrebbe verificarsi quando l'attenzio-ne di tutti sarà concentrata sul mondiale di calcio in Russia. Dopo accuse e controaccuse, olandesi e malesi, su chi avrebbe abbattuto - la Russia oppure l'Ucraina - il Boeing civile malese sul Donbass nel luglio 2014, c'è ad-dirittura chi ipotizza un ricatto di Washington a Kiev del tipo: preparate una provocazione in vista del mondia-le, se no noi spifferiamo il nome del colpevole e, quin-di, si teme che se da Washington partisse l'ordine, Po-rošenko potrebbe davvero lanciare un'offensiva. Soldati ucraini fatti prigionieri dalle milizie testimoniano che istruttori statunitensi, canadesi e polacchi insegnano loro tattiche di assalti a edifici e città. Insieme ad autoblindo, droni, sistemi radar e attrezzature, gli USA riforniscono le truppe ucraine di fucili pesanti da cec-chino “Barrett M107A1” e razzi anticarro “Javelin”; nei soli primi mesi del 2018, Kiev avrebbe ricevuto armi ed equipaggiamenti per oltre 40 milioni di dollari da Stati Uniti, Lituania, Gran Bretagna e Canada.
Ma, anche al di là del mondiale di calcio, l'offensiva ripresa da Kiev a inizio maggio, indica l'intenzione di forzare i tempi e sfiancare le milizie, in vista di qual-cosa di più grosso. Il 7 giugno ne ha parlato anche Vla-dimir Putin ed è stata la prima volta, dopo tanto tempo, che dal Cremlino si è lanciato un avvertimento così pre-ciso a Kiev. In diretta televisiva, rispondendo a una do-manda sulla possibilità di un attacco ucraino durante i mondiali, Vladimir Putin ha detto: “Spero che non si ar-rivi a tale provocazione; ma se ciò accadrà, credo che le conseguenze per il regime statale ucraino nella sua tota-lità saranno molto serie”. Qualche effetto, almeno psico-logico, la dichiarazione lo deve aver avuto, se Porošenko si è sentito in obbligo di telefonargli, il 9 giugno, mentre Putin era in riunione al vertice SCO (l'Organizza-zione per la Cooperazione di Shanghai) in Cina: dopotut-to, anche le attività industriali e finanziarie che con-trolla in Russia hanno contribuito alle fortune di Petro Porosenko, valutate, a seconda delle classifiche mondia-li, tra 0,8 e 1,5 miliardi di dollari.
In precedenza, ne aveva parlato anche l'ex leader della DNR e oggi presidente dell'Unione dei volontari del Don-bass, Aleksandr Borodaj, indicando nell'area di Želobok, a nordovest di Lugansk, una delle possibili direttrici dell'attacco ucraino. Le sue parole non hanno certo la risonanza mediatica di quelle di Putin, ma, data la sua conoscenza delle forze in campo, non è da sottovalutare la previsione secondo cui, se Kiev deciderà davvero una provocazione, ciò “potrebbe significare la fine dell'U-craina”. Le milizie, ha detto Borodaj, dispongono di così tante riserve e potenza di fuoco da consentire di accer-chiare gli attaccanti in una sacca come quella di Debal-tsevo: il saliente in cui si consumò la più sonora scon-fitta ucraina, nel febbraio 2015.
Preparativi ucraini d'attacco
Al momento di scrivere, la situazione si è già comunque di molto inasprita, rispetto anche solo a uno o due mesi fa. Qui, non possiamo far altro che riportare le ultime (per ora) notizie, con la speranza di non dover aggiorna-re l'elenco dei lutti sul successivo numero del giornale. Le fonti propagandistiche ucraine scrivono ogni giorno di “pesanti perdite inflitte ai terroristi” - come essi de-finiscono i miliziani – e, in effetti, non passa giorno che anche le agenzie della Novorossija non diano notizia di ufficiali e volontari delle milizie caduti sotto i colpi di cecchini e dei mortai pesanti, oltre ai civili che rimangono sotto le bombe.
Da quasi due mesi sono sotto assedio Gorlovka e Debaltse-vo, importanti snodi viari e ferroviari sulla direttrice che unisce Donetsk a Lugansk; le forze ucraine sono con-vinte che la conquista delle alture attorno a Gorlovka permetterà loro di stringere d'assedio la stessa Dontesk. Il 5 giugno, Novorosinform scriveva dell'assassinio, da parte ucraina, di due dei tre miliziani della DNR fatti prigionieri pochi giorni prima a Zajtsevo, una decina di km a nord di Gorlovka.
Il 3 giugno, oltre quaranta abitanti dei piccoli villaggi di Gladosovo e Travnevogo (tra Gorlovka e Zajtsevo, in una delle ex “zone grigie”, create per escludere i bom-bardamenti ucraini sulle aree civili lungo il fronte, ma poi via via occupate dai battaglioni neonazisti) sono stati cacciati dalle abitazioni: di sette di essi non si hanno più notizie; molte delle loro case sono state de-predate dai soldati di Kiev e alcune incendiate. Kiev sta ricorrendo sempre più spesso a tali azioni terroristiche, tanto che si parla della nascita di gruppi partigiani tra la popolazione ormai estenuata, cui Kiev avrebbe risposto con la creazione di una cosiddetta “Brigata di difesa territoriale" per il rastrellamento dei civili, forte di cinquemila uomini tra militi nazisti e delinquenti comuni arruolati nelle galere di Dnepropetrovsk e Kharkov.
Secondo il vice Presidente della missione OSCE, Aleksandr Hug, in tutto il mese di maggio sarebbero rimasti uccisi in Donbass 10 civili e altri 25 feriti. Ma la responsabi-le per i diritti umani nella DNR, Darja Morozova ha scritto che soltanto dal 18 al 25 maggio, nella sola DNR, si sarebbero contati 9 morti (sei miliziani e tre civili) e 17 feriti.
Il 6 giugno, l'OSCE ha accertato la concentrazione di mezzi corazzati e artiglierie semoventi ucraine in punti del fronte vietati dagli accordi di Minsk: la cosa è sta-ta confermata dalle immagini registrate da un drone u-craino abbattuto dalle milizie, in cui si vedono tali mezzi radunati addirittura in quartieri civili di Artëmo-vska e Kostantinovka. L'8 giugno, la missione OSCE è fi-nita sotto il fuoco ucraino nell'area di Golubovskoe, nella LNR, mentre tentava di avvicinarsi al luogo in cui, il giorno precedente, un autobus di linea era stato ber-sagliato da lanciagranate e sei persone erano rimaste fe-rite. L'8 giugno, un civile è rimasto ferito da schegge di granata a Zajtsevo, mentre colpi di mortaio sono cadu-ti sull'asilo infantile di Donetskij, nella LNR.
Piani dei golpisti e accordi internazionali
Da parte ucraina, il Ministro degli interni golpista, Ar-sen Avakov, ha “ufficialmente” dichiarato morto il pro-cesso degli accordi di Minsk: come dire che ora Kiev si ritiene libera anche formalmente (di fatto, lo è stata sin dall'inizio, non avendo rispettato nessuna delle con-dizioni poste dagli accordi del febbraio 2015, a partire dal ritiro dal fronte delle artiglierie pesanti e dal ri-conoscimento di uno status speciale per il Donbass) di fare tutto ciò che vuole in Donbass. “La situazione at-tuale è quella di un conflitto congelato” ha detto Avakov il 7 giugno, contraddicendo direttamente quanto detto al-la vigilia dal presidente golpista Petro Porošenko, se-condo cui nel Donbass è in atto una “fase calda” della guerra e non un “conflitto congelato”. Avakov ha anche detto che “la riacquisizione del Donbass sarà tecnicamen-te piuttosto un'operazione di polizia” e si svolgerà se-condo una larga azione di “filtraggio” tra coloro che non hanno “collaborato con le attuali autorità d'occupazione” e chi invece “si è macchiato del sangue di soldati ucrai-ni”.
Nonostante tutto, l'11 giugno si è regolarmente tenuto a Berlino il previsto incontro del “quartetto normanno” (Ministri degli esteri di Francia, Germania, Russia e U-craina) a 16 mesi dall'ultima riunione e il cui tema principale è stato l'introduzione di forze ONU in Don-bass. Mosca è a favore dell'invio di forze ONU, a garan-zia dell'incolumità degli osservatori OSCE, ma è assolu-tamente contraria alla posizione USA (ovviamente sostenu-ta da Kiev) di una missione “di pace” ONU che, di fatto, si trasformerebbe in "una sorta di Kommandantur militar-politica che prenderebbe il controllo dell'intero terri-torio delle Repubbliche popolari": ciò porterebbe alla completa demolizione degli accordi di Minsk. Discussa, a Berlino, anche la questione dell'arretramento delle forze dalle “zone grigie” e l'inizio dello sminamento della re-gione. Informatori ucraini hanno rivelato alle milizie che l'agenzia privata anglo-americana “HALO Trust”, die-tro la maschera dello sminamento, starebbe in realtà mi-nando ampi settori delle “zone grigie” occupate dagli u-craini. In effetti, il 17 maggio tre militari canadesi erano rimasti uccisi e due americani feriti, dopo che il mezzo su cui viaggiavano era saltato su una mina nell'a-rea di Avdeevka, nella DNR. È risaputo che i neonazisti di Pravyj Sektor, sono soliti vendere saporitamente ai comandi ucraini le mappe delle nuove aree minate, mentre lo scorso gennaio un alto funzionario ucraino avrebbe venduto alle milizie della LNR il programma NATO "United Multinational Preparation Group - Ukraine", insieme al-l'elenco degli istruttori stranieri in Ucraina.
Terrorismo contro i civili
Come per il passato, oltre che con i bombardamenti sulle aree civili, Kiev cerca di spezzare la resistenza della popolazione con il blocco totale di alimenti, medicinali, pensioni, fonti di energia. Regolarmente, vengono colpite le stazioni di filtraggio dell'acqua potabile; il 5 giu-gno, tiri di mortaio su Avdeevka e Jasinovataja (sobbor-ghi settentrionali di Donetsk) hanno colpito le linee dell'alta tensione, lasciando senza corrente la stazione di filtraggio della capitale della DNR, che fornisce l'acqua a 400.000 abitanti. A metà maggio, bombardamenti ucraini avevano messo fuori uso gli impianti di depura-zione di Golmovska, a nord di Zajtsevo, fonte principale del sistema idrico che rifornisce Gorlovka ed era stata bombardata la stazione di filtraggio dell'acqua di Do-netsk.
A metà maggio, mentre al festival di Cannes il “mondo li-bero” omaggiava l'ucraino Sergei Loznitsa, per il film “Donbass”, autentica beffa e ridicolizzazione delle mili-zie, civili continuavano a morire a Zajtsevo e a Gorlo-vka. A nord di Donetsk, venivano colpiti i centri di Gol-movska e Trudovskie e, più a sud, bersagliati Kominterno-vo, Leninskoe e Petrovskoe, nel tentativo di accerchiare la capitale della DNR. Nel villaggio di Troitskoe, una trentina di km a ovest di Alčevsk, nella LNR, padre, ma-dre e figlio tredicenne sono rimasti sotto le macerie della propria abitazione, centrata da un ordigno ucraino. A fine aprile, due uomini erano rimasti uccisi e una don-na ferita a Dokučaevsk. Da giugno, i quartieri occidenta-li di Donetsk sono quotidianamente sotto il fuoco di lan-ciagranate automatici.
Ed è rimasta ignorata la testimonianza di un reduce delle Forze operative speciali (SSO) ucraine, tal Aleksandr Me-dinskij (rifugiato in Finlandia), su come, nell'estate 2015, le SSO avessero usato sostanze chimiche contro le milizie. Sulla notizia è ovviamente calato il silenzio, non trattandosi di uno “Stato canaglia” e non si è levato alcun coro “di sdegno” dell'Occidente libero a chiedere la “necessaria risposta” a un governo dittatoriale che impiega armi proibite contro donne e bambini.
Quanto la popolazione ucraina, pur stanca della guerra, ma sottoposta a quattro anni di martellamento ideologico neonazista e oltre venti anni di indottrinamento “indi-pendentista”, sia d'altra parte davvero propensa a rico-noscere l'autodeterminazione del Donbass, è questione quantomeno controversa. I racconti di quanti, in questi ultimi anni, si sono rifugiati in Russia e anche delle persone con cui è stato possibile intrattenersi nel corso della Carovana antifascista organizzata a inizio maggio dalla Banda Bassotti nella LNR e nella DNR, parlano di una propaganda nazionalista che ha fatto breccia in larga parte della popolazione ucraina, portando a scontri aper-ti all'interno di nuclei familiari, amicizie troncate, tra chi vive da una parte e dall'atra del fronte, rotture irrevocabili anche tra parenti stretti. È questo il frut-to del bombardamento psicologico golpista e dell'ideolo-gia dell'odio sbandierata nelle strade ucraine, che è stata pubblicamente espressa dal console ucraino ad Am-burgo, Vasilij Maruščinets, che ha esortato a uccidere ebrei, “sionisti”, “moskali” (dispregiativo ucraino per indicare i russi), ungheresi e polacchi, da cui liberare le “terre ucraine”, inserire la svastica sullo stemma na-zionale e definire ariani gli ucraini.
Conclusioni (temporanee)
Il politologo Aleksandr Šatilov afferma che gli USA vor-rebbero piegare Mosca all'introduzione di “caschi blu” non lungo la linea di contatto tra milizie e forze ucrai-ne, bensì sul confine tra Donbass e Russia. Il risultato sarebbe che le Repubbliche popolari verrebbero di fatto tagliate fuori dagli aiuti russi, si arriverebbe alla ca-pitolazione del Donbass e, sotto la maschera di forze di pace, la NATO avrebbe l'opportunità di portare truppe in Ucraina. Ma la Russia, dice Šatilov, “ha un atteggiamento attendista”, a metà strada tra i liberali che ignorano la questione e coloro che vorrebbero un'azione più decisa in favore del Donbass. “Se Kiev passerà all'offensiva” dice, “si dovrà reagire in qualche modo. Spero che la Russia non ostacoli le milizie se queste risponderanno più dura-mente ai bombardamenti”.
È evidente che Kiev non ha alcuna intenzione di metter fine all'aggressione. Di fronte a una popolazione ucraina che i sondaggi indicano come sempre più stanca di un con-flitto quadriennale, il golpista numero uno, Petro Po-rošenko, comincia a dar segni di nervosismo, consapevole che le presidenziali del 2019 potrebbero dare la vittoria a quel candidato che avanzi concrete proposte di uscita dal vicolo cieco in cui la junta ha cacciato il paese. E allora tenta il tutto per tutto per stroncare ora il Don-bass.
“Ci sono due varianti per la soluzione del conflitto” ha detto il 9 maggio il leader della DNR Alexander Za-kharčenko; “la prima è la capitolazione dell'Ucraina e allora noi acquisiremo il territorio che consideriamo da sempre nostro” - DNR e LNR non controllano infatti la totalità delle regioni di Donetsk e di Lugansk – e la seconda variante è che a Kiev vadano al potere persone con cui si possano avviare colloqui”. Zakharčenko ha detto di essere pronto a esaminare la questione della missione ONU, alle condizioni presentate da Mosca alle Nazioni Unite lo scorso settembre: a garanzia cioè dell'incolumità degli osservatori OSCE e lungo la linea di demarcazione tra forze ucraine e milizie che, in alcuni punti del fronte, è di appena 20-30 metri.
Dopo quattro anni di bombardamenti terroristici sulle a-ree civili che, secondo Kiev, dovevano spezzare il morale della popolazione e costringere le milizie alla resa, la gente del Donbass non si stanca di maledire i nuovi nazi-sti e di aver fiducia nella vittoria. Ce lo hanno detto i volti delle migliaia di persone che il 9 maggio, nell'an-niversario della vittoria sul nazismo, sfilavano a Lu-gansk, gridando contro il fascismo di ieri e di oggi. Lo dicono le parole di quel volontario russo, intervistato insieme a miliziani tedeschi, francesi, colombiani, che alla domanda su quali motivazioni lo abbiano spinto nel Donbass, ha risposto: “Motivazioni?! Che razza di doman-da! Il fascismo non è forse un motivo sufficiente?”.
|
lavoro | |
La situazione della classe operaia in Italia nel 2 | |
Se la lotta del movimento operaio, necessaria per difen-dersi dal capitale, non cambia i rapporti di forza rimane sempre sul terreno del padrone e le conquiste di oggi sa-ranno rimangiate domani
Il calo dei salari
Gli apologeti del capitalismo cercano di nascondere la brutalità del sistema di produzione capitalista ingigan-tendo gli aspetti positivi e nascondendo le conseguenze negative sulla classe operaia e proletaria che lo svilup-po del capitalismo comporta. La rivoluzione industriale, con la proprietà privata dei mezzi di produzione in mano ai borghesi e la ricerca del massimo profitto, comporta un peggioramento continuo della condizione sociale dei lavoratori che le lotte sindacali ed economiche possono solo cercare di arginare.
Morti sul lavoro e di sfruttamento per il profitto
In Italia molte grandi fabbriche sono state chiuse, scom-parse, delocalizzate in tutto il mondo, in particolare nei paesi dell’Est, in Russia, Cina, Africa, Asia, o in America, lasciando nelle ex aree industriali italiane una scia di morti, invalidi, malati, terreni inquinati che faranno ammalare in futuro, se non bonificati, altre ge-nerazioni.
Nelle città industriali, come ad esempio Taranto, Monfal-cone, Genova, Mantova, La Spezia, o ex industriali come Casale Monferrato, Broni, Sesto San Giovanni, Milano, Brescia, Trieste, Priolo e molte altre, solo per citare alcune di quelle passate alla cronaca per i morti d’amianto e gli inquinamenti ambientali, la mortalità causata da malattie professionali è da 4 a 10 volte supe-riore a quella nella campagna circostante, e la percen-tuale della mortalità circa 10 volte più alta. Gli infor-tuni mortali sul lavoro in questi anni sono aumentati an-che se sono diminuiti i lavoratori occupati.
Nel 2017 ci sono stati 1.350 morti sul lavoro e in itinere (dati dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro).
Leggermente minori sono i dati diffusi dall’INAIL che di-chiara in 1.029 i morti sul lavoro fra i suoi assicurati, (ricordiamo che questi dati non conteggiano i circa 3 mi-lioni e mezzo di lavoratori in nero e quelle categorie di lavoratori non soggetti ad assicurazione Inail).
Per quanto riguarda il 2018, dai dati Inail si rileva che solo nei primi mesi dell'anno (fino al 28 maggio) ci sono stati 286 morti sul lavoro in Italia, 24 in più del 2017, in crescita del 9,2%; un vero bollettino di guerra, cui vanno aggiunte decine di migliaia di morti ogni anno a causa delle malattie professionali (solo per amianto più di 4mila).
Dati statistici su infortuni e malattie professionali
Mentre l’infortunio deriva da una causa violenta che si verifica in modo immediato, istantaneo e in modo trauma-tico rispetto alla salute del lavoratore (la c.d. causa violenta), la malattia professionale è prodotta o deriva da una causa lenta che si sviluppa nel tempo per l'espo-sizione ad un fattore di rischio presente sul posto di lavoro.
La malattia professionale (spesso definita anche “tecno-patia”) è una patologia che il lavoratore contrae in oc-casione dello svolgimento dell’attività lavorativa, dovu-ta all’esposizione nel tempo a fattori presenti nell’ambiente e nei luoghi in cui opera (polveri e so-stanze chimiche nocive, rumore, vibrazioni, radiazioni, misure organizzative che agiscono negativamente sulla sa-lute).
Le malattie professionali previste dall’INAIL sono di due tipi: quelle TABELLATE e quelle di ORIGINE PROFESSIONALE PRESUNTA in cui l’onere della prova è a carico del lavo-ratore.
L’andamento delle malattie professionali negli ultimi an-ni ha registrato, in tutte le aree del Paese, una cresci-ta molto sostenuta: le denunce di malattia professionale sono passate da 26.745 del 2006 a 42.397 nel 2010 (fonte archivi Banca dati statistica INAIL) sia a seguito del-l'entrata in vigore delle nuove tabelle (D.M. 9 aprile 2008) che, classificando come "tabellate" molte patologie (in particolare quelle dell'apparato muscolo-scheletrico da sovraccarico bio-meccanico e movimenti ripetuti) prima "non tabellate", hanno in pratica esonerato il lavoratore dall'onere della prova dell'origine lavorativa di queste malattie, incentivando così il ricorso alla tutela assi-curativa.
Il record di denunce spetta alle malattie osteo-articolari e muscolo-tendinee, dovute prevalentemente a sovraccarico bio-meccanico, rappresentanti ormai, circa il 60% del complesso. Tra queste, in particolare, spicca-no le affezioni dei dischi intervertebrali e le tendini-ti, patologie più che raddoppiate negli ultimi 5 anni. Seguono, principalmente, l’ipoacusia da rumore, le malat-tie da asbesto (amianto) (asbestosi, neoplasie e placche pleuriche) per oltre 4 mila casi l’anno (in crescita) e le malattie respiratorie (circa 2 mila l’anno, escludendo quelle correlate all’asbesto).
In realtà, come sanno bene i lavoratori, anche i dati I-NAIL sulle malattie professionali sono molto sottostima-ti, perché essendo l’INAIL l’ente che deve accertare la malattia e anche quello che deve risarcirlo ha tutto l’interesse a non riconoscerle, costringendo i lavoratori a lunghe e costose cause in Tribunale come sanno bene gli ex lavoratori esposti amianto e tutti quelli che si sono ammalati per cause professionali.
La mappa del Ministero della Salute
Dati più che preoccupanti arrivano direttamente dalla mappa del Ministero della Salute: in Italia esistono ben 44 aree inquinate oltre ogni limite di legge, in cui l’incidenza di tumori sta aumentando statisticamente a dismisura. Nelle zone maggiormente contaminate, le malat-tie tumorali sono aumentate anche del 90% in soli 10 an-ni.
Agli impressionanti dati del Ministero della Salute si aggiungono quelli di “Mal’Aria di Città 2016”, pubblicato da Legambiente, da cui si evince che l’inquinamento in Italia uccide quasi 60 mila cittadini residenti in Italia e costa alle casse dello Stato (quindi a tutti noi) alme-no 47 miliardi di euro.
Basti pensare che nel 2015 in 48 capoluoghi di provincia più della metà del totale hanno superato i limiti di leg-ge delle concentrazioni di Pm10 misurate dalle centrali-ne, fissati in 50 microgrammi per metro cubo per più di 35 giorni. Si tratta del numero massimo di superamenti consentiti dalla legge in un anno.
Secondo dati del 2016 l'incrocio di mortalità, incidenza oncologica e ricoveri fa emergere dati sempre più dramma-tici. A Taranto l’eccesso di tumori alla tiroide, in die-ci anni è aumentato di +58% tra gli uomini e +20% tra le donne.
In altre parti del paese la popolazione aspetta da decen-ni una bonifica che non arriva mai e nei pochi casi in cui avviene assume la forma di speculazione politica ed economica. La mortalità è in continuo aumento a causa dell’inquinamento industriale; ma non solo, in molte zone del paese, a cominciare dalla valle dei fuochi in Campa-nia, o in Piemonte grazie allo scavo della TAV. Ormai in molte zone del paese, in particolare Sardegna e Sicilia, si assiste anche ad un altro inquinamento: quello bellico e militare, dove l’incidenza oncologica, in particolare cancro della tiroide, tumore alla mammella e mesotelioma sono in aumento, e dove il tasso di mortalità generale è significativamente più alto rispetto alla media naziona-le.
Ma la mappa riporta molti altri esempi.
I comuni di Cologno Monzese e Sesto San Giovanni
Esaminando i dati del Ministero della Salute si vede che ad esempio per i Comuni di Cologno Monzese e Sesto San Giovanni, il “ Decreto di perimetrazione dei Siti di In-teresse nazionale” (SIN) elenca la presenza delle seguen-ti tipologie di impianti: impianti chimici, petrolchimi-co, raffineria, metallurgia, elettrometallurgia, meccani-ca, produzione energia, area portuale e discariche, che provocano un eccesso per tutti i tumori in particolare per le malattie dell’apparato respiratorio e digerente per uomini e donne.
Inoltre sono presenti malattie circolatorie, malattie re-spiratorie e dell’apparato genitourinario, mentre i tumo-ri del polmone e della pleura sono in eccesso sia tra uo-mini sia tra le donne”.
Nei comuni di La Spezia e Lerici
Il “Decreto di perimetrazione” del SIN elenca la presenza delle seguenti tipologie di impianti: chimico e discarica di rifiuti urbani e speciali. Tra gli uomini si è osser-vato un eccesso della mortalità per le cause tumorali e per le malattie dell’apparato digerente. Tra le donne si è osservato un eccesso di mortalità per le malattie dell’apparato circolatorio e per le malattie dell’apparato digerente. Inoltre, l’eccesso di mortalità per tumore dello stomaco osservato tra gli uomini può es-sere riconducibile a una “esposizione occupazionale».
Il Decreto del SIN rileva inoltre “la presenza di una raffineria, un impianto siderurgico, un’area portuale e di discariche di RSU con siti abusivi di rifiuti di varia provenienza. Il lungo elenco di malattie comprende: ec-cesso tra il 10% e il 15% nella mortalità generale e per tutti i tumori in entrambi i generi; eccesso di circa il 30% nella mortalità per tumore del polmone, per entrambi i generi; eccesso, in entrambi i generi, dei decessi per tumore della pleura, che permane; eccesso compreso tra il 50% (uomini) e il 40% (donne) di decessi per malattie re-spiratorie acute; associato a un aumento di circa il 10% nella mortalità per tutte le malattie dell’apparato re-spiratorio; eccesso di circa il 15% tra gli uomini e 40% nelle donne della mortalità per malattie dell’apparato digerente; incremento di circa il 5% dei decessi per ma-lattie del sistema circolatorio soprattutto tra gli uomi-ni; quest’ultimo è ascrivibile a un eccesso di mortalità per malattie ischemiche del cuore, che permane, anche tra le donne un eccesso per la mortalità per condizioni mor-bose di origine perinatale (0-1 anno), con evidenza limi-tata di associazione con la residenza in prossimità di raffinerie/poli petrolchimici e discariche, e un eccesso di circa il 15% per la mortalità legata alle malformazio-ni congenite, che non consente però di escludere l’assenza di rischio”.
Facendo un raffronto con il passato, esaminando sia i sa-lari dei lavoratori che le loro condizioni di vita si e-videnzia come i lavoratori della “moderna” industria 4.0 non solo tendono ad avere redditi più bassi rispetto ai loro coetanei pre-industriali, ma anche che la qualità della vita in alcune zone addirittura peggiora rispetto ai lavoratori dell’800 che vivevano in ambienti più sani e piacevoli.
Nel sistema capitalista-imperialista lo sfruttamento sem-pre più intensivo della forza-lavoro, il peggioramento della condizione operaia e proletaria è causato della proprietà privata dei mezzi di produzione finalizzata al-la ricerca del massimo profitto, qualsiasi forma, più o meno sviluppata, esso possa assumere.
Quanto più il capitale produttivo cresce, tanto più si estendono la divisione del lavoro e l’impiego delle mac-chine. Quanto più la divisione del lavoro e l’impiego delle macchine si estendono, tanto più si estende la con-correnza fra gli operai, tanto più si contrae il loro sa-lario.
La lotta sindacale, economica, per quanto necessaria per difendersi dal capitale se non cambia i rapporti di forza rimane sempre sul terreno del padrone e le conquiste di oggi saranno rimangiate domani.
Oggi serve un’organizzazione operaia, un partito operaio che dichiari apertamente i suoi obiettivi: il potere ope-raio, che lotti per la liberazione dallo sfruttamento ca-pitalista, che rivendichi l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Obiettivi che possono realizzarsi solo distruggendo dalle fondamenta questo sistema, col rovesciamento di tutto l'ordinamento sociale finora esi-stente. È questo l’incubo delle classi dominanti.
Proletari di tutti i paesi uniamoci.
|
cultura | |
"A quelli che non vogliono intendere" Uno scritto | |
Centoquarant'anni fa, il 1° febbraio 1878 nasceva a Catania Concetto Mar-chesi. Studente sedicenne fondò "Lucifero" un giornale che già dal primo nu-mero fu sequestrato perchè giudicato dalle autorità diffamatorio delle istitu-zioni e Marchesi fu arrestato e condannato ad un mese di reclusione. Nel 1906 iniziò il suo impegno politico a Pisa dove insegnava greco e latino in un liceo classico e le sue posizioni politiche si spostavano sempre più verso il so-cialismo scientifico di Marx.
Giudicava il "Manifesto del Partito comunista" un "gran fascio di luce" e, alla scissione del 1921, aderì al Partito comunista. Ha scritto molti commenti, stu-di e opere. Abbiamo scelto di pubblicare l'articolo "A quelli che non vogliono intendere" tratto dal settimanale "il Risveglio" del 7 marzo 1945 perché lo ri-teniamo interessante e di attualità in relazione ai tempi che stiamo vivendo.
Non sono pochi, e tra questi alcuni non difettano di cultura e di intelligenza: né manca chi è pure investito di somma autorità. Nel messaggio che il Ponte-fice romano diffondeva al mondo nel quinto anniversario della guerra, si par-lava con accento di deplorazione dei “programmi radicali che pretendono di tutto sovvertire con la rivoluzione e la violenza”. Tutti sanno a chi va rivolta questa censura papale. È tempo di dire su tale argomento una parola chiara. Appunto: c'è tra i partiti innovatori uno che si professa fondamentalmente ri-voluzionario. A questo mi onoro di appartenere. I seguaci di questa dottrina o meglio di questa interpretazione del fenomeno storico hanno dovuto consta-tare che in tutto il corso dei secoli ogni richiesta di radicali mutamenti nell'or-dine economico e sociale fatta per le vie legali è stata sempre repressa e sof-focata nel sangue: e hanno dovuto sempre osservare che quando lo strumen-to legale tende a divenire strumento trasformatore di privilegi, esso è infalli-bilmente sostituito dalla forza repressiva della classe dominante: e la violenza diviene espediente di pubblica salute. Nella storia non esiste un solo esempio di grande rinnovamento politico che non sia stato risolto atraverso una strage civile. Nè si citi l'esempio della monarchia spagnola trapassata dolcemente in repubblica, perché la prima repubblica succeduta al reame di Alfonso aveva l'assenso dei capi della Chiesa, dell'esercito e dei grossi feudatari e dei signori dell'antico regime i quali avevano lasciato andar via un re che non aveva avu-to fortuna né accorgimento. Ma quando la repubblica attraverso le vie legali cominciò a diventare rivoluzionaria, cioè radicalmente trasformatrice dei vec-chi privilegi e dei predomini tradizionali, allora non ci fu più ritegno nell'orga-nizzazione della violenza e dell'infamia e si osò chiamare "movimento nazio-nale" la più scellerata azione ordita e compiuta con le armi dello straniero e con la complicità di tutte le democrazie occidentali contro il più eroico dei po-poli che abbia versato il suo sangue per la libertà della patria.
Che cosa è stata la storia degli uomini fin ad ora se non una successione di morte e di devastazione? Come è proceduta finora la civiltà umana se non at-traverso una fiumana di sangue? E se ci sono uomini oggi che proclamano guerra alla guerra, che oppongono vilenza alla violenza, sono essi i sovverti-tori e i nemici dell'umanità? Se ci sono uomini i quali non riconoscono soltan-to la necessità di farsi uccidere, ma anche il diritto di dare morte a chi dà morte, sono essi i carnefici e i distruttori della pace? E in questa lugubre pa-ce fatta di oppressione e di miserie e di iniquità scellerate chi porterà la luce della redenzione se non coloro che vorranno a costo del proprio sacrifico su-perare l'ostacolo iniquio e violento? Non temete, Santità; la violenza non è il mito che noi vogliano far trionfare, essa è la realtà che noi vogliamo distrug-gere. L'esperienza di tutto il passato ci ha insegnato che alla forza che si so-stituisce al diritto non si può opporre che la forza, che alla reazione violenta non si può opporre che la guerra o la rivoluzione. In questo senso siamo rivo-luzionari; e deriviamo la necessità dell'azione rivoluzionaria non dalla nostra dottrina, che è dottrina di pace univerale, ma dalle condizioni che la società capitalistica ha sempre imposto ai movimenti sociali.
Tra quanti non conoscono ancora il volto vero del comunismo perché non l'hanno bene fissato, taluni non stentano, malgrado ciò a definirlo e lo defini-scono, siccome loro accomoda, secondo certe maniere letterarie, giornalisti-che e romanzesche. Così noi eravamo prima i bruti, oggi siamo anche fanati-ci. Siamo gente senza pensiero né personalità: legati, mediante incantesimo ad una Chiesa da cui ci giunge la voce di un comando quotidiano; una Chiesa immane che tende ad invadere la terra come un mostruoso cattolicesimo. È l'immane mondo dello spirito che precipita nelle tenebre di una servitù uni-versale. Questo avviene in Russia, dove i comunisti non sono i combattenti della libertà ma i combattenti di una Santa Russia comunista più cupa e mi-steriosa della santa Russia degli zar. Così chi non vuole ancora intendere pe-netra in quel mondo russo che ha pure spezzato la più micidiale macchina di guerra che già travolgeva la civiltà. Così in quella Russia che, da più di un ventennio, ha dovuto sostenere l'odio del mondo dentro e oltre le sue frontie-re; in quella Russia che ha dovuto lottare senza tregua contro tutte le violen-ze e le insidie delle forze reazionarie internazionali, essi avrebbero voluto sin dal principio vedere una comoda democrazia parlamentare aperta a tutti i di-battiti, a tutti gli intrighi, a tutti i veleni stillati dallo sconfinato laboratorio ca-pitalistico; una Russia pullulante di nemici del proletariato per i quali soltanto il proletariato avrebbe dovuto spezzare le catene dell'autocrazia. E non pen-sano che se così fosse stato, gli organi della borghesia capitalistica non a-vrebbero oggi modo di salutare i vincitori e gli eroi di Stalingrado, di Kiev e di Odessa, e di seguire attoniti le armate invincibili che hanno portato nel cuore ferrato della Prussia le insegne della redenzione sociale.
Noi comunisti siamo bruti e fanatici per questi reazionari traverstiti. Il fatto è che essi, per non ingiuriarci, ci vorrebbero sognatori e puri, come ai tempi del loro assoluto e sicuro dominio, quando il nostro "sole dell'avvenire" brillava a sterminate lontananze e i nostri programmi lucevano in una loro immobile in-tegrità, senza bruschi interventi e pericolose compromissioni. Ora non è così: il sereno del tempo di pace non esiste più, e gli splendori siderali sono offu-scati dalla mischia orrenda degli uomini. Ora siamo in pieno perdiodo rivolu-zionario. E l'aria rivoluzionaria è torbida, piena di quotidiani adattamenti alla realtà di ogni ora. Oggi i problemi bisogna affrontarli e risolverli via via che spuntano. Oggi è in gioco non l'avvenire della nostra dottrina che resta im-mutata, ma il destino e la vita stessa del proletariato. E non siamo più i dot-trinari inaccostabili di una volta; siamo i realizzatori di ciò che la nostra espe-rienza, la nostra dottrina, il nostro risoluto proposito ci consente di realizzare per il bene della classe lavoratrice, cioè per il bene dell'umanità. E nell'inte-resse della classe lavoratrice, primi fra tutti, abbiamo levato il grido di guerra contro la Germania hitlerana e l'ignominia fascista per la indipendenza, la li-bertà e l'onore del nostro paese.
Il proletariato ha difeso anch'esso con le armi e con ogni sacrificio la Patria invasa e oppressa, e se non fosse stato tradito nella giornata dell'8 settembre e soggetto più tardi ad una vana aspettazione avrebbe dato all'Italia il primo vero essercito liberatore. Proletariato e Patria, proletariato e democrazia sono ormai inseparabili: chi volesse dividerli sarebbe un nemico della Patria e un fautore della peste che ci ha portato a rovina. Questa politica nazionale dei partiti operai non è una novità o una deviazione cui l'immane crisi presente ci abbia costretto; essa non distrugge, ma conferma e rinsalda il presupposto internazionale. La libertà dell'uomo è subordinata al divieto di opprimere altri uomini, la libertà delle nazioni riposa sulla stessa proibizione. Nessun indivi-duo e nessuna nazione può progredire o prosperare senza la continuità di mutue prestazioni. Questo libero e benefico commercio fra gli uomini e le na-zioni del mondo, potrà essere garantito soltanto da un potere che risulti da forze schiettamente democratiche.
Non si può abbandonare la parola democrazia, se anche in nome di essa si è difeso il privilegio. La democrazia che sorgerà da tanta sofferenza, deve esse-re rappresentata da un organismo politico e sociale che consenta al popolo lavoratore di respingere indietro, sempre più indietro, tutte le forze reaziona-rie che tentino la ripresa delle vecchie posizioni nella direzione della vita eco-nomica e intellettuale.
Oggi i partiti la cui azione avrà più di profondità e di ampiezza saranno quelli che meno si sforzeranno di creare situazioni nuove invece di bene intendere e dirigere verso nuovi sviluppi le situazioni esistenti. Precipua qualità rivoluzio-naria è l'aderenza alla realtà la quale è dato sempre scorgere, ma non è dato quasi mai prevedere nei suoi espisodi essenziali. I comunisti non sono profeti visionari dell'avvenire; essi devono vigilare sul presente dove sono tutte le possibilità del futuro. Diciamo possibilità giacché i fatti della storia accadono in quanto intervengono attività e volontà personali capaci di provocare e ac-celerare gli sviluppi di determinate condizioni, il cui costituirsi non dipende da noi, ma dipende da noi fecondarle e raccoglierne i frutti. I partiti non creano le condizioni dei pubblici mutamenti, ma quando queste ci siano creano la nuova realtà storica se gli uomini che ne dirigono l'attività sanno vedere tra le situazioni che via via si succedono quella che possa essere la risolutiva; quella che permetta di far marciare tutte le forze proletarie sul ponte che il destino del nostro secolo ha gettato fra il passato capitalistico e l'avvenire socialista
|
marxismo | |
Come i bolscevichi iniziarono a lavorare con le ma | |
Il principio base divenne lo studio accurato dell'essenza della questione che si cominciava a trattare. Una profonda conoscenza delle teorie del marxismo, della situazione economica e politica del paese, delle condizioni reali di vita dei lavoratori
L'argomento è stato affrontato nel 2013 dalla rivista Rabočij put (La via operaia), constatando come “nessuna delle forze politiche di sinistra in Russia abbia oggi stretti legami con le masse proletarie”. La sinistra, “senza piattaforme ideologiche chiare, riunisce nelle proprie file tutti gli insoddisfatti, da qualunque classe della società, cercando di compiacere ora questa, ora quella”. Le forze politiche reazionarie “possono attrarre gli strati politicamente immaturi della popolazione, se non trovano l'opposizione delle forze rivoluzionarie. Solo i comunisti possono impedirlo, purché sappiano liberarsi dall'opportunismo e diventare espressione degli interessi non immanenti ma fondamentali della classe proletaria”.
Rabočij put ricorda l'esperienza del POSDR (b) e, in particolare, dei circoli marxisti, che dagli anni '80 del XIX secolo favorirono la diffusione del marxismo in Russia. All'inizio, erano pochi i rappresentanti della classe operaia nei circoli marxisti, ma poi sorsero circoli di soli operai, sotto la direzione di intellettuali. Composti in media di 6-8 membri, nei circoli si studiava la teoria marxista, spesso dimenticando il lato pratico delle questioni.
G. Ž. Kržižanovskij: "Nel nostro gruppo, composto principalmente di studenti, si creò un culto di Marx. Ai nuovi arrivati si chiedeva l'atteggiamento verso Marx. Ero convinto che da un uomo che non abbia approfondito due o tre volte "Il Capitale", non si potesse cavare nulla di buono. Purtroppo, esigevamo quasi le stesse cose sia dagli studenti, che dai lavoratori. Ricordando come torturassimo i nostri primi amici operai con il primo capitolo de "Il Capitale", provo tutt'oggi rimorsi di coscienza”.
Diverso fu l'approccio di Lenin. N.K. Krupskaja: “La maggioranza degli intellettuali poco sapeva degli operai. Arrivava un intellettuale in un circolo e si metteva a far lezione agli operai. Vladimir Ilič leggeva con gli operai “Il Capitale”, lo spiegava e dopo li interrogava sul loro lavoro, sulla condizione operaia e mostrava il legame della loro vita con la struttura della società, spiegando poi per quale via trasformare l'ordine esistente”.
L'operaio bolscevico I.V. Babuškin ricorda: “Il circolo era composto di 6 persone, più il settimo che conduceva la lezione; cominciava con Marx e l'economia politica, cercando di sollevare obiezioni da parte nostra; costringeva uno a dimostrare a un altro la giustezza del proprio punto di vista. Le conferenze avevano un carattere molto vivo: ci si esercitava a diventare oratori”.
In tal modo, i circoli marxisti addestrarono migliaia di propagandisti, agitatori e organizzatori del movimento operaio. Una buona conoscenza delle teorie marxiste è una cosa estremamente necessaria per un rivoluzionario, ma le sole lezioni teoriche con i lavoratori non bastavano. Lo si vide a metà anni '90, con la nuova ondata rivoluzionaria, rivolte contadine e scioperi nelle fabbriche.
L'isolamento della social-democrazia dalle masse lavoratrici è mostrato da M. Silvin: "Avevamo contatti nello stabilimento Semjannikov; qui, alla fine del 1894 si ebbero scioperi e agitazioni. I lavoratori distrussero l'ufficio, picchiarono alcuni impiegati, lanciarono pietre contro la polizia. Nella successiva riunione del circolo, Lenin chiese ai presenti come mai non avessero segnalato il maturare degli eventi. I presenti spiegarono che il movimento avrebbe dovuto andare prima in profondità, poi in estensione. Si confermava così, come gli operai del circolo fossero lontani dalle masse".
I social-democratici avevano capito che i circoli non avevano una significativa influenza sulle masse e non potevano assolvere il compito della social-democrazia: l'introduzione della coscienza socialista tra le masse lavoratrici. Con la crescita del movimento operaio, era necessario passare dalla propaganda nei circoli, all'agitazione tra le masse. Su ciò insisteva Lenin, che proponeva di unire gli sforzi di tutti i circoli marxisti della capitale. Nacque così la “Unione di lotta per la liberazione della classe operaia". Dato che la social-democrazia era formata in gran parte da intellettuali, con scarsa conoscenza delle condizioni dei lavoratori, Ilič propose di iniziare con l'indagine dettagliata delle condizioni di lavoro e vita dei lavoratori di ogni concreta impresa.
Krupskaya: "Vladimir Ilič si interessava di ogni minuzia che illustrasse l'ambiente dei lavoratori; basandosi su singoli dettagli, cercava di assimilare la vita dell'operaio nella sua interezza, per meglio avvicinarsi ai lavoratori con la propaganda rivoluzionaria. A quel tempo, Ilič studiava le leggi sulle fabbriche, ritenendo che, spiegandole, sarebbe stato facile chiarire agli operai il legame tra la loro posizione e il sistema statale. Le tracce di questo studio sono evidenti in "La nuova legge sulle fabbriche", "Sugli scioperi", "Sui tribunali industriali" e altri opuscoli".
M.Silvin: "Vladimir Ilič mise a punto un questionario dettagliato e noi ne facemmo tante copie da distribuire ai propagandisti. Fummo così presi dalla raccolta di informazioni, che per un po' abbandonammo ogni attività di propaganda. Ottenere risposte precise a domande semplici sulla vita operaia non fu così facile. Chiedevamo di cosa fossero insoddisfatti i lavoratori, cosa avrebbero voluto eliminare nella fabbrica, e ricevevamo talvolta risposte inattese: "hanno smesso di distribuire l'acqua calda per il tè, e dunque richiedono l'acqua calda". Oppure: "Hanno abbassato la tariffa di cinque copeche e si prevede uno sciopero. Utilizzammo il materiale raccolto attraverso i questionari, preparando volantini su ogni specifica questione di una particolare impresa. Ilič lanciò l'idea di utilizzare il materiale per l'agitazione sulla base di richieste legittime. Le informazioni raccolte mostravano come e in che modo venissero violate le leggi: l'agitazione doveva iniziare con la richiesta di rispetto della legislazione".
Kržižanovskij: "A partire dal 1894, il meccanismo spionistico-poliziesco dovette fare la conoscenza con quegli “scandalosi volantini anonimi”, affissi ai muri delle principali fabbriche di Pietroburgo. In quei fogli, redatti sulla base degli incontri con gli operai, cercavamo di partire dai bisogni quotidiani, dalla concreta situazione della data fabbrica, passando poi a slogan di carattere politico, circa gli ostacoli che il governo zarista accumulava sulla strada della lotta dei lavoratori per miglioramenti economici".
Alcuni social-democratici ritenevano però che l'agitazione sul terreno dei bisogni quotidiani degli operai avrebbe condotto il movimento rivoluzionario lontano dal socialismo.
Krupskaja: “L'agitazione sul terreno delle esigenze quotidiane degli operai si radicò profondamente. Compresi la fecondità di questo metodo solo nell'emigrazione in Francia: osservai come, durante il grande sciopero degli addetti alle poste, il partito socialista si fosse tenuto completamente a parte. Come dire: è una questione sindacale, mentre il partito si deve occupare solo della lotta politica. Non avevano chiara la necessità di collegare le lotte economica e politica".
Silvin: “Di solito, un volantino riguardava un caso particolare: un abuso, una violazione della legge, riduzione dei salari, ecc. Arrivò un ispettore di fabbrica, la polizia condusse un'inchiesta. Tutto ciò rappresentò un evento nella vita monotona della fabbrica, provocò discussioni, risvegliò interesse. La pubblicazione di un abuso su una questione “di casa”, aveva generato di per sé eccitazione. Ora, nel circolo, il propagandista non cercava i lavoratori più avanzati e intelligenti, in grado di assimilare la teoria del plusvalore. Cercava compagni svegli, brillanti, che potessero diventare agitatori, catturare stati d'animo, cogliere fatti importanti”.
Krupskaja ricorda come la selezione del materiale fosse accurata e le informazioni ricevute dagli operai venissero verificate più volte:"Il materiale era raccolto e controllato accuratamente da Vladimir Ilič. Per la fabbrica di Thornton, convocai il mio allievo, il collaudatore Krolikov, che arrivò con un intero quaderno di informazioni. Poi, io e A.A. Jakubova, vestite da operaie, andammo al convitto della fabbrica, ci intrattenemmo sia con gli scapoli, sia con le coppie. La situazione era spaventosa. Solo sulla base di materiali così raccolti, Ilič scriveva le corrispondenze e i volantini. Guardate il suo "Agli operai e alle operaie della fabbrica Thornton". Che conoscenza dettagliata della questione!".
L'agitazione tra le masse cominciò a dar frutti. L'operaio V.A. Šelgunov: “Nonostante che nel dicembre 1895 fossero stati arrestati tutto il vertice dell'intellighenzia marxista e anche un gran numero di operai, nel maggio 1896 scoppiò a Pietroburgo uno sciopero che coinvolse oltre trentamila operai. La principale rivendicazione era il pagamento per i giorni dell'incoronazione di Nicola II, che i lavoratori erano stati costretti a saltare, senza salario. Fu un avvenimento senza precedenti. Nella stessa rivendicazione del pagamento per i giorni dell'incoronazione, era insito un atteggiamento irriverente degli operai nei confronti di "sua altezza" lo zar”.
La social-democrazia non seppe evitare errori. Tutti dediti all'agitazione sulle rivendicazioni più urgenti, parte dei social-democratici scivolò verso l'economismo. Silvin: "Il nostro più recondito desiderio era di introdurre nel movimento di massa un'idea politica cosciente, l'idea della lotta per il rovesciamento dell'autocrazia. Ma per paura di fare un passo prematuro, inconsciamente slittavamo nell'economismo. Questo elemento di codismo si rintraccia in tutti nostri volantini del 1896”.
Krupskaja: “Molti compagni che allora lavoravano a Piter, vedendo gli effetti dell'agitazione con i volantini e dedicandosi interamente a quella forma di lavoro, dimenticavano che quella era una delle forme, ma non l'unica forma di lavoro tra le masse e si misero sulla strada del famigerato economicismo. Ilič, però, non dimenticava le “altre forme di lavoro; nel 1895 scrive l'opuscolo “Spiegazione della legge sulle multe comminate ai lavoratori nelle fabbriche e nelle officine”, in cui fornisce un brillante esempio di approccio all'operaio medio del tempo: a partire dai suoi bisogni, condurlo alla necessità della lotta politica. A molti intellettuali tale opuscolo sembrava noioso e prolisso, ma per i lavoratori era comprensibile e familiare”.
Lenin prestava un'enorme attenzione allo studio dei dati statistici relativi alla vita economica, politica e sociale. Kržižanovskij: “... noi marxisti eravamo molto impressionati dalla sua straordinaria capacità di usare le armi di Marx e dall'eccellente conoscenza della situazione economica del paese tratta da dati statistici. Durante la sua relazione sul tema dei mercati, Ilič fece un tale sfoggio di illustrazioni statistiche, che io avvertii una sorta di frenetico piacere".
Il principio base divenne lo studio accurato dell'essenza della data questione che si cominciava a trattare. Una profonda conoscenza delle teorie del marxismo, della situazione economica e politica del paese, delle condizioni reali di vita dei lavoratori.
Кrupskaja: “Quel periodo pietroburghese dell'attività di Vladimir Ilič fu straordinariamente importante, anche se, nell'essenza, quasi invisibile. Non vi erano effetti esterni. Il discorso verteva non su imprese eroiche, ma su come tessere stretti legami con le masse, come avvicinarsi a esse, imparare a essere espressione delle loro migliori aspirazioni, imparare a esser loro vicini e comprensibili e condurle dietro di noi”.
Ecco un questionario, diffuso nel 1906 per conoscere la situazione dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905
VOLANTINO-QUESTIONARIO DEL POSDR (b) SULLE CONDIZIONI DI VITA E DI LAVORO DEGLI OPERAI
Compagni! Nell'intento di condurre una breve ricerca sulla vita operaia, ci rivolgiamo alla vostra collaborazione. Vi chiediamo di rispondere possibilmente in modo preciso e completo alle domande. Le risposte devono riguardare l'intera fabbrica o laboratorio. Se un compagno conosce le condizioni di vita e di lavoro solo di poche categorie di lavoratori (tornitori, assemblatori etc.), è meglio che risponda alle domande, per esempio sui salari ecc., applicati a queste categorie.
1 Fabbrica, officina, laboratorio; dove si trova
2 Quanti operai complessivamente; di essi... donne ... fanciulli. Durata della giornata lavorativa
3 Quali le principali categorie di operai e loro numero (anche approssimativamente)
4 Salario medio per ogni categoria di uomini, donne, fanciulli (giornaliero, mensile, a pezzo)
5 Straordinari e loro compenso
6 Condizioni abitative degli operai (vivono nell'area della fabbrica, al di fuori; ecc.)
7 Principali uscite dell'operaio (singolo, con famiglia) per categoria (affitto, vitto, abbigliamento e altro; in particolare per tè, zucchero, tabacco, combustibile, fiammiferi)
8 Ci sono nell'area della fabbrica (officina, laboratorio) biblioteca, mensa e in generale qualche altro ambiente per gli operai?
9 C'è ricambio frequente di operai oppure sono più o meno stabili? L'amministrazione della fabbrica ricorre al licenziamento degli operai più coscienti dopo uno sciopero o in generale (dopo quale sciopero, ad esempio, si sono verificati simili casi)?
10 Legami degli operai con la campagna; si trasferiscono gli operai in campagna, anche in parte, in condizioni di lavoro normali e per qualche periodo dell'anno; ce ne sono molti di tali operai? Gli operai sostentano la campagna con il loro salario? Quanti sono?
11 C'è qualche periodo dell'anno con molto lavoro, oppure è distribuito in misura più o meno regolare su tutto l'anno?
12 La fabbrica (officina, laboratorio) è in stretta dipendenza dalle ferrovie o da un'altra fabbrica?
13 Quanto dipendono l'un l'altra le produzioni dei reparti o dei laboratori? 14 Ci sono stati scioperi prima dell'ottobre 1905?
[Altre domande vertevano sui rapporti con l'amministrazione (buoni, ostili, normali); su elementi, tra il personale tecnico e ispettivo, particolarmente invisi agli operai. Si chiedeva se gli operai partecipassero alle manifestazioni, con uscite dimostrative dalla fabbrica e se, in questo caso, la polizia o i cosacchi fossero ricorsi alla repressione violenta. Se ci sono state assemblee interne alla fabbrica, quante, quali. Atteggiamento dell'amministrazione verso tali assemblee: mette a disposizione un locale per organizzarle? Fanno parte gli operai di qualche sindacato? ecc.
Si sono eliminate le risposte, per non appesantire il testo. Ndt]
Traduzione e sintesi a cura di fp
|
10 aprile 2015 | redazione |
pubb. su n.2/2015 | |
Devastazione e saccheggio
L’impatto della guerra sulla salute e sull’ambiente non si limita al conflitto armato, si protrae già dalla fase di armamento, di addestramento fino al periodo post-bellico
Per preparare le guerre vengono utilizzati fino a 15 milioni di km² di terra (più dell’intero territorio dell’Europa) e il 6% del consumo delle materie prime, producendo circa il 10% delle emissioni globali di carbonio l’anno
Il Pentagono produce mezzo miliardo di rifiuti tossici l’anno
Tra le spese militari dello Stato Italiano ci sono 52 milioni di euro al giorno alla Nato
L'F16 consuma in un’ora 3.400 litri di carburante.
Negli ultimi cinque anni il commercio mondiale di armamenti è cresciuto del 16%; nello stesso periodo in Italia l’export militare è aumentato del 30%
La polvere all’uranio impoverito rimane nell’aria, nel suolo, nelle falde acquifere, nelle culture, nella flora, nella fauna. La radioattività persiste per 4,5 miliardi di anni
Daniela Folcolini
Gli Usa da sempre vedono minati i loro piani di espansione e si servono della Nato per mantenere la supremazia economica, politica e militare. Così la Nato, e con essa l’Italia fedele alleata, dopo aver annunciato il potenziamento delle forze militari (portandole da 13mila a 30mila uomini in sei paesi dell’Europa orientale) apre due fronti di guerra: orientale (per contrastare l’avanzata dell’asse Russia-Cina) e meridionale, dove estende la sua strategia al Nordafrica e al Medioriente. Gli atroci giochi di guerra imperialista continuano alla ricerca di risorse energetiche vecchie e nuove, di nuovi mercati, di aree di influenza e potere goepolitico.
L’imperativo è la crescita dei margini di profitto, passa in secondo piano l’impatto devastante che l’attività militare e bellica ha sui sistemi naturali e sulla salute di intere popolazioni. L’indifferenza verso l’ambiente va di pari passo con quella verso la vita umana.
Le attuali strategie di guerra prevedono l’uso di forze armate più flessibili e di rapido dispiegamento, dotate di sistemi d’arma ad elevata tecnologia, l’attacco aperto viene preparato e accompagnato con forze sostenute e infiltrate dall’esterno per minare il paese all’interno, come si è fatto in Libia, in Siria, (armando e addestrando le formazioni islamiche, salvo poi usarle come giustificazioni per l’attacco) ma anche in Ucraina (dove la Nato addestra da anni i gruppi neonazisti). Si fomentano così focolai che sfociano in guerre civili e il ricorso sistematico ad armamenti chimici, biologici, radioattivi, strategie militari che rendono impossibile la discriminazione tra obiettivi civili e militari. Evidenti le conseguenze: dagli anni ‘90 in poi il 90% dei morti nelle guerre sono civili.
Tragico esempio l’Iraq: più di 3,3 milioni di iracheni, uomini, donne e bambini, sono morti a causa della criminale aggressione degli Stati Uniti e del Regno Unito tra il 1991 e il 2011: 200.000 morti nella prima guerra del Golfo, 1.700.000 morti a causa delle sanzioni, e 1.400.000 persone massacrate durante l'invasione del 2003. Tra il 1991 e il 2003, l’esercito statunitense ha riversato sull’Iraq circa 2000 tonnellate di uranio impoverito. Le statistiche ufficiali del governo iracheno mostrano che prima dello scoppio della prima guerra del Golfo, nel 1991, il tasso dei casi di cancro era di 40 su 100.000. Nel 1995 era salito a 800 su 100.000, e nel 2005 era raddoppiato ad almeno 1.600 persone su 100.000. Dati scomodi visto che dal novembre 2012 l’Oms ha bloccato la pubblicazione del rapporto sugli effetti devastanti dei bombardamenti all’uranio impoverito (DU: scorie radioattive risultanti dall’arricchimento di uranio per reattori militari, per esempio i missili Cruise) sulla salute della popolazione irachena. Oltre all’uranio il napalm, il plasma, il fosforo sono dispersi in miliardi di particelle nell’aria portata dal vento in tutta la regione, ma anche nel mondo. La polvere all’uranio impoverito rimarrà nell’aria, nel suolo, nelle falde acquifere, nelle culture, nella flora, nella fauna. La radioattività persisterà per 4,5 miliardi di anni.
Bombe all’uranio impoverito usate anche nell’aggressione militare statunitense con la partecipazione dell'Italia contro la Jugoslavia. Le proiezioni basate sulla quantità di proiettili sparati (circa 500.000 nel solo Kosovo) e sugli altri usi del DU in Jugoslavia stimano il danno in una decina di migliaia di casi fatali nell’uomo; per non parlare delle ulteriori malattie indotte dal trasferimento del metallo radioattivo nel corpo e negli organismi in generale che opera sul nucleo ed in particolare sul DNA delle cellule degli esseri viventi determinandone mutazioni genetiche ai diversi livelli di organizzazione. A questo vanno aggiunte le emissioni di molte sostanze altamente nocive prodotte dai bombardamenti di raffinerie, impianti chimici e petrolchimici come Novi Sad e Pacevo (cloruro di vinile monomero, bifenili policlorurati, idrocarburi policiclici aromatici, diossine, nafta, metalli pesanti) con abnormi riversamenti diretti di sostanze chimiche nel sistema idrico continentale fino al mare, nel mar Nero, nell’Egeo, nell’Adriatico e alla fine in tutto il Mediterraneo. Prima della guerra la Jugoslavia rappresentava uno dei 6 centri europei e uno dei 153 centri mondiali più importanti della diversità biologica (38,93% di piante vascolari, 51,16% della fauna ittica, 74,03% degli uccelli, 67,61% della fauna a mammiferi con 1600 specie di significato internazionale). Oggi non più, depauperato il patrimonio forestale, marittimo e agricolo, i danni all’ecosistema sono irreversibili.
Ma l’impatto della guerra sulla salute dell’ambiente non si limita al conflitto armato, si protrae già dalla fase di armamento, di addestramento fino, come si è visto, al periodo post-bellico. Per preparare le guerre vengono utilizzati fino a 15 milioni di km² di terra (più dell’intero territorio dell’Europa) e il 6% del consumo delle materie prime, producendo circa il 10% delle emissioni globali di carbonio l’anno.
L’impatto delle basi militari statunitensi è ben illustrato dall’Isola di Vieques, nei Caraibi, che per 60 anni ha visto il susseguirsi di addestramenti, esperimenti, bombardamenti, stoccaggi, test e smantellamenti. L’effetto: la distruzione di centinaia di specie animali e vegetali, un tasso di tumori di molto superiore alle altre isole caraibiche e la contaminazione di tutto l’ecosistema. In Italia una delle zone più interessate da servitù militari, 60% dell’intero territorio, è la Sardegna. La Regione ospita il poligono terrestre, aereo e marittimo più grande d’Europa, Salto di Quirra, che con i suoi 130 km2 a terra e 28.400 km2 a mare copre più della superficie dell’intera Sardegna. Aree militari e infrastrutture che determinano un fabbisogno maggiore di acqua, trasporti ed energia, con conseguente aumento delle emissioni di inquinanti atmosferici e di gas serra.
Anche la produzione di armamenti produce inquinamento, consumo di energia, d’acqua ed effetti tossici sui lavoratori del settore. Partendo dall’estrazione delle materie prime, che ha come effetto principale il loro progressivo esaurimento (ma anche la contaminazione dell’aria con sostanze come il piombo, il cadmio, l’amianto) alla raffinazione, all’utilizzo, fino allo smaltimento. Si stima che il consumo mondiale a scopi militari di alluminio, rame, nickel, platino eccede il fabbisogno di queste materie dell’intero “terzo mondo”. L’US Defence Department è il più grande consumatore di petrolio al mondo (un F16 consuma in un’ora 3.400 litri di carburante). Ma ancora: il pentagono produce mezzo miliardo di rifiuti tossici l’anno (più delle cinque più grandi aziende chimiche messe insieme). E dove li buttano? Nell’agosto del 2010 l’US Central Command ha stimato la presenza di 251 “pozzi” per lo smaltimento di rifiuti in Afghanistan e di 22 in Iraq in cui vengono bruciati rifiuti delle basi militari di ogni tipo.
Il susseguirsi incessante di sempre nuove situazioni di conflitto fa sembrare inattuale perfino la possibilità di un disastro nucleare. Eppure il 5 febbraio si è riunito il Gruppo di pianificazione nucleare dei ministri della difesa dei paesi Nato (compresa l’Italia) che rilancia lo sviluppo dei programmi per la modernizzazione delle armi nucleari e il blocco del meccanismo di disarmo. Il numero totale delle testate nucleari viene stimato in 16.300, di cui 4.350 pronte al lancio, energia sufficiente a far saltare la terra. Se una guerra nucleare strategica che implica un arsenale di diecimila megatoni avesse luogo, un miliardo di persone morirebbe immediatamente per gli effetti combinati delle ferite dirette (esplosione, calore, radiazioni), un altro miliardo soccomberebbe per le malattie dovute alle radiazioni ed i sopravvissuti dovrebbero vivere in un ambiente esposto ai residui radioattivi che eserciterebbero effetti somatici e genetici dalle conseguenze probabilmente irreversibili per la biosfera. Ma non è necessario attendere la guerra atomica per calcolare gli effetti devastanti sull’ambiente e sulla salute, uno studio di qualche anno fa, in piena fase sperimentale, sosteneva che negli Stati Uniti vi erano oltre 30.000 morti l’anno per cancro dovuto agli esperimenti nucleari e ai residui attivi (mancano studi dettagliati su flora e fauna). Solo in Italia vi sono 70-90 bombe nucleari USA in fase di “ammodernamento” e per il secondo anno consecutivo si è svolta l’esercitazione Nato di guerra nucleare. Nell’Italia imperialista e complice esistono 120 basi Usa-Nato dichiarate, oltre a 20 basi militari Usa totalmente segrete e un numero variabile (al momento sono una sessantina) d'insediamenti militari o semplicemente residenziali con la presenza di militari USA, alle quali si vorrebbe aggiungere, a Niscemi, una stazione di terra del M.U.O.S., un moderno sistema di telecomunicazioni satellitare della marina militare statunitense utilizzato per il coordinamento capillare di tutti i sistemi militari statunitensi dislocati nel globo; in pratica comporterebbe l’installazione di tre grandi parabole del diametro di 18,4 metri e due antenne alte 149 metri. Comprensibili le preoccupazioni riguardo le conseguenze di tale struttura su salute umana ed ecosistema della popolazione locale.
Devastazione e saccheggio dell’ecosistema in cui viviamo finanziato proprio da noi lavoratrici e lavoratori! Secondo fonti Nato le spese militari dello Stato Italiano ammontano a 52 milioni di euro al giorno, stima al ribasso visto che non comprende per esempio le spese per le missioni all’estero o le spese per mantenere ufficiali e soldati dell'esercito Usa di stanza nel nostro territorio. Milioni che escono dalle casse pubbliche - sottratti dai servizi sociali - per entrare nelle casse delle aziende private. Come l’acquisto dei 90 cacciabombardieri F-35, confermato di recente, di cui l’Italia non è semplice acquirente ma fa parte della filiera produttiva con una rilevante rete di aziende. Oppure l’acquisto, per l’Aeronautica militare, di sei velivoli a pilotaggio remoto P-1HH (droni che possono trasportare fino a 500 kg di armamenti) realizzati e progettati negli stabilimenti della Piaggio Aerospace di Savona (il cui capitale azionario è in mano ad una società gestita dal governo degli Emirati Arabi Uniti) in collaborazione con la Selex Es, gruppo Finmeccanica che con l’ad. Moretti (quello della strage di Viareggio!) ha deciso di convertire progressivamente la produzione da civile a militare. In questo contesto di “crisi” i grandi capitalisti delle industrie belliche vedono aumentare notevolmente i loro profitti. Negli ultimi cinque anni il commercio mondiale di armamenti è cresciuto del 16%; nello stesso periodo in Italia l’export militare è aumentato del 30% guadagnandosi l’ottavo posto mondiale dopo Usa, Russia, Cina, Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna.
Le necessità dell’ambiente vanno di pari passo con quelle dei popoli oppressi e sfruttati.
Si sa, è la borghesia imperialista che fomenta la guerra ma si sa anche che la guerra è la continuazione della politica del tempo di pace e la pace è la continuazione della politica del tempo di guerra. Le guerre sono inevitabili finché sussisterà la società divisa in classi e lo sfruttamento. Soltanto dopo aver disarmato il capitalismo con la lotta di classe e aver costruito una società senza padroni il proletariato potrà pensare di gettare tutte le armi.
|
20 dicembre 2014 | redazione |
anniversario | |
Piazza Fontana 12 dicembre 1969-2014
Nel mezzo dell'autunno caldo, nel pieno della lotta di classe
Perché dobbiamo ancora indignarci per questa cinica montatura del potere in funzione antipopolare
Qualcuno disse che quel giorno perdemmo l'innocenza e scoprimmo la cattiveria, il complotto, la faccia assassina della politica. Non so se questo possa essere vero. È probabile che quell'innocenza non sia mai esistita: per noi italiani quel 12 dicembre del '69 arrivava dopo una lunga convivenza con alluvioni e frane, mafia e potere religioso, scioperi e scontri di piazza. In quell'epoca di boom economico, prodotto dallo spostamento di milioni di lavoratori dal sud al nord e all'estero, la nostra fragile democrazia borghese era ancora impregnata, appena un quarto di secolo dopo la caduta del fascismo, di funzionari e portavoce del fascismo. Una folta schiera di servi del regime, pronti a cambiar bandiera quando cambia il vento o scappare come topi dalla barca che affonda, sottobosco ideale per trame che attraversavano magistratura e polizia, i servizi segreti e le basi Nato, per organizzare la violenza dello Stato al fine di tenere in piedi il regime, garantire il funzionamento delle istituzioni repressive, magistratura e polizia, proteggere le illegalità e l'uso di parte dei mezzi di informazione.
Ma non era un paese cupo, il nostro. Dall'altra parte esisteva ed era ben vivo un forte e articolato movimento di classe, operaio e proletario, che garantiva la difesa e il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita sul versante sindacale, mentre su quello politico garantiva l'espressione politica delle proprie avanguardie, sfidando l'egemonia della classe borghese.
Nel mezzo dell'autunno caldo
Nel pieno della lotta di classe, quel giorno, contemporaneamente, scoppiarono bombe a Roma e a Milano. Quest'ultima, in una borsa collegata ad un timer, sotto il tavolo centrale della Banca dell'Agricoltura, uccise diciassette persone e ne ferì seriamente ottantacinque. Fu l'inizio. Dopo piazza Fontana, il 22 luglio 1970, l'attentato al treno del Sole a Gioia Tauro (6 morti); il 17 maggio 1973, davanti alla questura di Milano, un ordigno causò 4 morti e 45 feriti; il 28 maggio 1974, una bomba in piazza della Loggia a Brescia provoca 8 morti e 103 feriti; il 4 agosto 1974, l'attentato al treno Italicus (13 morti e 48 feriti); fino all'orrore della bomba di Bologna, il 2 agosto 1980 che fece 85 morti e 200 feriti. Undici stragi che durarono 15 anni, dal 1969 al 1984, intervallate da tentativi di golpe o complotti militari. Una strategia della tensione, di marca fascista, intessuta da ipocrisie, violenze e menzogne che non ebbero una fine.
Per nessuna di queste stragi è stato trovato un colpevole. La sentenza della Corte di Cassazione del 3 maggio 2005 condannò i familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana a pagare le spese processuali, mentre lasciò impuniti o sconosciuti esecutori e mandanti.
Per capirne le origini
Per capirne le origini è necessario risalire a quegli anni di risveglio dal torpore che durava dal dopoguerra. Succede che, come per gli studenti un anno prima, anche gli operai decidono bruscamente di mettere in discussione la loro condizione. Le contestazioni davanti ai cancelli delle fabbriche, le rivendicazioni che da sindacali si trasformano in politiche, le dimostrazioni e i cortei che quotidianamente paralizzano tante parti del paese, registrano una spinta ed una partecipazione via via crescenti, attraverso volantinaggi e sit-in, serrate e scioperi che costringono allo schieramento della polizia armata davanti ai cancelli, alle provocazioni dei fascisti e della stessa polizia nelle manifestazioni, alla pioggia di denunce ed arresti da parte della magistratura.
Solo un mese prima, in novembre, con lo sciopero dei metalmeccanici, arriva la prima ondata di denunce (quattordicimila in tutta Italia), mentre a spinte di centomila per volta cortei e manifestazioni chiedono il rilascio di operai e compagni arrestati. La classe operaia, con ogni evidenza, si dimostra vincente.
Risultò quindi evidente che quelle bombe non furono una combinazione, come non fu una combinazione il depistaggio, che cercò da subito i responsabili tra gli anarchici e tralasciò la pista nera, dei fascisti, già autori – guarda caso - in tutto il '69 di molti attentati. Gli anarchici funzionarono da capro espiatorio. Preso Valpreda e "suicidato" Pinelli, lo Stato avrebbe così voluto mettere la parola fine a quella stagione di lotta, impartendo una dura lezione al movimento di classe: la giustizia non è uguale per tutti. Ma così non sarà.
Subito dopo Piazza Fontana, infatti, la campagna stampa avviata dalla sinistra extraparlamentare contro la "strage di Stato" smonta la tesi accusatoria contro gli anarchici e costruisce una mobilitazione politica per allargare gli spazi di verità e giustizia nel nostro paese. Anche chi era assuefatto alla menzogna scopre il volto autentico del potere. Un episodio di questo periodo è esemplare del modo con cui i poteri pubblici scelgono gli interessi da tutelare, associandosi alla parte più occulta dei poteri privati. Nel corso del 1971 il giudice Guariniello, durante una perquisizione presso la sede della Fiat, per una causa di lavoro intentata da un ex dipendente, scopre una serie di contenitori metallici che racchiudono "schede informative" relative a 354.077 individui e che raccolgono informazioni su dipendenti ed altri cittadini, militanti addetti ai volantinaggi a Mirafiori, giornalisti, professori, uomini politici. In bella evidenza, il giudice scopre le prove dei versamenti effettuati dalla Fiat a carabinieri, poliziotti ed agenti dei servizi (Sid) per il loro lavoro di schedatura.
Tutto finì prescritto otto anni dopo, ma soprattutto dopo che la procura, facendo riferimento al rischio di incrinare i buoni rapporti tra magistratura e polizia, trovò inopportuno accusare i massimi dirigenti di un complesso industriale che "dà lavoro e benessere a tutta la popolazione", con la possibilità di "innescare uno stato di agitazione" tra le masse operaie della Fiat.
Lo stragismo si intreccia con gli omicidi di militanti
Piazza Fontana fu all'origine del decennio denominato "gli anni di piombo". Il piombo di chi? Nel vuoto lasciato da uno Stato reticente, ambiguo e palesemente coinvolto e da una giustizia di parte, lo stragismo si intreccia con gli omicidi dei militanti. Serantini, Franceschi, Lo Russo, Bruno, Saltarelli, Zibecchi, Costantino sono uccisi da poliziotti o carabinieri; Pinelli "cade" dalla finestra della questura; Miccichè viene ucciso da una guardia giurata; Brasili, Amoroso, Varalli, Miccoli, Rossi dai fascisti. A questi si aggiungono i tanti compagni morti ammazzati per i quali non sarà possibile risalire all'esecutore materiale, come Fausto e Iaio nel '78. In mezzo a questo decennio viene approvata il 22 maggio 1975 la prima legge eccezionale sull'ordine pubblico, la legge Reale, passata col voto determinante dei fascisti, che riconosce alla polizia il diritto di sparare, incoraggiando e proteggendo l'omicidio di Stato.
Un episodio da non dimenticare
Piazza Fontana (e dintorni) è dunque prima di tutto un fatto da non dimenticare e che comporta indignazione e rabbia in tutti noi.
Ma è solo un tragico episodio del passato, superato dagli avvenimenti e dall'evoluzione della società? Niente affatto!
Anzitutto la totale impunità di esecutori e mandanti costituisce motivo fondante per cui questa vicenda non può appartenere al passato, anche se il regime con il corollario dei media vorrebbe farci intendere che quell'epoca è definitivamente chiusa. Chi è Stato?
Ma è proprio la cronaca di questi giorni a smascherare e spiegare una volta di più quel nesso con la realtà odierna che dalle vicende di quegli anni ha preso le mosse. Parliamo della recentissima inchiesta di corruzione e malaffare denominata "Mafia capitale", al cui vertice supremo risulta essere Massimo Carminati, già fascista e stragista dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), elemento di spicco della destra eversiva romana, abilitato ai lavori sporchi per conto della banda della Magliana. È lo stesso Carminati che venne pesantemente indiziato assieme ai suoi camerati Mario Corsi e Claudio Bracci per l'omicidio a sangue freddo dei compagni Fausto Tinelli e Giacomo Iannucci (Fausto e Iaio), uccisi a Milano nel '78, e poi prosciolti "pur in presenza di significativi elementi giudiziari e di rilevanti dichiarazioni di ben sei pentiti".
Non c'è niente di rivoluzionario in questi individui. Da bravi fascisti, sono servi al soldo dei padroni, alle dirette dipendenze dei servizi segreti. Ciò che emerge a Roma in questi giorni è stato costruito dall'eversione fascista negli anni '70 ed è cresciuto nel sottobosco politico di regime (il mondo di mezzo) che ha garantito prima la loro totale impunità e poi la scalata ai palazzi del potere. Le foto che li ritraggono con tanti personaggi del governo del "cambiamento", di marca PD, testimoniano una volta di più la natura di questo partito, decisamente organica al grande capitale.
Piazza Fontana ha assunto un ruolo centrale nell'analisi politica di questi anni. Lo assume ancor di più per tanti di noi comunisti che, a quella strage, lontana negli anni ma vicinissima nella coscienza, dobbiamo la nostra formazione politica. |
ottobre 2012 | nu |
Accordo Intesa San Paolo | |
Il verbo di Marchionne trova nuovi adepti
Nuovo accordo Intesa San Paolo al centro di diverse riflessioni per essere la principale banca armata del paese, il principale sponsor della lobby affaristico religiosa, Comunione e Liberazio-ne, e per il finanziamento di grandi opere di pubblica inutilità come il TAV e la Pedemontana
Nei primi giorni di ottobre ha fatto scalpore la notizia che la potente e ricca banca Intesa San Paolo si apprestava a non rinno-vare i contratti in scadenza di 600 lavoratori apprendisti. Come mai questa tonnara? Sempre la stesse scuse… la crisi e il problema esodati emerso dopo la “geniale” riforma Fornero (già membro del Consiglio di Sorveglianza di Intesa San Paolo) delle pensioni.
Come sempre, specialmente con la parolina magica crisi, sebbene gli utili siano stati al di sopra delle aspettative (Marco Ferran-do Il Sole 24 ore del 16 maggio 2012), si usano i lavoratori, so-prattutto se assunti con tipologie contrattuali a scadenza, per far calare ulteriormente le braghe ai sindacati che, anche stavol-ta, non sono stati da meno nella loro funzione di gendarmi dei pa-droni (fatta eccezione per qualche sigla minoritaria).
Se è vero, come si apprende in pompa magna da tutti i giornali, che gli apprendisti sono stati riconfermati (anche se balza all’occhio che in questo caso si parla di 1300 persone e non più di 600, come si spiega questa lievitazione?), quello che viene ce-lato è il prezzo che i lavoratori devono pagare anche grazie ai sindacati che il 2 luglio scorso avevano pure proclamato uno scio-pero.
Come prima cosa viene introdotto il contributo di solidarietà pari a 4 giornate lavorative (in pratica per il triennio 2012-2015 i lavoratori rimarranno a casa per quattro giorni senza perciò per-cepire il relativo salario), mentre gli azionisti percepiscono u-tili da capogiro (nel far ciò l’azienda ha messo mano al patrimo-nio, vendendo importanti asset) e lo stesso Amministratore Delega-to Cucchiani si è aumentato il compenso del 20% rispetto al prede-cessore, ora ministro, Corrado Passera, guadagnando 66mila euro a settimana (vedere la Repubblica del 28 maggio 2012)!!!
Slittamento di 18 mesi per i percorsi di carriera.
Ex festività non monetizzabili e, dulcis in fundo, in deroga a quanto stabilisce il codice civile possibilità di demansionare il lavoratore o di trasferirlo per un raggio illimitato al fine di mantenere le mansioni.
Possibilità da parte dell’azienda di trasferire di imperio il la-voratore fino a 70 km di distanza senza che questi possa percepire indennità alcuna, la tal cosa si applica anche a lavoratori part time, mamme e fruitori della legge 104 se la tal cosa e dovuta ad accorpamento/chiusura di filiale.
Già… il disegno sopra citato va inserito nel quadro che prevede la soppressione di 1000 filiali nel territorio nazionale. A tutto ciò si aggiunga l’aumento di orario dalle 8 alle 20 senza però avere in cambio 1000 nuove assunzioni come invece promesso a seguito de-gli accordi del 29 luglio 2011.
Insomma i padroni non solo ribadiscono la volontà di vincere la loro lotta di classe contro i lavoratori, ma vogliono stravincere!
Banca Intesa San Paolo, già al centro di diverse riflessioni per essere la principale banca armata del paese, per essere il princi-pale sponsor della lobby affaristico religiosa, Comunione e Libe-razione, e per il finanziamento di grandi opere di pubblica inuti-lità quali il TAV e la Pedemontana, complice il momento politico favorevole, diviene altresì un laboratorio per erodere le ultime conquiste dei lavoratori, così come lo è stato la Fiat nei mesi scorsi nei confronti della classe operaia.
È un ulteriore esempio di come la cosiddetta classe media (così come gli ingegneri di Motorola e della Alcatel di Vimercate a ri-schio licenziamento), composta da lavoratori con altissime quali-fiche, si stia giorno per giorno proletarizzando, grazie ad un si-stema dai connotati sempre più parassitari.
Il tutto avviene mentre il Governo tecnico (ovvero delle lobby che stanno dissanguando il Paese) con un provvedimento prevede un au-mento delle franchigie per le detrazioni d’imposta e introdotto un tetto massimo alle deduzioni, che farà aumentare il carico fiscale anche per i redditi superiori ai 15.000, favorendo un ulteriore impoverimento della classe media, che accelererà la discesa verso il disagio economico, sociale e verso gli inferi della povertà. Governo tecnico già autore di provvedimenti contro i lavoratori (quali la riforma del lavoro fortemente voluta dall’orrenda Forne-ro) che sono intrisi d’ingiustizia, giacché, come si apprende dal-la relazione annuale ISTAT resa pubblica nel maggio del 2012, per grado di flessibilità nei rapporti di lavoro, tra il 1995 ed il 2008, l'Italia è «profondamente cambiata» è «scesa di tredici po-sizioni» nella classifica per rigidità basata sull'indice Ocse. Il Rapporto rileva che nel 2011 in Italia sono aumentati i contratti a tempo determinato e di collaborazione (+5,3% pari a 136 mila u-nità), ed è aumentato anche il numero di contratti di breve dura-ta: quelli fino a sei mesi sono cresciuti dell'8,8% (+83 mila uni-tà), mentre è diminuito quello dei contratti con durata superiore all'anno (-32 mila unità).
Dall'inizio della crisi, cioè dal 2008, le famiglie hanno visto crescere del 2,1% il reddito disponibile in valori correnti, cui è corrisposta però una riduzione del potere d'acquisto di circa il 5%. Se si considera la dinamica crescente della popolazione resi-dente, nel 2011, il potere d'acquisto delle famiglie per abitante è del 4% inferiore a quello del 1992. Persino meno, molto meno, di quanto non venga "percepito" dalla popolazione.
Tra il 1993 e il 2011 le retribuzioni contrattuali in Italia in termini reali sono rimaste ferme, ma i prezzi, le tasse e le ta-riffe ovviamente no. E quindi il reddito disponibile delle fami-glie italiane in termini reali è diminuito nel 2011 (-0,6) per il quarto anno consecutivo, tornando sui livelli di dieci anni fa. Il reddito procapite è inferiore del 4% a livello del 1992 e del 7% a quello del 2007. In 4 anni, ha aggiunto, la perdita in termini re-ali è stata pari 1300 euro a testa e la propensione al risparmio delle famiglie è scesa dal 12,6% all'8,8%.
Quindi, non sarà per caso che la crisi che stiamo vivendo non sia anche il frutto di una sempre più feroce polarizzazione della di-stribuzione della ricchezza a danno dei lavoratori creata grazie a leggi che penalizzano i veri produttori della ricchezza, i lavora-tori, e favoriscono sempre più i ceti parassitari quali banchieri e imprese che stanno a galla solo grazie a precarietà e lavoro ne-ro?
Tornando al mondo delle banche, fa specie notare che mentre sia a livello di contrattazione nazionale (nella primavera scorsa la firma del CCNL ha lasciato strascichi di polemiche dato che il nuovo contratto firmato tra ABI e Sindacati era alquanto peggiora-tivo per i lavoratori), sia a livello aziendale si parli di ri-sparmiare su tutto ciò che concerne il costo del lavoro, lo stesso presidente dell’ABI, tale Mussar, sia l’emblema della scandalosa gestione della ricchezza raccolta sul territorio da parte degli istituti di credito, in quanto da ex Amministratore delegato del Monti Paschi di Siena si è reso colpevole del suo fallimento, che ha avuto come conseguenza pesanti ricadute sugli impiegati (cassa integrazione) e sulla cittadinanza in forma di mancata erogazione di credito, per esempio, per i mutui sulla prima casa. Il tutto mentre le stesse banche ricevevano prestiti a tasso agevolato dal-la BCE di Draghi e i Tremonti bond (i Tremonti bond sono obbliga-zioni bancarie speciali emesse dagli istituti di credito quotati che siano in sane condizioni finanziarie.
Questi titoli sono sottoscritti dal ministero dell’Economia e han-no l’obiettivo di rafforzare il capitale di vigilanza “Core Tier 1” e, di conseguenza, favorire, almeno in teoria, l’erogazione del credito a famigli e imprese, invece utilizzati per comprare titoli di stato, o erogare prestiti solo a quei pochi grossi imprenditori che sono seduti nel CDA delle banche stesse e che le usano come bocchettone di ossigeno quando non hanno più i capitali per poter portare avanti i loro “faraonici” progetti, come nel caso di Li-gresti che colle sue speculazioni immobiliari ci propinerà ulte-riori colate di cemento sulle nostre già martoriate città).
Come si evince dai pochi dati su elencati, in questo momento sto-rico non sono solo gli operai ad essere sotto torchio. Anche il ceto medio impiegatizio vede pesare sulle proprie spalle il peso di un sistema ingiusto, illogico che costituisce un freno allo sviluppo dell’umanità tutta, e che quindi deve essere abbattuto, al fine di costruirne un altro a partire dalle fondamenta.
A parere dello scrivente quindi, avremmo bisogno anche di loro per cambiare lo status quo e porre fine all’orrendo mondo attuale fat-to di capitalismo.
|
settembre 2013 | nu |
Follia religiosa | |
La tragica illusione
Anche nel secondo Millennio le masse vittime della follia religiosa
Pacifico
“La puttana, la gran puttana, la grandissima puttana, la bacchet-tona, la simoniaca, la inquisitrice, la torturatrice, la falsifi-catrice, l'assassina, la brutta, la matta, la cattiva; quella del-l'Inquisizione e dell'Indice dei Libri Proibiti; quella delle Cro-ciate e della notte di San Bartolomeo; quella che saccheggiò Co-stantinopoli e bagnò di sangue Gerusalemme; quella che sterminò gli albigesi ed ai ventimila abitanti di Beziers; quella che rase al suolo le culture indigene di America; quella che bruciò Sega-relli a Parma, Jan Hus a Costanza e Giordano Bruno a Roma; la squalificatrice della scienza, la nemica della verità, la manipo-latrice della Storia; la persecutrice degli ebrei, l'accenditrice di roghi, la bruciatrice di eretici e streghe; la ricattatrice di vedove, la cacciatrice di eredità, la venditrice di indulgenze; quella che ha inventato a Cristopazzo il rabbioso ed a Pietropie-tra lo scemo; quella che promette il noioso regno dei cieli e mi-naccia con il fuoco eterno dell'inferno; quella che imbavaglia la parola ed incatena la libertà dell'anima; quella che reprime le altre religioni dove comanda e che esige la libertà di culto dove non comanda; quella che mai ha voluto bene agli animali ed ha avu-to compassione verso di essi; l'oscurantista, l'impostora, l'ab-bindolatrice, la diffamatrice, la calunniatrice, la repressa, la soffocatrice di libertà, la guardona, la ficcanaso, la contumace, la relapsa [?], la corrotta, l'ipocrita, la parassita, la fannul-lona; l'antisemita, la schiavista, l'omofobica, la misogina; la carnivora, la macellaia, l'elemosiniera, la tartufa, la bugiarda, l'insidiosa, la traditrice, la rapinatrice, la ladra, la manipola-trice, la depredatrice, colei che opprime; la perfida, la fallace, la rapace, la fellona; l'aberrante la non conseguente, l'incoeren-te, l'assurda; la cretina, la stolta, l'imbecille, la stupida; la travestita, l'orrida, la frociona; l'autocratica, la dispotica, la tirannica; la cattolica, l'apostolica, la romana; la gesuitica, la domenicana, quella dell'Opus Dei; la concubina di Costantino, di Giustiniano, di Carlo Magno; l'altra faccia di Mussolini ed Hit-ler; la mignotta delle mignotte, la meretrice delle meretrici, la puttana di Babilonia, l'impunita da duemila anni ha conti pendenti con me a partire dalla mia infanzia e qui vado a riscuotere”.
Tratto da La puttana di Babilonia di Fernando Vallejo, edizione Nuovi Mondi
La visita del luglio scorso in Brasile dell’attuale papa Francesco I, ha fatto emergere come ancora oggi la religione sia una compo-nente fondamentale all’interno della nostra società. Nel 2013, no-nostante gli enormi progressi in campo scientifico, tecnologico e industriale le masse (anche giovani) sentono il bisogno di affi-darsi a qualcosa di immateriale, esterno, a credenze millenari ri-salenti a culti di tribù nomadi e razziatrici mediorientali, come è la mitologia ebraica da cui prende spunto l’antico testamento e quindi anche il cristianesimo. Come mai tutto questo? Perché tanti seguaci verso una chiesa i cui crimini non si contano più, guidata da un papa con trascorsi oscuri per quel che concerne i rapporti col suo paese d’origine, l’Argentina. Naturalmente non si tratta di fare di tutta l’erba un fascio, sebbene la chiesa abbia fatto un concordato con ogni fascio. Per cercar di rispondere a questa domanda cercheremo di prendere vari testi di esperti sull’argomento, a cominciare da quanto riportato dal gigante Am-brogio Donini, autore che non ha pari quanto a profondità di ana-lisi e conoscenza del tema. Ritengo importante trattare l’argomento visto che i fenomeni religiosi influiscono pesantemen-te sulla vita di tutti noi, sebbene non credenti, anzi siamo pro-prio noi che dobbiamo accollarci la difesa della laicità.
Il grande studioso di matrice marxista ci insegna che i vangeli e tutto il materiale neotestamentario non sono documenti attendibili per dimostrare l’esistenza storica di Gesù Cristo. Essi sono popo-lati di miti e di leggende, nulla ci dicono sul contesto storico-sociale in cui sarebbe vissuto e avrebbe operato il Nazareno, es-sendo stati pensati e scritti lontano dalla Palestina, nel greco popolare dei centri urbani dell’Asia Minore e dell’Africa setten-trionale, dove esisteva da tempo una forte migrazione ebraica. E-lementi essenziali, come la data di nascita di Gesù, risultano in-certi, anzi contraddittori, persino attraverso il confronto tra i vangeli “sinottici”, che presentano il maggior numero di affinità tra loro. Secondo il vangelo di Luca, Cristo sarebbe nato a Bet-lemme in occasione di un censimento, ma l’unico censimento dispo-sto dai romani in Palestina è quello dell’anno 6 o 7 d.C. Secon-do il vangelo di Matteo, sarebbe, invece, nato “ai tempi del re Erode”, che morì nell’anno 4 a.C. La data riconosciuta dalla chie-sa cattolica, andrebbe, dunque, spostata in avanti o indietro. Ri-mane poi l’enigma degli “anni oscuri” della vita di Gesù, che van-no dai 12 ai 30, dei quali i vangeli canonici non parlano. Cristo è la traslitterazione del termine greco Christos cioè l’unto, tra-duzione dall’ebraico di Mashiah, messia, col quale l’antico testa-mento indicava colui che doveva venire a restaurare il regno di Israele. Fra i vari cristi e cristelli venuti in questa terra, i vangeli canonici hanno nominato uno di nome Gesù, il cui nome è la traslitterazione di Yehoshua, “Dio salva” oppure “Dio aiuta”, un nome comune ebraico, che secondo Matteo un angelo avrebbe suggeri-to a Giuseppe perché avrebbe salvato “il suo popolo dai peccati”.
L’immagine esteriore di Gesù è dunque solo una creazione fantasti-ca, elaborata nel corso dei tempi. La leggenda cristiana è il frutto di una complessa opera di costruzione svolta dagli uomini nei secoli, attraverso un lento e laborioso processo di trasforma-zione e di adattamento. La cosa che più appare come errore grosso-lano che si è tramandato nel corso dei secoli, è la collocazione della città di Nazareth, che sorge in pianura e lontana dal lago Tiberiade, mentre nei vangeli viene descritta sopra un monte e in riva ad un lago. L’appellativo Nazareno, invece, deriva da Nazir che in aramaico indica l’uomo dalle lunghe chiome consacrato con voto speciale al culto della purezza e della verità, appartenente alla setta giudaica dei Nazir, che predicava l’ideologia del mes-sia che avrebbe liberato le masse dai loro dolori, dall’oppressione.
Non deve sorprendere quest’aspetto se si pensa che i 4 vangeli e i testi canonici sono stati elaborati solo verso la fine del II se-colo della nostra era. Quindi, fino ad allora la dottrina era sta-ta trasmessa solo oralmente. La versione scritta, di molto poste-riore agli eventi che sono narrati, è frutto di adattamenti alle citazioni del vecchio testamento, di modo che quest’ultimo potesse essere spacciato per profezia, ad esempio come la nascita vergina-le che deriva da Isaia, o la nascita a Betlemme per far avverare la profezia di Michea, anche se su questo punto emerge una con-traddizione tra il vangelo di Luca, che motiva lo spostamento a Betlemme da Nazareth per via dell’obbligo di censimento, e il van-gelo di Matteo che lo fa nascere a Betlemme in quanto i genitori lì vi erano residenti, per farlo poi fuggire in Egitto per scampa-re ad Erode (per far adempiere la profezia di Osea), e successiva-mente recatisi a Nazareth. Nemmeno le date tra gli eventi narrati coincidono perché, se Matteo lo fa nascere prima della morte di Erode, che avvenne nel quarto anno prima dell’era volgare, Luca pone la nascita del bambinello più famoso del mondo nel sesto anno della nostra epoca. Ciò dimostra che i vangeli non hanno valenza storica.
La nascita del cristianesimo si colloca in un’epoca in cui per mi-lioni e milioni di schiavi l’illusione della redenzione celeste si sostituisce alla speranza della liberazione terrena. L’intero mito cristiano della salvezza è già racchiuso in questa formula. Essen-do l’uomo peccatore, e incapace di salvarsi pagando alla divinità il prezzo del proprio riscatto, interviene un «redentore», il qua-le lo paga per lui con la sua passione e il suo sangue: la funzio-ne del Cristo è quella di essere il prezzo di «riscatto per mol-ti».
All’epoca erano diffuse le cosiddette religioni misteriche. Il culto dei misteri era il nome che si dava a particolari cerimonie religiose cui potevano partecipare soltanto gli iniziati. I miste-ri miravano alla salvezza dell’individuo per mezzo dell’iniziazione a una dottrina e a pratiche rituali ad essa rela-tive che dovevano rimanere celate a chi non era appartenente alla setta. Il dio dei misteri è quasi sempre un deus patiens, che pa-tisce e muore di morte violenta, come il Cristo dei vangeli.
Culti di simile matrice erano quelli del dio Mitra, della dea Isi-de, Dioniso e Demetra. Ciò è dovuto al fatto che nel bacino medi-terraneo le condizioni di vita e rapporti sociali fossero collima-bili. Nella storia delle religioni si nota che ad una determinata fase dello sviluppo sociale ha corrisposto una analoga fase nello sviluppo religioso. L’origine di una religione va pertanto ricer-cata non nella teologia o nella morale, ma nel carattere della so-cietà che l’ha scaturita. Occorre abbandonare la vecchia idea del passaggio dell’umanità alla credenza in un solo dio grazie a un processo di spiritualizzazione o di razionalizzazione. Le radici del monoteismo non vanno cercate nella morale o nella ragione, ma nelle condizioni reali degli uomini e nella loro transizione da un tipo di società all’altro.
Tuttavia quando l’antica società è mutata, il mito del salvatore non si è estinto, proprio come molti degli aspetti magici e tote-mici originari persistono ancora, tanti secoli dopo la scomparsa della comunità primitiva. Naturalmente, la ragione principale di questa sopravvivenza è nel fatto che sia nel regime feudale che in quello capitalistico, gli uomini hanno sempre avuto un padrone e hanno quindi continuato a sentire il bisogno di un salvatore. Che il credente non ne sia consapevole, non cambia la natura dei fat-ti. Il Donini ci insegna che le variazioni che intervengono nei rapporti sociali si riflettono nelle credenze religiose; ma le i-dee, una volta entrate a far parte della sovrastruttura, si muovo-no poi seguendo una loro linea autonoma di sviluppo, che prescinde dalle condizioni di fatto, in cui sono sorte. Donini ha preso le distanze dalle interpretazioni progressiste del messaggio evange-lico, proprie di alcuni settori, seppur minoritari, della chiesa e del suo stesso maestro Buonaiuti, definendole “manifestazione di buone intenzioni e di coraggioso impegno sociale, sul terreno del-la lotta per la libertà e per il progresso”, in quanto “sia i quattro vangeli che gli altri scritti neotestamentari sono preoc-cupati in primo luogo di «spoliticizzare» al massimo la biografia di Gesù e di inquadrarla in un mito religioso di salvezza ultra-terrena.
Oggi come ieri la religione assume la funzione che le è propria nella società di classe: giustificare l’esistenza di precisi rap-porti di sudditanza tra gli uomini. Tuttavia, come ricordato in apertura, le masse vi ricorrono in quanto, con la crisi delle si-nistre, vi è un vuoto politico e sociale che lascia gli oppressi in mano a false ideologie che solo a parole vogliono emanciparli. Occorre pertanto che vi sia un partito del proletariato in grado di spezzare quest’egemonia e che guidi i “vinti” verso la libera-zione da una condizione che promette solo miseria e mediocrità.
Bibliografia
Luigi Cascioli, La Favola di Cristo Viterbo 2006
Ambrogio Donini, Lineamenti di storia delle religioni Editori Riu-niti
Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e me-no che mai cattolici) Longanesi
|
settembre 2013 | nu |
Concetto Marchesi | |
La lezione di Concetto Marchesi, "Maestro e Compagno"
Un intellettuale che ha “tradito” la propria classe di origine rinunciando a comodità e privilegi della vita borghese per militare con coerenza nelle file dell’esercito proletario
Aldo Calcidese
“Essere nel patito operaio – quale animo, corpo, volontà – sentire nell’interesse della classe lavoratrice la somma degli interessi propri, significa veramente possedere una valida ragione di esistenza, significa aver definito una volta per sempre i nostri rapporti con il mondo, aver liberato da impedimenti l’animo nostro in ogni condizione o necessità di vita”. (Concetto Marchesi)
“Giovani, guardate al mondo del lavoro, al gran porto da cui si parte e a cui si arriva in ogni vagare dell’intelletto alla ricerca di una verità. Al di là della classe lavoratrice, tutti i quesiti restano insoluti, da quelli sociali dell’economia a quelli individuali dello spirito”. (Concetto Marchesi)
Nella storia del movimento comunista si sono distinti intellettuali che – provenendo dalla classe antagonista al proletariato – hanno scelto di “tradire” la propria classe di origine e, rinunciando alle comodità e ai privilegi della vita borghese, hanno militato con coerenza nelle file dell’esercito proletario. Concetto Marchesi fu uno di questi intellettuali. Uomo di profondissima cultura, studioso della civiltà e della letteratura greca e romana, fu maestro di una generazione di giovani che il criminale regime mussoliniano aveva gettato in un abisso di distruzione e di rovine.
Marchesi affermava che “l’attività intellettuale non può ricevere danno dall’emancipazione del popolo lavoratore… attingere dal popolo non significa abbassare il livello della cultura, ma dilatarne i confini e sollevarne l’altezza”.
A coloro che gli chiedevano come mai avesse scelto di militare nel movimento comunista, Marchesi rispondeva ricordando la propria infanzia nelle campagne catanesi dove fu testimone dello sfruttamento dei braccianti e dei contadini poveri, vedendo ‘’uomini coperti di stracci avviarsi verso la piana desolata con un pezzo di pane nella sacca e una cipolla e la bomboletta di vino inacidito destinato, secondo il costume, all’uso dei braccianti. Così negli anni della puerizia cresceva in me un rancore sordo verso l’offesa che sentivo mia. Avevo l’animo dell’oppresso senza averne la rassegnazione”. Da qui la partecipazione alle lotte dei lavoratori, ai moti dei fasci siciliani, il primo arresto a 15 anni, "vergogna della famiglia", e il progressivo distacco dall’ambiente borghese e piccolo-borghese. Del suo itinerario ideale, Marchesi ha indicato alcuni incontri importanti, per esempio con l’utopismo di Proudhon, fino a giungere al Manifesto del 1848, "il gran fascio di luce, il messaggio rivelatore, quell’opuscolo di 23 pagine è l’opera più ricca di germi che il secolo diciannovesimo abbia prodotto… Il Manifesto diceva ciò che è, non ciò che dovrebbe essere, non ciò che dovrebbe accadere: ciò che accade necessariamente". Marchesi aderisce al movimento socialista e, successivamente, al Partito Comunista d’Italia.
Maestro e compagno
Il 9 novembre 1943 Concetto Marchesi, che era Rettore dell’Università di Padova, pronuncia nell’Aula Magna gremita di studenti il famoso discorso che scatenò la furiosa reazione degli sgherri fascisti presenti nell’aula: "Oggi da ogni parte si guarda al mondo del lavoro come al regno atteso della giustizia… cadono per sempre privilegi secolari e insaziabili fortune; cadono signorie, reami, assemblee che assumevano il titolo della perennità: ma perenne e irrevocabile è solo la forza e la potestà del popolo che lavora e della comunità che costituisce la gente invece della casta". (Concetto Marchesi, Umanesimo e comunismo, Editori Riuniti, p.126)
Alla fine del discorso, gli sbirri fascisti che tentano di scagliarsi su Marchesi vengono fermati dalla muraglia di studenti intervenuti a sua difesa. Alcuni giorni dopo Marchesi, rassegnate le dimissioni, rivolge un Appello agli studenti: “Sono rimasto a capo della vostra Università finché speravo di mantenerla immune dall’offesa fascista e dalla minaccia germanica, fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio e al segreto. Oggi il dovere mi chiama altrove. Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l’ordine di un governo che – per la defezione di un vecchio complice – ardisce chiamarsi repubblicano, vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori.
“Nel giorno inaugurale dell’anno accademico avete veduto un manipolo di questi sciagurati, violatori dell’Aula Magna, travolti sotto l’immensa ondata del vostro sdegno. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria, vi ha gettato tra cumuli di rovine. Traditi dalla frode, dalla violenza, dalla servilità criminosa, voi, insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia. Studenti, mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta". (Concetto Marchesi, op. cit., pp.129-130)
Nel suo appello, Marchesi chiarisce come non si possano ricondurre le responsabilità della tragedia solo ai criminali fascisti, quando afferma che “dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto o ha coperto con il silenzio o con la codarda rassegnazione, c’è tutta la classe dirigente italiana sospinta dall’inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina”.
Dopo avere partecipato alla Lotta Partigiana, Concetto Marchesi continua nel dopoguerra la sua battaglia politica e culturale, polemizzando con le correnti reazionarie che volevano precludere al popolo l’accesso alla cultura e all’arte. “Alla cultura è mancato – afferma Marchesi – l’alimento che viene dal basso, è mancato l’alimento che verrà dalla liberazione e dall’utilizzazione di tutte le energie e di tutte le fonti della genialità umana. La cultura non può prosperare nel chiuso dei ceti privilegiati. Essa ha bisogno di affondare le sue radici nella moltitudine lavoratrice perché sia dato uno spazio maggiore alla stessa operosità individuale”.
Negli scritti e nei discorsi del dopoguerra è costante la denuncia del pericolo del risorgere del fascismo, della crociata anticomunista, della repressione violenta delle lotte dei lavoratori, dei tentativi di leggi liberticide. In quegli anni, la polemica di Marchesi si rivolge principalmente contro la DC e la Chiesa cattolica per una politica di restaurazione dei privilegi, del potere del capitale, una politica che minacciava la pace con l’isteria anticomunista e antisovietica.
Un settimanale cattolico preannunciava il fatale tramonto dell’ideologia comunista che ‘’si riduce necessariamente a materia: salari, posti, attribuzioni di quattrini e di forza. La botte dà il vino che ha: dalla materia non esce lo spirito, dall’economia non scaturisce una fede, quella fede che conquista le coscienze, fino al sacrificio’’. Marchesi risponde: "Pare di sognare. Dunque non hanno fede gli operai, i contadini, gli organizzatori comunisti, e non conoscono sacrifizi, ma salari, posti, quattrini, come sanno le galere italiane che nel ventennio fascista furono una vera cuccagna per i profittatori del comunismo’’. Dall’economia non scaturisce una fede; parole gravi e imprudenti, che imporrebbero una dimostrazione fra tutte la più disperata: che regime edificante di fede, di astinenza, di sacrificio è quello che oggi governa l’Italia e prende nome dalla Democrazia Cristiana". (ibidem, p.65)
Il Vaticano e la stampa clericale portavano avanti in quel periodo la più rozza propaganda anticomunista. Perché la Chiesa romana dai suoi pulpiti – si chiede Marchesi – continua ad attaccare l’Unione Sovietica e i paesi socialisti? La verità è che ai clericali non basta la fede delle anime.
“Essi hanno disertato il regno di Cristo, dove non c’è posto per gli Eisenhower, per i Dulles, per gli Adenauer. Essi vogliono che le leve di comando restino dove finora sono state e che una casta di potenti, come nei secoli scorsi, abbia al suo dominio una massa di umiliati, sfruttati, disperati, cui si possa gettare il tozzo della carità, l’incantesimo della superstizione, il monito dell’ubbidienza e della rassegnazione". (ibidem, p.39)
Negli scritti di Marchesi vi è un’altra costante: la grande ammirazione per le realizzazioni che il sistema socialista aveva portato ai popoli sovietici. La sua difesa della patria del socialismo non è una difesa fideistica, ma si nutre di argomenti relativi alla grande avanzata culturale delle masse che solo il socialismo può permettere. In una conferenza tenuta il 18 aprile 1945, Marchesi sottolinea: "La moltitudine non è il gorgo che inghiotte i valori individuali; è l’immensa e inesauribile fonte da cui i valori individuali scaturiscono. Qual è il mezzo? Mi domandate. La scuola. Dov’è la prova? Nella Russia. Prima della guerra le scuole superiori in Russia erano 91, ora sono 708; e coi 600.000 e più studenti delle scuole superiori l’Unione Sovietica conta più studenti che tutti i grandi stati europei. Nel 1914 la Russia aveva 231 mila insegnanti, nel 1937 circa un milione; nel 1913, 19.785 medici, nel 1937 132.000, e poi 250.000 ingegneri, 160.000 artisti: un’enorme fioritura intellettuale sorta dal ceppo operaio e contadino. Nel 1938 lo Stato sovietico non spese meno di 800 milioni di rubli per borse di studio.
Così nell’Unione Sovietica i grandi progetti di costruzione del terzo piano quinquennale furono stabiliti quasi esclusivamente da forze tecniche indigene; e si è formata quella gioventù sovietica che ha salvato la Russia sul fronte della produzione e sul fronte della guerra: coi trattori di Stalingrado prima, con gli eroi di Stalingrado poi. Questo la Russia sovietica ha saputo creare. Dico creare perché non si tratta di un rapido sviluppo impresso a un movimento di cultura già iniziato e progressivamente condotto, ma di una nuova leva della cultura, di una chiamata in massa del popolo a una rapida e immediata conoscenza ed esperienza fatta nella scuola e nell’officina". (ibidem, pp.41-42)
Rivolgendosi particolarmente agli intellettuali che criticavano i sistemi socialisti, Marchesi dice: discutiamo e dissentiamo pure sui limiti e sull’estensione della nostra libertà individuale, ma lungo il cammino per cui si muovono le armate sovietiche stiano bene attenti "i dilettanti della politica e i sentimentali della democrazia a non confondere le loro voci con quelle degli eserciti bianchi e dei concistori sacerdotali".
‘Quelle armate hanno aperto nel mondo la strada per cui la classe lavoratrice è andata avanti e andrà avanti nella civiltà, nella cultura, nella incontestata dignità e libertà della persona umana. C’è qualcosa di sacro, compagni, nella storia del proletariato. Ciò che gli operai e i soldati della Russia hanno creato con la Rivoluzione d’Ottobre, quello è sacro per noi comunisti che in quella rivoluzione vediamo incominciata la nuova storia del mondo". (Concetto Marchesi, op. cit., p.116)
Il coraggio di andare controcorrente
In più di un’occasione accadde a Concetto Marchesi di non trovarsi d’accordo con la linea del suo partito e, in queste occasioni, egli non si inchinò a una malintesa disciplina di partito, ma sostenne fermamente le proprie convinzioni.
In due occasioni ciò avviene in maniera particolarmente evidente. Quando Palmiro Togliatti fa approvare dai parlamentari del PCI l’art. 7 della Costituzione, che include nella Carta costituzionale italiana i Patti Lateranensi con la Santa Sede, stipulati nel 1929 col governo fascista, Concetto Marchesi esce dall’aula insieme a Teresa Noce, rifiutando di votare secondo le indicazioni del partito.
Dopo il XX Congresso del PCUS e le cosiddette rivelazioni di Nikita Chruscev, mentre tutto il gruppo dirigente del PCI si allinea col nuovo corso revisionista (salvo alcuni sottili distinguo di Palmiro Togliatti) Marchesi, anche in questo caso, va controcorrente. Nel suo discorso all’VIII Congresso del PCI, egli afferma che il "rapporto segreto" di Chruscev serviva soltanto all’imperialismo e alle forze reazionarie.
“Tali rivelazioni che infusero così sfrenata letizia nel campo avversario suscitarono sorpresa e dolore in molti compagni, specie tra i fedelissimi della classe operaia. Dei comunisti, diciamo così, intellettuali, alcuni, quelli più esposti alle agitate correnti del pensiero, vacillarono. Altri, incorreggibili, restarono fermi. Tra i comunisti incorreggibili meno delusi sono stato anch’io.
Non ho mai pensato, infatti, compagni, che nei paesi dove la guerra e la rivoluzione e il genio dei capi avevano abbattuto il dominio autocratico e imperialista, potessero immediatamente succedere il benessere dei popoli e il regno degli uomini giusti. Il benessere dei popoli è frutto lento a maturare specie là dove si edifica sul deserto o si riedifica sulle rovine; e gli uomini non nascono giusti, ma – se natura consente – lo diventano nei loro rapporti individuali e sociali, attraverso un succedersi di esperienze e quindi anche di incertezze e di errori.
D’altra parte, è facile comprendere come le aperte critiche, e subito dopo le acerbe accuse fatte all’opera di un uomo che parve compendiare in sé, durante lunghi e terribili anni, l’anima e la forza dell’URSS, abbiano alimentato le furie dell’attacco capitalistico". (ibidem, p. 113)
E Marchesi non nasconde il suo disprezzo per Chruscev.
“Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Chruscev. All’odio capitalistico mai attenuato contro i regimi socialisti non era forse necessario, a guarigione dei nostri mali, aggiungere la nostra maledizione. Si possono fare molte più cose con le opere dei vivi che non con la condanna dei morti”.
(ibidem, p.113)
Questo fu l’ultimo discorso di Concetto Marchesi, pronunciato poche settimane prima della sua morte.
Maestro e compagno Marchesi voleva essere e fu per le generazioni della Resistenza, per gli antifascisti di tutta Italia; lo è oggi, e lo sarà domani, maestro e compagno, per tutti quei giovani che sentono quella “esigenza che chiede oggi più che mai di essere ascoltata, la guerra dell’uomo oppresso contro la società che l’opprime", e che "al di là di questo campo dove si combatte e si cammina è la finzione e l’inerzia e l’inutile vita".
|
gennaio 2013 | redazione |
Guantanamo | |
Cuba La Base di Guantánamo Una storia lunga più di un secolo Sergio Marinoni
In questi ultimi anni, diversi articoli pubblicati dai più importanti quotidiani italiani hanno riguardato il trattamento inumano e le torture praticate ai detenuti nelle carceri nordamericane di Abu Ghraib, nelle vicinanze di Baghdad, e di Guantánamo, nell’estremità orientale di Cuba. Mentre nel primo caso le prigioni si trovano in una nazione tuttora occupata dai nordamericani, attraverso una guerra che per anni ha tenuto le prime pagine dei giornali e l’apertura dei notiziari della televisione, la maggior parte della gente praticamente non conosce i precedenti storici che hanno fatto sì che gli Stati Uniti occupino ancora oggi una parte del territorio della Repubblica di Cuba e mantengano, illegalmente e contro la volontà di un intero popolo, una base militare in uno Stato socialista. La base navale di Guantánamo ha un’estensione di quasi 120 kmq. ed è occupata dagli Stati Uniti dal 1903. Quando stava per terminare la Seconda Guerra di Indipendenza (1895-1898) per la liberazione dell’isola dal dominio coloniale spagnolo, gli Stati Uniti erano intervenuti nella contesa tra cubani e spagnoli accusando pretestuosamente questi ultimi di un attentato a una nave statunitense - la corazzata Maine che esplose causando la morte 266 marinai - mentre si trovava in visita di cortesia nel porto di La Habana. Con questo loro intervento, durato solo tre mesi, gli Stati Uniti presero due piccioni con una fava: da una parte portarono via Cuba alla Spagna, un sogno accarezzato per un centinaio d’anni, e dall’altra impedirono ai mambises cubani di ottenere quell’indipendenza per la quale avevano lottato, a più riprese e con immensi sacrifici, per quasi mezzo secolo. Dopo quattro anni di protettorato sull’isola, gli Stati Uniti concessero ai cubani una “caricatura” di indipendenza, imponendo alla loro Costituzione un emendamento in otto punti. Di fatto questa vessazione nota come Emendamento Platt, dal nome del senatore statunitense che l’aveva proposto, svuotava di significato ogni concetto di indipendenza. Infatti tale Emendamento concedeva, tra l’altro, il diritto agli Stati Uniti di intervenire militarmente a Cuba ogni volta che lo ritenessero necessario. Il punto VII dell’Emendamento affermava: “Che per mettere in condizioni gli Stati Uniti di mantenere l’indipendenza di Cuba e di proteggere il popolo, come pure per la sua difesa, il Governo di Cuba venderà o affitterà agli Stati Uniti i terreni necessari per depositi di carbone o per stazioni navali in certi punti stabiliti che saranno concordati con il Presidente degli Stati Uniti”. In quest’ottica, nel febbraio 1903 a La Habana e a Washington, fu firmato un “Accordo per le Stazioni di Carbone e Navali” che prevedeva l’affitto di due aree: Bahía Honda e Guantánamo, anche se successivamente in realtà la prima non fu mai utilizzata. L’articolo II di questo Accordo stabiliva testualmente “di fare tutto quanto fosse necessario per mettere questi luoghi in condizioni di essere usati esclusivamente come depositi di carbone o stazioni navali e a nessun altro scopo”. In aggiunta a questo accordo, il 22 maggio 1903 fu firmato un Trattato Permanente di Relazioni tra Cuba e Stati Uniti d’America, in cui gli otto punti dell’Emendamento Platt vennero presi testualmente e trasformati negli articoli del Trattato. Trentun anni dopo, il 29 maggio 1934, fu sottoscritto un nuovo Trattato di Relazioni tra la Repubblica di Cuba e gli Stati Uniti d’America, che annullava quello del 1903 (e quindi l’emendamento Platt), ma che manteneva la presenza statunitense nella base navale di Guantánamo. Per essere più precisi, l’articolo III del nuovo Trattato stabiliva: “Fino a quando le due parti contraenti non saranno d’accordo per una modifica o per l’abrogazione dei punti stabiliti nell’Accordo firmato dal Presidente della Repubblica di Cuba il 16 febbraio 1903 e dal Presidente degli Stati Uniti d’America il 23 dello stesso mese e anno, riguardo all’affitto agli Stati Uniti d’America di territori a Cuba per stazioni di carbone o navali, continuerà a valere quanto stipulato in questo Accordo in relazione alla stazione navale di Guantánamo. Rispetto a questa stazione navale continuerà a essere valido con le stesse modalità e condizioni l’accordo supplementare che si riferisce a stazioni navali o di carbone concordato tra i due Governi il 2 luglio 1903. Fino a quando gli Stati Uniti d’America non lasceranno la citata Stazione Navale di Guantánamo o fino a quando i due Governi non concordino una modifica agli attuali limiti, si continuerà a mantenere l’estensione territoriale occupata ora, con i limiti che vi sono alla data della firma del presente Trattato”. Per dare un’idea della condizione impositiva di questo Accordo, gli Stati Uniti avrebbero dovuto pagare un affitto di 2.000 dollari all’anno (poco meno di 5.000 dollari al valore attuale), per l’occupazione di una superficie di territorio pari a 117.6 kmq., importo che la Rivoluzione cubana non ha mai ritirato. Gli Stati Uniti considerano tuttora valido il punto del Trattato che riguarda la Base di Guantánamo, dato che nel testo è specificato che per la sua modifica o abrogazione è necessario l’accordo tra le “due parti contraenti”. Cuba, al contrario, considera illegale l’occupazione di questa zona del suo territorio perché la parte contraente cubana che ha firmato il Trattato non esiste più. Con la vittoria della Rivoluzione è subentrato un tipo di Stato totalmente diverso da quello che esisteva prima, e la Rivoluzione cubana non riconosce proprie le obbligazioni dei precedenti Governi. Oltretutto questa occupazione è in netto contrasto con la volontà del popolo cubano. Inoltre, Cuba denunzia anche il cambiamento della destinazione d’uso: da deposito di carbone o stazione navale, come previsto negli accordi, a base militare navale e, ultimamente, anche a inumana prigione in cui si pratica la tortura. Qualsiasi contratto di affitto può essere rescisso nel caso cambi la destinazione d’uso per la quale è stato sottoscritto senza il benestare della parte che è proprietaria. Ma c’è di più. Un contratto è tale se ha una data di inizio e una data di scadenza. Non esistono contratti a tempo illimitato in attesa di un accordo tra le “due parti contraenti” che ne stabilisca la modifica o l’abrogazione. Questo è il quadro globale della Base di Guantánamo, uno dei molti punti di divergenza tra Cuba e Stati Uniti, che potrà avere una soluzione non tanto sul piano legale ma solamente su quello politico, quando il Governo nordamericano avrà messo da parte la sua arroganza e la sua prepotenza. |
19 dicembre 2011 | redazione |
antifascismo | |
CASAPOUND&FRIENDS
Gianluca Casseri, non molto noto come neofascista, ha conquistato i primi titoli
dei giornali dopo essere diventato un assassino, andando al mercato a Firenze a
fare il tiro al senegalese (ne ha ammazzati due, ma avrebbe potuto fare
di peggio, visto l’armamentario che s’era portato dietro), una cosa che ci ha
ricordato un po’ certe sparate (metaforiche, ovviamente) di un sindaco di
Treviso che proponeva di “vestire gli immigrati da lepri” il giorno
dell’apertura della caccia “per far divertire i cacciatori”. (Sissignori,
l’Italia è anche questo, caso mai ce lo fossimo dimenticato). Copione
già visto, come all’epoca dell’attentato al Manifesto dove l’attentatore si fece
male da solo (e per fortuna non fece male a nessun altro), dal quale Forza nuova
prese subito le distanze, diceva che sì, girava, vedeva gggente, ma però
non c’entrava… Dopo
l’episodio Casseri, è stato fatto girare in rete un documento con dei nomi (di
“intellettuali” e “persone di cultura”) che firmarono tempo fa per “sdoganare”
CasaPound, nel senso che si attivarono perché non fosse loro impedito di
organizzare iniziative pubbliche. Il
trentino De Eccher fu negli anni ’60 militante di estrema destra e sospettato
addirittura di collusione con gli stragisti neri; la scorsa primavera ha
presentato un disegno di legge costituzionale per abolire la XII norma
transitoria della Costituzione, quella che vieta la riorganizzazione del partito
fascista. Il fatto che De Eccher sia stato condannato proprio per questo reato,
da giovane, è puramente casuale, ovviamente.
“Roma,
9 settembre – Dibattiti con nomi della politica e dell’informazione, da Stefania
Craxi a Mario Sechi, da Pietrangelo Buttafuoco a Gabriele Adinolfi. Ma anche
formazione, sport, musica, teatro, volontariato, impegno sociale e un omaggio
video a Pietro Taricone. Da giovedì 15 a domenica 18 settembre CasaPound Italia,
chiuso il terzo anno di attività, si ritrova nel cuore di Roma, nella
‘postazione nemica’ di Area 19, per ‘Direzione Rivoluzione’, la festa nazionale
del movimento nato a giugno 2008”
Negli anni ‘90 l’Uomo libero onlus (da non
confondersi con l’Uomo libero che fu una testata comunitarista molti anni or
sono) si è occupato dell’ex Jugoslavia “durante tutto il conflitto l’Uomo Libero
ha sostenuto ben trentotto viaggi per trasportare aiuti umanitari, raccolti
principalmente nel basso Trentino”, (chi è trentino? Ah, de Eccher, sicuramente
una coincidenza) ed oggi si occupa dei Serbi del Kosovo. E qui noi che ci
lasciamo andare ai ricordi, dobbiamo annotare che nella manifestazione
organizzata dal GUD a Trieste il 5 novembre scorso c’era una forte presenza
serba (considerando una quindicina di persone su un centinaio totali, va detto)
che sosteneva il diritto serbo sul Kosovo (fattore sul quale siamo d’accordo
anche noi, ma che viene politicamente egemonizzato dalla destra estrema, in
funzione di barriera cristiana contro l’islamismo). Nerozzi (“bieco e delirante anticomunista” per sua stessa definizione durante una conferenza tenutasi a Trieste ed organizzata dal Partito radicale), era passato da reporter free lance (nella Jugoslavia degli anni 90, vi ricorda qualcosa?) ad organizzatore di “iniziative umanitarie”, come queste che porta da anni avanti nel sudest asiatico, sia con i Karen che con i Montagnards del Viet Nam, spesso fregandosene delle necessarie autorizzazioni dei governi legittimi. Ma tanto per restare tutti in famiglia, ricordiamo che all’epoca tra gli indagati veronesi per presunti traffici d’armi che si sarebbero celati sotto pretese “operazioni umanitarie” in Birmania vi fu anche Giulio Spiazzi (figlio del più ben noto generale Amos) che scelse come proprio avvocato il veronese Roberto Bussinello, altro esponente di Forza nuova. Che Nerozzi abbia patteggiato è di dominio pubblico; come invece si sia conclusa la vicenda di Spiazzi non lo sappiamo, però troviamo nel sito http://educazionedemocratica.org/?p=1208#comments che cinque anni fa (l’articolo è del 2011) un “giovane papà”, dopo avere fatto l’inviato di guerra in praticamente tutto il mondo ha deciso di fondare una “scuola di stampo libertario”, andando oltre la propria formazione steineriana per “ispirarsi alla filosofia libertaria”. Chi è questo “giovane papà” tanto libertario? Giulio Spiazzi, l’avreste mai creduto? Smettiamola di dietrologare e torniamo alla festa di CasaPound, dove a parlare di politica e di economia assieme al direttore de “il Tempo” Mario Sechi ed il giornalista del “Sole 24 ore” Augusto Grandi (e ad un responsabile di CasaPound) troviamo nuovamente Gabriele Adinolfi, qualificato come fondatore del Centro studi Polaris, la cui competenza in materia economica ci è oscura e tanto meno ci è stata chiarita leggendo l’introduzione del sito di tale Centro studi: “Cos’è Polaris Il
modello cui tendiamo, e al quale ci avviciniamo progressivamente ogni giorno di
più, non ha ancora un nome proprio in italiano. Usando l’anglicismo corrente, si
potrebbe definire, non senza qualche disagio per la sudditanza linguistica, un
Think Tank. La scommessa che ci prefiggiamo di vincere è di farne qualcosa di
simile ma di diverso, in quanto non lo intendiamo al servizio di potentati
economici ma della comunità nazionale. Quando potremo dire di aver vinto questa
scommessa saremo probabilmente anche riusciti a dare la definizione italiana di
un Think Tank oltre alla sua italica versione”. Alla fine alla conferenza hanno parlato il biologo triestino Giorgio Rustia ed il medico Vincenzo Maria De Luca, già tra i relatori (assieme a Roberto Fiore, sì sempre quello di Forza nuova) invitati da Lotta studentesca (associazione vicina a Forza nuova) di Roma per una conferenza dal titolo “Foibe l’unica verità” da tenersi alla Sapienza, iniziativa saltata per le proteste degli studenti (non per vantarmi, ma lo scopo della conferenza sarebbe stato quello di “sbugiardare” il mio studio sulle foibe, attività che sembra essere uno degli scopi della vita del dottor Rustia). Insomma, gira che ti rigira, tornano fuori sempre gli stessi nomi: il che dovrebbe essere positivo, perché vuol dire che più di tanti in Italia non sono. A Brescia CasaPound ha giocato ancora più sporco, invitando ad un dibattito dal titolo “C’era una volta 28 maggio 1974” il rappresentante dei familiari delle vittime della strage di Brescia, Manlio Milani (che purtroppo si è prestato al gioco) assieme a Gabriele Adinolfi (sempre come Polaris) e due esponenti di CasaPound. Questo episodio ha creato una frattura piuttosto pesante all’interno dell’associazione per la memoria che sono giunti addirittura a chiedere le dimissioni di Milani. Ovviamente ciascuno ha diritto di partecipare alle iniziative che crede, ma quando si ricopre una carica come quella di Milani dare un qualsivoglia avallo di dialogo su un argomento tanto scottante con persone di quella fatta, nell’insieme quello che viene da pensare è che certe iniziative di CasaPound abbiano un contrappunto provocatorio e che a volte la provocazione gli riesca. Mi rendo conto di essere andata un po’ a ruota libera in questo articolo, ma la ricerca sul neofascismo è come le ciliegie, una notizia tira l’altra, e poi si arriva un po’ dappertutto per tornare al punto di partenza. Naturalmente questi sono solo degli appunti che richiedono assolutamente degli approfondimenti e dei chiarimenti, cosa che mi riprometto di fare quanto prima. E se qualcuno ha idee, notizie, sospetti o anche solo pettegolezzi, me li mandi, così posso destreggiarmi meglio in questa galassia nerofumo.
Dicembre 2011
|
2 giugno 2011 | redazione |
Congresso PCC | |
Una premessa
Diamo ampio spazio al VI Congresso del Partito comunista di Cuba che si è svolto in aprile, come materiale di riflessione
"Uno dei nostri più grandi errori all’inizio, e molte volte nel corso della Rivoluzione, è stato di credere che qualcuno sapesse come si costruiva il socialismo”
Fidel Castro Ruz, 17 novembre 2005
Cuba resiste all’imperialismo da 50 anni e da 50 anni cerca di di-fendere – sola, accerchiata e sottoposta al bloqueo - il sociali-smo che è riuscita a costruire. Qualunque giudizio si possa dare sulle misure che prende, si deve partire dalla consapevolezza di questo e dal profondo rispetto che si deve alla Rivoluzione Cubana e al suo popolo, soprattutto da parte di chi, in 50 anni, non è riuscito – per questioni storiche, oggettive, soggettive… ecc. ecc. – a fare altrettanto.
Il VI congresso del Partito Comunista di Cuba, centrato sulla discussione dei Lineamenti di Politica Economica, ha dato la stura – come al solito – ad una serie di “speranze” (da destra) e di critiche (da sinistra): finalmente torna il capitalismo a Cuba, per gli uni; purtroppo torna il capitalismo a Cuba, per gli altri. Curiosa coincidenza di vedute.
Il primo elemento da prendere in esame è qualcosa che noi tutti sappiamo ma che troppo spesso sottostimiamo o dimentichiamo: l’idea che le questioni economiche, lungi dall’essere governate dalla “ferrea legge del mercato”, sacra e inviolabile per “ragioni oggettive” nel mondo capitalista, possano diventare invece oggetto di decisioni politiche, cioè della volontà e dell’agire cosciente degli uomini, e in quanto tali possano essere discusse dai diretti interessati, cioè da tutti i cittadini cubani.
Nei paesi capitalisti è semplicemente assurdo pensare che un governo (che oggi a Cuba coincide, per le ragioni spiegate nel di-scorso di Raul, con il Partito) possa organizzare un dibattito tra la popolazione sul taglio delle pensioni, sulle riforme del lavoro né, tantomeno, sul finanziamento pubblico per salvare le banche dalla crisi.
La discussione sui Lineamenti ricorda invece al mondo che le “leg-gi naturali” cui l’economia non può far altro che obbedire – con tutte le sue tragiche e sanguinose conseguenze per i popoli, e ormai forse per la stessa specie umana nel suo complesso – in realtà sono una colossale menzogna che copre i “sacri” interessi del capitale.
Altro elemento: nel Rapporto centrale al Congresso fatto da Raùl Castro si concede ben poco alle condizioni “oggettive”. L’analisi della necessità di adeguare il modello economico cubano alla re-altà non si basa sulle difficoltà esterne – il blocco, lo strangolamento economico, la guerra strisciante e spietata degli Stati Uniti (tutte le scuse, secondo alcuni, dietro cui i dirigenti della Rivoluzione nasconderebbero l’incapacità della Rivoluzione stessa a garantire una vita decente al popolo cubano) – ma sulle contraddizioni e le storture interne, del resto già segnalate da Fidel Castro nel suo discorso all’Università dell’Avana nel novembre 2005.
Neanche questo è un fatto nuovo. Tutti ricorderanno il dibattito che si sviluppò nell’isola sulla svolta da dare all’economia negli anni ’60, dibattito il cui protagonista principale – non solo nella discussione ma nell’azione pratica come ministro - fu il Che Guevara e che è stato spesso banalizzato nell’alternativa tra “incentivi materiali” e “morali”.
Il dibattito di allora, come quello di oggi sui Lineamenti, fu pubblico e aperto, senza “scomuniche” di alcun genere ma con la tensione di fondo – da entrambe le parti - di chi stava operando in una realtà che, per fattori esterni ed interni, cambiava ogni giorno e presentava nuove sfide, sfide non solo ideologiche ma reali, di carne e sangue, per proseguire nella difficile strada della costruzione del socialismo in un paese come Cuba, che non rispondeva ai “canoni classici” del marxismo.
“Siamo realisti, vogliamo l’impossibile”: l’Uomo Nuovo pensato dal Che altro non è altro, secondo noi, che l’azione cosciente dell’avanguardia, ruolo fondamentale che nel Rapporto viene rivendicato per tutti gli appartenenti al Partito in quanto tali.
Altro che “via cinese” o apertura al capitalismo…!
Anche oggi il Congresso – e tutto il popolo cubano - è chiamato a riflettere, analizzare e cambiare quello che è diventato, nel corso degli anni e sulla scia della necessità, il ruolo del Parti-to comunista e dei suoi membri, il ruolo dell’avanguardia, il ruolo della coscienza nella trasformazione della realtà. Qualcuno pensa forse che esistano misure economiche che possano, - di per sé, automaticamente - superare il capitalismo? Se sì, ripensi all’esperienza delle democrazie socialiste dell’Est Europa (e non solo) e ne faccia un bilancio.
La democrazia – o meglio, la sua mancanza - è un altro cavallo di battaglia di chi vuole male alla Rivoluzione cubana.
Tutti i cubani sono stati invitati NON ad approvare, ma a conoscere, discutere, criticare i Lineamenti. Nella relazione di Raùl Castro vengono forniti i dati della consultazione e i suoi risultati, che parlano da soli. Cuba oggi ci dà un esempio di democrazia effettiva, mentre in tutto il mondo cresce il rifiuto della pseudo-democrazia del capitale (Plaza del Sol di Madrid, come ultimo esempio nel tempo).
Giudicare - spesso senza conoscerle, “contrarie al socialismo” le misure proposte con i Lineamenti, di cui peraltro si rivendica da parte del Partito Comunista cubano la necessità vitale di bilanci nel tempo per verificarne i risultati - presuppone che esista un solo modello di socialismo, buono per tutti i tempi e tutti i pae-si, che basti replicare una ricetta già sperimentata.
Nella società cubana, così come in ogni altra società che si è definita socialista in altri periodi storici, continuano certamente ad esistere elementi di capitalismo (le merci, il mercato, il lavoro salariato, lo Stato, ecc.).
Ma cos’è il socialismo - cioè il processo di transizione al comu-nismo - se non la lotta di classe contro questi elementi, i grandi mezzi di dominazione del capitalismo? “Il socialismo è un fatto di coscienza” scriveva il Che; le forme che si scelgono vanno valuta-te – secondo noi - in questo senso: rafforzano o no la coscienza, non solo dell’avanguardia ma delle masse, rispetto alla lotta ne-cessaria per abolire questi elementi?
Chiedere a Cuba misure “comuniste”, indipendentemente dallo sviluppo delle società e della produzione nel resto del pianeta è assurdo. La Rivoluzione cubana, intanto, ha saputo mantenere e sviluppare la possibilità di un comunismo “impossibile”, e questo chiama in causa la responsabilità, il ruolo e la capacità di inci-dere sulla realtà dei rivoluzionari di tutto il mondo.
Certo che oggi, nella società cubana, esistono contraddizioni di ogni genere, del resto sempre riconosciute dai rivoluzionari stes-si, oltre che definite con spietata chiarezza nel Rapporto di Raùl Castro.
La scarsezza materiale di beni (al di là degli effetti di quel continuo, ormai cinquantennale, atto di guerra che è il bloqueo), la necessità di una vita materiale accettabile per l’insieme della popolazione, la possibilità di dare uno sbocco ad una popolazione in maggioranza giovane e con un alto livello culturale, il protagonismo effettivo del popolo rivoluzionario, in altre parole lo sviluppo dell’iniziativa economica e politica: queste sono le sfide che affronta oggi la Rivoluzione cubana e il dibattito sui Lineamenti a noi sembra un primo, importantissimo passo in questa direzione.
Ci fermiamo qui nella nostra premessa ed invitiamo tutti i compagni a leggere il “Rapporto centrale al VI Congresso”, che pubblichiamo integralmente perché ognuno possa farsi un’idea e trarne le debite conseguenze.
Rapporto centrale al VI Congresso del Partito Comunista di Cuba
16 aprile 2011
Compagne e compagni,
iniziamo questo pomeriggio le sessioni del VI Congresso del Parti-to Comunista di Cuba in una data molto importante della nostra storia, il 50° Anniversario della proclamazione del carattere socialista della Rivoluzione da parte del suo Comandante in Capo, Fidel Castro Ruz, il 16 aprile 1961, nel dare l’addio ai caduti nei bombardamenti delle basi aeree, il giorno prima, come preludio dell’invasione mercenaria di Playa Giròn, organizzata e finanziata dal governo degli Stati Uniti, che faceva parte dei suoi piani per distruggere la Rivoluzione e restaurare, con il concerto dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), il dominio su Cu-ba.
Fidel diceva allora al popolo armato e furioso: “Questo è ciò che non possono perdonarci (…) che abbiamo fatto una Rivoluzione so-cialista sotto lo stesso naso degli Stati Uniti. Compagni operai e contadini, questa è la Rivoluzione socialista e democratica degli umili, con gli umili e per gli umili. E per questa Rivoluzione so-cialista e democratica degli umili, fatta dagli umili e per gli umili, siamo disposti a dare la vita”. (fine della citazione).
La risposta a questo appello non si fece aspettare e nell’affrontare l’aggressione, alcune ore dopo, i combattenti dell’Esercito Ribelle, polizia e miliziani sparsero, per la prima volta, il loro sangue in difesa del socialismo e ottennero la vittoria prima di 72 ore, sotto il comando dello stesso compagno Fidel.
La Sfilata Militare cui abbiamo assistito questa mattina, dedicata alle giovani generazioni e, in particolare, l’entusiasta marcia del popolo che è seguita, sono una prova eloquente delle forze di cui la Rivoluzione dispone per seguire l’esempio degli eroici com-battenti di Playa Giròn.
Faremo lo stesso in occasione della Giornata Internazionale dei Lavoratori, il prossimo primo maggio, in lungo e in largo nel paese, per dar conto dell’unità dei cubani in difesa della loro indipendenza e sovranità nazionale, concetti che la storia ha provato che è possibile conquistare solo con il socialismo.
Questo Congresso – quale organo supremo dell’organizzazione di partito, come stabilito dall’art.20 dei suoi Statuti, che riunisce oggi migliaia di delegati in rappresentanza di circa 800 mila militanti raggruppati in più di 61 mila nuclei - è iniziato in pratica il 9 novembre dell’anno sorso, quando è stato presentato il Progetto di Lineamenti della Politica Economica e Sociale del Partito e della Rivoluzione, questione che, come è già stato indicato, costituisce il tema principale di questo evento, in cui stanno inscritte grandi aspettative del popolo.
Da allora si sono fatti numerosi seminari che sono serviti al pro-posito di chiarire e approfondire il contenuto dei Lineamenti, e in questo modo preparare adeguatamente i quadri e i funzionari che, a loro volta, dovevano guidare il processo di discussione con i militanti, le organizzazioni di massa e la popolazione in gene-rale.
Per tre mesi, dal 1° dicembre 2010 al 28 febbraio del presente an-no, si è sviluppato il dibattito cui hanno partecipato 8.913.838 persone in più di 163 mila riunioni effettuate in seno alle diffe-renti organizzazioni, con una cifra superiore a tre milioni di in-terventi.
Bisogna chiarire che nell’insieme dei partecipanti sono inclusi, senza essersi definiti con esattezza, decine di migliaia di militanti del Partito e dell’Unione della Gioventù Comunista, che hanno assistito sia alle riunioni dei loro nuclei o comitati di base sia a quelle effettuate nei centri di lavoro e di studio e anche nelle comunità dove risiedono. È anche il caso di coloro che non militano e che hanno partecipato nei loro collettivi di lavoro e successivamente nei rispettivi quartieri.
La stessa Assemblea Nazionale del Potere Popolare ha dedicato quasi tre giorni interi della sua ultima sessione ordinaria, lo scorso dicembre, all’analisi tra i deputati del progetto dei Lineamenti.
Questo processo ha messo in chiaro la capacità del Partito di condurre un dialogo serio e trasparente con la popolazione su qualsiasi argomento, per quanto sia sensibile, soprattutto quando si tratta di andare a plasmare un consenso sui tratti che dovranno caratterizzare il Modello Economico e Sociale del paese.
A loro volta i risultati del dibattito, per i dati raccolti, costituiscono un formidabile strumento di lavoro – per la direzione del Governo e del Partito a tutti i livelli –così come una sorta di referendum popolare rispetto alla profondità, alla portata e al ritmo dei cambiamenti che dobbiamo introdurre.
È un vero e ampio esercizio democratico, il popolo ha manifestato liberamente le sue opinioni, ha chiarito dubbi, ha proposto modifiche, ha espresso le sue insoddisfazioni e differenze e ha anche suggerito di studiare la soluzione di altri problemi non contenuti nel documento.
Una volta di più sono state messe alla prova la fiducia e l’unità maggioritaria dei cubani attorno al Partito e alla Rivoluzione, unità che non nega differenze di opinioni, ma che si rafforza e si consolida con queste. Tutte le proposte, nessuna esclusa, sono state aggiunte all’analisi, cosa che ha permesso di arricchire il progetto all’attenzione dei delegati al Congresso.
Non sarebbe immotivato affermare che, nella sua essenza, il Congresso si è già celebrato attraverso questo magnifico dibattito con la popolazione. A noi delegati resterebbe, in queste sessioni, da realizzare la discussione finale del progetto e l’elezione degli organi superiori della direzione del Partito.
La Commissione di Politica Economica del VI Congresso del Partito, precedentemente incaricata dell’elaborazione del progetto di Line-amenti, ha poi assunto la responsabilità dell’organizzazione del progetto della sua discussione e ha lavorato nelle cinque seguenti direzioni principali:
1. Riformulazione dei Lineamenti tenendo conto delle opinioni rac-colte;
2. Organizzazione, orientamento e controllo della sua strumenta-zione;
3. Preparazione minuziosa dei quadri e degli altri partecipanti;
4. Supervisione sistematica degli organismi ed entità incaricati di mettere in pratica le decisioni derivate dai Lineamenti e valu-tazione dei risultati;
5. Gestione della divulgazione alla popolazione.
In attuazione di quanto sopra, è stato riformulato il progetto dei Lineamenti, che è stato sottoposto ad analisi i giorni 19 e 20 marzo in importanti sessioni dell’Ufficio Politico e del Comitato Esecutivo del Consiglio dei Ministri, con la partecipazione del Segretariato del Comitato Centrale del Partito, dei quadri centra-li della Centrale dei Lavoratori di Cuba (CTC) e delle altre orga-nizzazioni di massa e dell’Unione dei Giovani Comunisti (UJC); (il progetto) è stato approvato in questa istanza, anche se in qualità di progetto, e vi è stato distribuito per l’esame per tre giorni in seno ad ognuna delle delegazioni provinciali al Congresso, con l’intervento attivo degli invitati e sarà dibattuto nelle cinque commissioni di questa riunione del Partito per la sua approvazio-ne.
Di seguito fornirò alcuni dati per illustrare alla popolazione i risultati della discussione dei Lineamenti, anche se successiva-mente sarà pubblicata un’informazione dettagliata.
Il documento originale conteneva 291 lineamenti, dei quali 16 sono stati integrati in altri, 94 hanno mantenuto il testo originale, in 181 è stato modificato il contenuto e ne sono stati aggiunti 36 nuovi, per un totale di 311 nel progetto attuale.
Questi numeri, con una semplice aritmetica, mostrano la qualità della consultazione in cui, in maggiore o minore misura, circa più di due terzi dei lineamenti, più precisamente il 68%, sono stati riformulati.
Questo processo è stato guidato dal principio di non rendere dipendente la validità di una proposta dalla quantità di opinioni espresse. Esempio di questo è che vari lineamenti sono stati modi-ficati o soppressi, partendo dalla proposta di una sola persona, o da poche.
Così, è necessario spiegare che alcune risoluzioni non sono state prese in considerazione in questa tappa, sia perché è necessario approfondire la tematica, poiché non esistono le condizioni ri-chieste o, in altri casi, perché entrano in aperta contraddizione con l’essenza del socialismo come, ad esempio, 45 proposte che chiedono di permettere la concentrazione della proprietà.
Con questo intendo dire che, anche se come tendenza c’è stata in generale comprensione e appoggio al contenuto dei lineamenti, non c’è stata unanimità né nulla del genere e questo è esattamente quello di cui avevamo bisogno, se davvero vogliamo un confronto democratico e serio con il popolo.
Per questo possiamo definire, con completa sicurezza, i lineamenti come espressione della volontà del popolo - contenuta nella poli-tica del Partito, del Governo e dello Stato – di attualizzare il Modello Economico e Sociale con l’obiettivo di garantire la continuità ed irreversibilità del socialismo, così come lo sviluppo economico del paese e l’elevazione del livello di vita coniugati con la necessaria formazione di valori etici e politici dei nostri cittadini.
Come c’era da aspettarsi, nella discussione dei Lineamenti la maggior parte delle proposte si è concentrata nel capitolo SESTO “Politica Sociale” e nel capitolo SECONDO “Politiche macroeconomi-che”, che rappresentano insieme il 50,9% del totale. Sono seguiti, in ordine decrescente, i capitoli UNDICESIMO “Politiche per le Co-struzioni, le Abitazioni e le Risorse Idrauliche”, il DECIMO “Po-litica per il Trasporto” e il capitolo PRIMO “Modello di Gestione Economica”. In questi cinque capitoli, su un totale di 12, si rag-gruppa il 75% delle opinioni.
D’altra parte – in 33 lineamenti, l’11% del totale – si sono rag-gruppate il 67% delle proposte: in particolare riguardo al n. 162, che tratta dell’eliminazione della “libreta” di approvvigionamento; i nn. 61 e 62 sulla politica dei prezzi; il n. 262 sul trasporto di passeggeri; il n. 133 riferito all’educazione; il n. 54 relativo all’unificazione monetaria e il n. 143 associato alla qualità dei servizi alla salute; questi sono quelli che hanno dato luogo alla maggior quantità di proposte.
La “libreta” di approvvigionamento e la sua eliminazione è stata, senza dubbio, il tema che ha provocato più interventi dei partecipanti ai dibattiti ed è logico che sia stato così; due generazioni di cubani hanno passato la loro vita sotto questo sistema di razionamento che, nonostante il suo nocivo carattere egualitaristico, ha permesso per decenni a tutti i cittadini l’accesso agli alimenti base a prezzi irrisori, altamente sovvenzionati.
Questo strumento di distribuzione, anche se fu introdotto negli anni ’60 - con una vocazione egualitaria in momenti di scarsità - per proteggere il nostro popolo dalla speculazione e dall’accaparramento a fini di lucro da parte di pochi, è diventato, col passare degli anni, un carico insopportabile per l’economia e un freno al lavoro, oltre che aver generato varie il-legalità nella società.
Dato che la “libreta” è disegnata per coprire ugualmente i più di 11 milioni di cubani, non mancano gli esempi assurdi, come il fat-to che il caffè razionato viene assegnato anche ai neonati. Lo stesso succedeva con i sigari fino al settembre 2010, forniti senza distinguo a fumatori e non fumatori, favorendo anche la crescita di questa dannosa abitudine nella popolazione.
Su questo tema sensibile, il ventaglio di opinioni è molto grande, da quelli che suggeriscono di sopprimerla immediatamente a quelli che si oppongono recisamente e propongono di normare tutto, anche gli articoli industriali. Altri ritengono che per combattere l’accaparramento e garantire l’accesso di tutti agli alimenti basici bisognerebbe, in una prima fase, mantenere la quota norma-ta, anche se i prezzi non verrebbero più sovvenzionati. Non pochi raccomandano di privare della “libreta” quelli che non studiano o non lavorano o consigliano che i cittadini con maggiore reddito rinuncino volontariamente a questo sistema.
Certamente il paniere familiare normato, giustificato in circostanze storiche concrete, per essersi mantenuto durante così tanto tempo contraddice nella sua essenza il principio della distribuzione che deve caratterizzare il socialismo, ossia “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro” e questa situazione deve essere superata.
A questo riguardo, considero adatto ricordare quanto prospettato dal compagno Fidel nel Rapporto Centrale al primo Congresso del Partito, il 17 dicembre 1975, e cito: “Nella conduzione della no-stra economia abbiamo indubbiamente sofferto di errori di ideali-smo e, a volte, abbiamo ignorato la realtà che esistono leggi economiche oggettive cui dobbiamo attenerci” (fine della citazio-ne).
Il problema che affrontiamo non è di concetto, ha le sue radici nel come, quando e con che gradualità lo faremo. La soppressione della “libreta” non costituisce un fine in se stessa, né può esse-re vista come una decisione isolata, ma come una delle misure principali che sarà necessario applicare per sradicare le profonde distorsioni esistenti nel funzionamento dell’economia e della società nel suo insieme.
Nessuno sano di mente nella direzione del paese può pensare di de-cretare di colpo l’eliminazione di questo sistema, senza creare prima le condizioni per questo, ciò che si traduce nel realizzare altre trasformazioni del Modello Economico con l’obiettivo di incrementare l’efficienza e la produttività del lavoro, in modo che si possano garantire con stabilità livelli di produzione e di offerta dei prodotti e servizi di base a prezzi non sovvenzionati e, nello stesso tempo, accessibili a tutti i cittadini.
Questo tema, logicamente, ha una stretta relazione con i prezzi e l’unificazione monetaria, i salari e il fenomeno della “piramide invertita” che, come si è chiarito in parlamento lo scorso 18 dicembre, si esprime nella non corrispondenza della retribuzione salariale con la gerarchia e l’importanza del lavoro eseguito, problematiche che si riflettono in grande proporzione nelle pro-poste realizzate.
A Cuba, nel socialismo, non ci sarà mai spazio per le “terapie shock” contro coloro che più hanno bisogno e che sono, tradizionalmente, coloro che appoggiano la Rivoluzione con maggior fermezza, a differenza dei pacchetti di misure impiegate con frequenza su mandato del Fondo Monetario Internazionale e di altre organizzazioni economiche internazionale ai danni dei popoli del Terzo Mondo e anche, negli ultimi tempi, nelle nazioni più sviluppate, dove si reprimono con violenza le manifestazioni popolari e studentesche.
La Rivoluzione non abbandonerà alcun cubano e si sta riorganizzando il sistema di attenzione sociale per assicurare il sostegno differenziato e razionale a coloro che realmente ne abbiano bisogno. Invece di sovvenzionare massicciamente i prodotti, come facciamo ora, si passerà progressivamente all’appoggio delle persone senza altro sostegno.
Questo principio conserva il completo valore nel riordinamento della forza lavoratrice, già in marcia, per ridurre gli organici gonfiati nel settore statale, sotto la stretta osservanza dell’idoneità dimostrata, processo che continuerà, senza fretta ma senza pausa e il suo ritmo sarà determinato dalla nostra capacità di andare creando le condizioni richieste per il suo completo spiegamento. A questo dovrà contribuire, tra altri fattori, l’ampliamento e la flessibilizzazione del lavoro nel settore non statale. Questa forma di impiego, cui hanno ricorso un po’ più di 200 mila cubani dall’ottobre dell’anno scorso ad oggi, raddoppian-do così la quantità di lavoratori per proprio conto, costituisce un’alternativa lavorativa al riparo della legislazione vigente, e quindi deve contare sull’appoggio, il supporto e la protezione delle autorità, a tutti i livelli, ed esigendo, col rigore che la legge impone, il compimento delle sue obbligazioni, comprese quelle tributarie.
L’incremento del settore non statale dell’economia, lungi dal significare una presunta privatizzazione della proprietà sociale come affermano alcuni teorici, è chiamato a diventare un fattore facilitatore per la costruzione del socialismo a Cuba, visto che permetterà allo Stato di concentrarsi nell’elevazione dell’efficienza dei mezzi fondamentali di produzione, proprietà di tutto il popolo, e liberarsi dell’amministrazione di attività non strategiche per il paese.
Questo, d’altra parte, favorirà lo Stato nel continuare ad assicurare a tutta la popolazione, nello stesso modo e in maniera gratuita, i servizi di Salute ed Educazione, a proteggerli in modo adeguato attraverso i sistemi di Sicurezza e Assistenza Sociale, a promuovere la cultura fisica e lo sport in tutte le loro manifestazioni e a difendere l’identità e la conservazione del patrimonio culturale e della ricchezza artistica, scientifica e storica della nazione.
Lo Stato Socialista avrà allora maggiori possibilità di rendere realtà il pensiero martiano che guida la nostra Costituzione: “Io voglio che la prima Legge della nostra Repubblica sia il culto dei cubani alla piena dignità dell’uomo”.
Tocca allo Stato difendere la sovranità e l’indipendenza naziona-le, valori che rendono orgogliosi i cubani, e continuare a garantire l’ordine pubblico e la sicurezza della cittadinanza che distinguono Cuba per essere uno dei paesi più sicuri e tranquilli del mondo, senza narcotraffico né crimine organizzato, senza mendicanti bambini o adulti, senza lavoro infantile, senza cariche di cavalleria contro i lavoratori, gli studenti e altri settori della popolazione, senza esecuzioni extra-giudiziali, carceri clandestine né torture, nonostante le campagne senza alcuna prova che si organizzano costantemente contro di noi, ignorando intenzionalmente che tutte queste realtà sono, in primo luogo, diritti umani fondamentali, ai quali la maggioranza degli abitanti del pianeta non può neppure aspirare.
Ora, per poter garantire tutte queste conquiste del socialismo senza tornare indietro rispetto alla sua qualità e portata, i programmi sociali devono caratterizzarsi per una maggiore razionalità, in modo che con minori costi si ottengano risultati superiori e sostenibili nel futuro e che oltretutto mantengano una correlazione adeguata con la situazione economica generale della nazione.
Come si può capire dai Lineamenti, queste idee non sono neanche incompatibili con l’importanza che diamo alla precisa separazione del ruolo che devono giocare nell’economia gli organismi statali da una parte e le imprese dall’altra, questione che per decenni è stata turbata da confusione e improvvisazioni e che ora siamo obbligati a risolvere a medio raggio nella cornice del perfeziona-mento e rafforzamento dell’istituzionalità.
La piena comprensione di questi concetti ci permetterà di avanzare con forza e senza ritorni nella lenta decentralizzazione di facoltà, dal Governo centrale verso le amministrazioni locali e dai ministeri e altre entità nazionali a favore dell’autonomia crescente dell’impresa statale socialista. Il modello eccessivamente centralizzato che caratterizza attualmente la nostra economia dovrà passare, con ordine e disciplina e con la partecipazione dei lavoratori, verso un sistema decentralizzato in cui prevarrà la pianificazione ma che non ignorerà le tendenze presenti sul mercato, cosa che contribuirà alla flessibilizzazione e permanente attuazione del piano.
L’esperienza pratica ci ha insegnato che l’eccesso di centralizza-zione cospira contro lo sviluppo dell’iniziativa nella società e in tutta la catena produttiva, dove i quadri si abituano al fatto che tutto sia deciso “dall’alto” e, di conseguenza, smettono di sentirsi responsabili rispetto ai risultati dell’organizzazione che dirigono.
I nostri “impresari”, salvo eccezioni, si sono accomodati nella tranquillità e nella sicurezza “dell’attesa” e hanno sviluppato un’allergia per il rischio che fa parte dell’azione di prendere decisioni, o quello che è lo stesso: far bene o sbagliare.
Questa mentalità dell’inerzia deve essere sradicata definitivamen-te per sciogliere definitivamente i nodi che attanagliano lo sviluppo delle forze produttive. È un compito di importanza strategica e non è casuale che sia compreso, in un modo o nell’altro, nei 24 lineamenti del capitolo PRIMO, “Modello di Gestione Economica”.
In questa materia non possiamo ammettere improvvisazioni o fretta. Per decentralizzare e cambiare la mentalità, è requisito obbliga-torio elaborare il quadro di regole che definisca con chiarezza le facoltà e le funzioni di ogni anello, dalla nazione alla base, ac-compagnate inevitabilmente dai procedimenti di controllo contabi-le, finanziario e amministrativo. Stiamo già avanzando in questa direzione. Da quasi due anni sono iniziati gli studi per perfezio-nare il funzionamento, così come la struttura e la composizione degli organi di Governo ai differenti livelli di direzione, otte-nendo come risultato la messa in vigore del Regolamento de Consiglio dei Ministri, la riorganizzazione del metodo di lavoro con i quadri dello Stato e del Governo, l’introduzione di processi di pianificazione delle attività principali, l’organizzazione delle basi organizzative per disporre di un sistema di informazioni del Governo, effettivo e opportuno, con la sua infrastruttura di infocomunicazioni e la creazione, a carattere sperimentale, in conformità a una nuova concezione funzionale e strutturale, delle provincie di Mayabeque e Artemisa.
Per iniziare a decentralizzare le competenze, bisognerà che parte dei quadri statali e imprenditoriali riscattino il noto ruolo che deve giocare il contratto nell’economia, esattamente com’è espres-so nel lineamento n.1. Anche questo contribuirà a ristabilire la disciplina e l’ordine nelle entrate e nelle uscite, materia con voti insoddisfacenti in buona parte della nostra economia. Come sottoprodotto non meno importante, l’uso adeguato del contratto come strumento regolatore delle interrelazioni tra i differenti attori economici, diventerà un effettivo antidoto con l’estesa a-bitudine del “riunionismo”, o, che è la stessa cosa, l’eccesso di riunioni, esami e altre attività collettive, frequentemente presiedute dal livello superiore e con l’assistenza improduttiva di numerosi partecipanti, per far compiere ciò che le due parti di un contratto hanno firmato come dovere e diritto e che - per mancanza di richiesta - mai hanno reclamato il suo compiersi davanti alle istanze fissate dallo stesso documento contrattuale. Relativamente a questo si devono sottolineare 19 opinioni, in 9 provincie, che reclamano la necessità di diminuire allo stretto necessario il numero delle riunioni e la loro durata. Riprenderò più avanti questo tema, quando parlerò del funzionamento del Partito.
Siamo convinti che il compito che abbiamo davanti, su questo ed altri problemi legali all’attualizzazione del Modello Economico, sia irto di complessità ed interrelazioni che toccano, in maggiore o minor misura, tutte le sfaccettature della società nel suo insieme e per questo sappiamo che non si tratta di una questione da risolvere in un giorno, e neppure in un anno e che avrà bisogno per lo meno di un quinquennio per sviluppare la sua implementazio-ne con l’armonia e la completezza richieste e che quando lo si re-alizzi, è necessario non fermarci più e lavorare al suo perfezionamento in modo permanente per essere in condizioni di superare le nuove sfide che lo sviluppo ci lancerà. Facendo una similitudine, si potrebbe dire che per un certo periodo di tempo, nella misura in cui si modifica lo scenario, il paese deve cucirsi un vestito su misura.
Non ci facciamo illusione che i Lineamenti e le misure per imple-mentare il Modello Economico, da soli, costituiscano il rimedio universale di tutti i nostri mali. Sarà ugualmente necessario ele-vare ad un livello superiore la sensibilità politica, il senso comune, l’intransigenza davanti alle violazioni e alla disciplina di tutti, in primo luogo dei quadri direttivi.
Quanto sopra è evidenziato efficacemente nelle deficienze presentatesi, mesi fa, nella strumentazione di alcune misure puntuali, non complesse né di grande rilievo, a causa degli ostacoli burocratici e della mancanza di previsione degli organi locali di governo, manifestatisi a riguardo dell’ampliamento del lavoro per conto proprio.
Non è inutile ripetere che i nostri quadri devono abituarsi a lavorare con le indicazioni che emettono gli organismi appositi e smettere l’irresponsabile vizio di accantonarli. La vita ci ha insegnato che non basta promulgare una buona norma giuridica, non importa che si tratti di una legge o di una semplice risoluzione. È anche indispensabile preparare chi è incaricato di metterla in pratica, controllarlo e verificare il risultato pratico di ciò che si è stabilito. Ricordatevi che non c’è peggior legge di quella che non si mette in pratica e che non si rispetta.
Il sistema di scuole di Partito a livello provinciale e nazionale, in parallelo con l’obbligato ri-orientamento dei suoi programmi, giocherà un ruolo da protagonista nella preparazione e riqua-lificazione continua in questi campi dei quadri del Partito, dell’amministrazione e imprenditoriali, con l’apporto delle istituzioni specializzate del settore dell’educazione e della valida collaborazione degli aderenti all’Associazione Nazionale degli Economisti e Contabili, come è stato dimostrato durante la discussione dei Lineamenti.
Nello stesso tempo, col proposito di gerarchizzare appropriatamente l’introduzione dei cambi richiesti, l’Ufficio Politico ha deciso di proporre al Congresso la costituzione di una Commissione Permanente del Governo per l’Implementazione e lo Sviluppo, subordinata al Presidente dei Consiglio di Stato e dei Ministri che, senza ledere le funzioni che corrispondono ai rispettivi Organismi dell’Amministrazione Centrale dello Stato, avrà la responsabilità di controllare, verificare e coordinare le azioni di tutti quelli coinvolti in questa attività, così come di proporre l’introduzione di nuovi lineamenti, cosa che sarà assolutamente necessaria nel futuro.
In questo senso abbiamo considerato conveniente ricordare l’orientamento che il compagno Fidel includeva nel suo Rapporto Centrale al Primo Congresso del Partito, ormai quasi 36 anni fa, sul Sistema di Direzione dell’Economia, che allora ci proponevamo di realizzare e che per la nostra mancanza di sistematicità, controllo e pretese si è guastato, cito: “Che i dirigenti del Partito, e soprattutto dello Stato facciano cosa propria e impegno d’onore la sua realizzazione, prendano coscienza della sua impor-tanza vitale e della necessità di lottare con tutte le forze per applicarlo conseguentemente, sempre sotto la direzione della Commissione Nazionale creata per questo…” e concludeva “… divulgare ampiamente il sistema, i suoi principi e i suoi meccanismi attraverso una letteratura alla portata delle masse, perché diventi una questione che i lavoratori dominino. Il risultato del sistema dipenderà in misura decisiva dal dominio che di esso abbiano i lavoratori” (fine della citazione).
Non mi stancherò di ripetere che in questa Rivoluzione tutto è già stato detto e il miglior esempio di ciò sono le idee di Fidel che il giornale Granma, Organo Ufficiale del Partito, ha pubblicato nel corso di questi ultimi anni.
Ciò che approveremo in questo Congresso non può soffrire la stessa sorte delle direttive precedenti, quasi tutte dimenticate senza essere realizzati. Ciò che approviamo in questa e in future oc-casioni deve costituire una guida per la condotta e l’azione dei militanti e dei dirigenti del Partito e, per garantire la sua materializzazione, rispecchiarsi negli strumenti giuridici che tocca stabilire all’Assemblea Nazionale del Potere Popolare, al Consiglio di Stato o al Governo, secondo le loro facoltà legislative, in accordo alla Costituzione.
È opportuno chiarire, per evitare interpretazioni sbagliate, che le risoluzioni del congresso e di altri organi della direzione del Partito non diventano in se stesse leggi, ma sono orientamenti di carattere politico e morale, e che compete al Governo, che è quello che amministra, regolare la loro applicazione.
Per questa ragione la Commissione Permanente di Implementazione e Sviluppo comprenderà un Sottogruppo Giuridico composto da specialisti di alta qualifica, che coordinerà con gli organismi corrispondenti, in stretto rispetto all’istituzionalità, le modifiche richieste sul piano legale per accompagnare l’attualizzazione del Modello Economico e Sociale, semplificando e armonizzando il contenuto di centinaia di risoluzioni ministeriali, accordi di Governo, decreti-legge e leggi e di conseguenza proporre, al momento opportuno, l’introduzione di modifiche pertinenti alla stessa Costituzione della Repubblica.
Senza pensare di avere elaborato tutto, si trovano in fase avanza-ta le norme giuridiche relative alla compravendita di abitazioni e automobili, la modifica del Decreto Legge 259 per ampliare i limiti delle terre oziose da attribuire in usufrutto a quei produttori agricoli con risultati significativi, così come la concessione di crediti ai lavoratori per conto proprio e alla popolazione in generale.
Nello stesso modo consideriamo conveniente proporre al Congresso che il futuro Comitato Centrale includa, come primo punto, in tut-ti i suoi plenum, che dovranno celebrarsi non meno di due volte l’anno, un rapporto sullo stato dell’implementazione delle diret-tive adottate in questa riunione sull’attualizzazione del Modello Economico, e come secondo, l’analisi sul compimento del piano dell’economia, che sia del primo semestre o dell’anno in questio-ne.
Nello stesso modo raccomanderemo all’Assemblea Nazionale del Potere Popolare di utilizzare un simile sistema nelle sue sessioni ordinarie, col proposito di potenziare il protagonismo inerente alla sua condizione di organo supremo del potere dello Stato.
Partendo dalla profonda convinzione che nulla di ciò che facciamo è perfetto e che quello che oggi sembra tale non lo sarà domani a fronte di nuove circostanze, gli organi superiori del Partito e del Potere Statale e Governativo devono mantenere una stretta e sistematica vigilanza su questo processo ed essere capaci di in-trodurre opportunamente i correttivi appropriati per correggere gli effetti negativi.
Si tratta, compagne e compagni, di stare all’erta, mettere i piedi e l’orecchio a terra e quando sorga un problema pratico in qual-siasi sfera o luogo, i quadri ai diversi livelli devono agire con prontezza e volontà e non tornare a lasciare al tempo la sua solu-zione, dato che per nostra stessa esperienza sappiamo che l’unica cosa che succede è che si complica ancora di più.
Allo stesso modo dobbiamo coltivare e preservare l’interrelazione incessante con le masse, spogliata di qualsiasi formalismo, per retroalimentarci efficacemente delle loro preoccupazioni e insod-disfazioni e perché siano direttamente esse quelle che indicano il ritmo dei cambiamenti che si devono introdurre.
L’attenzione a recenti incomprensioni, associate alla riorganizza-zione di alcuni servizi di base, dimostra che quando il Partito e il Governo - ognuno col proprio ruolo, con metodi e stili diversi – agiscono con rapidità e armonia facendosi carico delle preoccupazioni della popolazione e dialogano con questa con chiarezza e semplicità, si ottiene l’appoggio alla misura e si stimola la fiducia del popolo nei suoi dirigenti.
Per conseguire quanto sopra la stampa cubana, nei suoi differenti formati, è chiamata a giocare un ruolo decisivo nella chiarifica-zione e diffusione oggettiva, costante e critica dell’attualizzazione del Modello Economico, in modo che con articoli e lavori intelligenti e concreti, in un linguaggio accessibile a tutti, si continui a stimolare nel paese una cultura su questi temi.
Su questo fronte è necessario anche lasciarsi indietro, definitivamente, l’abitudine al trionfalismo, lo strepito e il formalismo nell’affrontare l’attualità nazionale e produrre materiali scritti e programmi televisivi e radio che, per il loro contenuto e stile, catturino l’attenzione e stimolino il dibattito nell’opinione pubblica, cosa che presume elevare la professionalità e le conoscenze dei nostri giornalisti; anche se è vero che, nonostante le risoluzioni adottati dal Partito sulla politica informativa, nella maggior parte delle volte essi non hanno l’accesso opportuno all’informazione né il contatto frequente coi quadri e gli specialisti che si occupano delle tematiche in questione. La somma di questi fattori spiega la diffusione, in non poche occasioni, di materiale noioso, improvvisato e superficiale.
Non meno importante sarà l’apporto che i nostri mezzi di informa-zione di massa devono apportare in favore della cultura nazionale e del recupero dei valori civici nella società.
Passando ad un altro problema vitale, che ha una relazione molto stretta con l’attualizzazione del Modello Economico e Sociale del paese e che deve aiutare la sua materializzazione: ci proponiamo di celebrare una Conferenza Nazionale del Partito, per arrivare a delle conclusioni rispetto alle modifiche dei suoi metodi e stile di lavoro, con l’obiettivo di rendere concreto nel suo agire, oggi e sempre, il contenuto dell’art. 5 della Costituzione della Repub-blica dove si stabilisce che l’organizzazione di partito è l’avanguardia organizzata della nazione cubana e la forza dirigen-te superiore della società e dello Stato.
Inizialmente avevamo pensato di convocare questa Conferenza per dicembre 2011 tuttavia, tenendo in conto le complicazioni proprie dell’ultimo mese dell’anno e la convenienza di contare con una prudente riserva di tempo per puntualizzare i dettagli, abbiamo ritenuto di realizzare questo evento alla fine del gennaio 2012.
Già lo scorso 18 dicembre ho spiegato davanti al Parlamento che, a causa delle deficienze presentate dagli organi amministrativi del Governo nel compimento delle loro funzioni, il Partito per anni è stato coinvolto in compiti che non gli corrispondevano, limitando e compromettendo il suo ruolo.
Siamo convinti che l’unica cosa che può far fallire la Rivoluzione e il socialismo a Cuba, mettendo a rischio il futuro della nazione, è la nostra incapacità di superare gli errori che abbiamo fatto per oltre 50 anni e quelli nuovi che potremmo fare.
La prima cosa che dobbiamo fare per correggere un errore è ricono-scerlo coscientemente in tutta la sua dimensione e il fatto reale è che, nonostante che fin dai primi ani della Rivoluzione Fidel abbia diviso con chiarezza i ruoli del Partito e dello Stato, non siamo stati conseguenti nel realizzare le sue istruzioni e ci sia-mo lasciati trasportare dalle urgenze e dall’improvvisazione.
Quale esempio migliore di quello espresso dal leader della Rivolu-zione in una data tanto di buon’ora come il 26 marzo 1962, quando si presentò davanti alla radio e alla televisione per spiegare al popolo i metodi e il funzionamento delle Organizzazioni Rivoluzio-narie Integrate (ORI) che precedettero il Partito, quando disse: “… Il Partito dirige, dirige attraverso tutto il Partito e dirige attraverso l’amministrazione pubblica. Un funzionario deve avere autorità. Un ministro deve avere autorità, un amministratore deve avere autorità, discutere tutto quello che sia necessario con il Consiglio Tecnico Consulente (oggi, Consiglio di Direzione), discutere con le masse operaie, discutere con il nucleo, ma decide l’amministratore, perché la responsabilità è sua…” (fine della ci-tazione). Questo orientamento venne dato 49 anni fa.
Esistono concetti molto ben definiti e che nell’essenza conservano piena validità per raggiungere l’esito in questa direzione, nono-stante il tempo trascorso da quando Lenin li formulava, già quasi cento anni fa, che devono essere ripresi decisamente, secondo le caratteristiche e l’esperienza del nostro paese.
Nel 1973, nella cornice del processo preparatorio del Primo Con-gresso, fu stabilito che il Partito dirige e controlla attraverso vie e metodi che gli sono propri e che differiscono dalle vie e dai metodi di cui dispone lo Stato per esercitare la sua autorità. Le direttive, le risoluzioni e le disposizioni del Partito non hanno direttamente carattere giuridico obbligatorio per tutti i cittadini, ma devono essere compiute dai militanti in base alla loro coscienza, perché questo non dispone di alcun apparato di forza e coercizione.
Questa è una differenza importante del ruolo e dei metodi del Par-tito e dello Stato.
Il potere del Partito riposa essenzialmente nella sua autorità mo-rale, nell’influenza che esercita sulle masse e nella fiducia che ha in esso il popolo. L’azione del Partito ha la sua base, prima di tutto, nella convinzione che proviene dai suoi atti e dalla giustezza della sua linea politica.
Il potere dello Stato parte dalla sua autorità morale, che consi-ste nella forza delle istituzioni incaricate di esigere da tutti che si compiano le norme giuridiche che emana.
Il danno che provoca la confusione in questi concetti si esprime, in primo luogo, nell’indebolimento del lavoro politico che il Partito deve realizzare e, in secondo luogo, nel deterioramento dell’autorità dello Stato e del Governo, perché i funzionari smettono di sentirsi responsabili delle loro decisioni.
Si tratta, compagne e compagni, di spogliare per sempre il Partito di tutte le attività non proprie del suo carattere di organizzazione politica; in poche parole, liberarsi di funzioni amministrative e dedicarci, ognuno, a quello che ci tocca.
Molto legate con queste concezioni errate sono le deficienze nella politica dei Quadri di Partito, che anch’essa dovrà essere oggetto di analisi della citata Conferenza nazionale. Non poche lezioni amare ci hanno lasciato gli errori sofferti in questo ambito a causa della mancanza di rigore e di visione che hanno aperto le porte alla promozione accelerata di quadri inesperti e immaturi a colpi di simulazione e opportunismo, attitudini alimentate anche dall’errato concetto che per occupare un posto di direzione si esigeva, come tacito requisito, militare nel Partito o nella Gio-ventù Comunista.
Questa pratica va decisamente abbandonata e, salvo per le responsabilità proprie delle organizzazioni politiche, la militanza non deve significare una condizione vincolante all’esercizio di un posto di direzione nel Governo o nello Stato, ma la preparazione per esercitarlo e la disposizione a riconoscere come proprie la politica e il Programma del Partito. I dirigenti non escono dalle scuole né dall’amicizia favoreggiatrice, si formano nella base, esercitando la professione per cui hanno studiato, a contatto con i lavoratori e devono salire gradualmente in forza della leadership che solo l’essere d’esempio nei sacrifici e nei risultati conferisce loro. In questo senso consi-dero che la direzione del Partito, a tutti i livelli, deve farsi una severa autocritica e adottare le misure necessarie per evitare che riappaiano tali tendenze.
Ciò, a sua volta, è applicabile all’insufficiente sistematicità e volontà politica di assicurare la promozione a incarichi decisio-nali di donne, neri, meticci e giovani, sulla base del merito e delle condizioni personali.
Non aver risolto quest’ultimo problema in più di mezzo secolo è una vera vergogna, che porteremo nelle nostre coscienze per molti anni, perché semplicemente non siamo stati conseguenti con gli innumerevoli orientamenti che, dai primi giorni del trionfo rivoluzionario e nel corso degli anni, ci ha dato il compagno Fidel, e perché oltretutto la soluzione di queste disuguaglianze formava parte delle risoluzioni adottate dal fondamentale Primo Congresso del Partito e dei quattro che gli succedettero, e non le abbiamo compiute.
Argomenti come questi, che definiscono il futuro, mai più dovranno essere guidati dalla spontaneità, ma dalla previsione e dalla più ferma volontà politica di preservare e perfezionare il socialismo a Cuba.
Nonostante non abbiamo mai smesso di fare tentativi per promuovere giovani agli incarichi principali, la vita ci ha dimostrato che non sempre le selezioni sono state centrate. Oggi affrontiamo le conseguenze di non contare con una riserva di sostituti debitamen-te preparati, con sufficiente esperienza e maturità per assumere i nuovi e complessi compiti di direzione nel Partito, nello Stato e nel Governo, questione cui dobbiamo dare soluzione gradualmente, nel corso del quinquennio, senza precipitazioni né improvvisazio-ni, ma cominciando appena il Congresso sia finito.
A questo contribuirà, inoltre, il rafforzamento dello spirito democratico e il carattere collettivo del funzionamento degli organi di direzione del Partito e del potere statale e governativo, mentre si garantisca il ringiovanimento sistematico in tutta la catena di cariche amministrative e di partito, dalla base fino ai compagni che occupano le responsabilità principali, senza escludere l’attuale Presidente dei Consigli di Stato e dei Ministri né il Primo Segretario del Comitato Centrale che risulti eletto in questo Congresso.
Al riguardo siamo giunti alla conclusione che sia raccomandabile limitare, ad un massimo di due periodi consecutivi di cinque anni, l’esercizio delle cariche politiche e statali fondamentali. Questo è possibile e necessario nelle circostanze attuali, ben diverse da quelle dei primi decenni della Rivoluzione, non ancora consolidata e oltretutto sottomessa a costanti minacce e aggressioni.
Il rafforzamento sistematico della nostra istituzionalità sarà, allo stesso tempo, condizione e garanzia imprescindibile perché questa politica di ringiovanimento dei quadri non ponga mai a ri-schio la continuità del socialismo a Cuba.
In questa sfera stiamo cominciando con un primo passo nel ridurre sostanzialmente la nomenclatura degli incarichi di direzione, che le istanze municipali, provinciali e nazionali del Partito dove-vano approvare e delegare ai dirigenti ministeriali e delle imprese le facoltà per la nomina, la sostituzione e l’applicazione di misure disciplinari a gran parte dei dirigenti subordinati, assistiti dalle rispettive commissioni di quadri, nelle quali il Partito è rappresentato ed esprime la sua opinione, ma che vengono presiedute da un dirigente amministrativo, che è quello che decide. L’opinione dell’organizzazione di partito è preziosa ma il fattore determinante è il dirigente, visto che dobbiamo preservare e potenziare la sua autorità, in armonia con il Partito.
Quanto alla vita interna, tema che allo stesso modo inviamo all’analisi della Conferenza, pensiamo che dobbiamo meditare sugli effetti controproducenti di vecchie abitudini che nulla hanno a che vedere con il ruolo di avanguardia dell’organizzazione nella società, tra le quali la superficialità e il formalismo con cui si sviluppa il lavoro politico-ideologico, l’utilizzazione di metodi e termini antiquati che non prendono in considerazione il livello di istruzione dei militanti, la realizzazione di riunioni eccessivamente lunghe e fatte spesso all’interno della giornata lavorativa, che deve essere sacra, in primo luogo per i comunisti; con agende molto spesso inflessibili dettate dagli organismi superiori, senza differenziare lo scenario in cui si sviluppa la vita dei militanti, le frequenti convocazioni ad attività commemorative formali, con discorsi ancor più formali e l’organizzazione del lavoro volontario nei giorni di riposo senza contenuto reale né debita coordinazione, generando spese inutili e diffondendo il disgusto e l’apatia tra i nostri compagni.
Questi criteri sono applicabili anche all’emulazione, movimento che con gli anni è andato perdendo la sua essenza di mobilitazione dei collettivi operai nel trasformarsi in un meccanismo alternati-vo di distribuzione di stimoli morali e materiali, non sempre giu-stificati da risultati concreti e che in non poche occasioni ha generato frodi nell’informazione.
La Conferenza dovrà, inoltre, considerare le relazioni del Partito con l’Unione dei Giovani Comunisti e le organizzazioni di massa, per spogliarle degli schematismi e della routine e perché tutte riscattino la loro ragione di essere, adeguata alle condizioni at-tuali.
In sintesi, compagne e compagni, la Conferenza nazionale si incen-trerà sul potenziamento del ruolo del Partito, come massimo espo-nente della difesa degli interessi del popolo cubano.
Per raggiungere questa meta è fondamentale cambiare la mentalità, lasciare da parte il formalismo e le fanfaronate nelle idee e nel-le azioni o – che è lo stesso – sradicare l’immobilismo fondato su dogmi e consegne vuote per arrivare all’essenza più profonda delle cose, come dimostrano brillantemente nell’opera teatrale “Abraca-dabra” i bambini della compagnia “La Colmenita”.
Solo così il Partito Comunista di Cuba potrà essere in condizioni di essere, per tutti i tempi, il degno erede dell’autorità e della fiducia illimitata del popolo nella Rivoluzione e nel suo unico Comandante in Capo Fidel Castro Ruz, il cui apporto morale e guida indiscutibile non dipendono da alcun incarico e che dalla sua posizione di soldato delle idee non ha smesso di lottare e di con-tribuire, con le sue riflessioni chiarificatrici e altre azioni, alla causa rivoluzionaria e alla difesa dell’Umanità di fronte ai pericoli che la minacciano.
A proposito della situazione internazionale, dedicheremo alcuni minuti a valutare la congiuntura esistente sul pianeta.
L’uscita dalla crisi economica che colpisce tutte le nazioni non si intravede, dato il suo carattere strutturale. I rimedi utiliz-zati dai potenti sono stati diretti a proteggere le istituzioni e le pratiche che le hanno dato origine e a scaricare il terribile peso delle conseguenze sui lavoratori nei loro territori e in par-ticolare nei paesi sottosviluppati. La spirale dei prezzi degli alimenti e del petrolio spingono centinaia di milioni di persone alla povertà estrema.
Gli effetti del cambio climatico sono ormai devastanti e la mancanza di volontà politica delle nazioni industriale impedisce di adottare le misure urgenti e imprescindibili per prevenire la catastrofe. Viviamo in un mondo convulso nel quale si succedono disastri naturali come i terremoti di Haiti, del Cile e del Giappone, mentre gli Stati Uniti portano avanti guerre di conquista in Iraq e Afganistan, che sono costate più di un milione di civili morti.
Movimenti popolari nei paesi arabi si ribellano contro governi corrotti ed oppressori, alleati degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Il triste conflitto in Libia, nazione sottomessa ad un brutale intervento militare della NATO, è servito un’altra volta come pretesto a questa organizzazione per eccedere i suoi limiti difensivi originali e a spandere su scala globale le minacce e gli interventi bellici a guardia di interessi geostrategici e dell’accesso al petrolio. L’imperialismo e le forze reazionarie interne cospirano per destabilizzare altri paesi, mentre Israele opprime e massacra il popolo palestinese nella totale impunità.
Gli Stati Uniti e la NATO inseriscono nelle loro dottrine l’interventismo aggressivo contro i paesi del Terzo Mondo per saccheggiare le loro risorse, impongono alle nazioni Unite il doppio binario e utilizzano in modo ogni volta più concertato i poderosi consorzi mediatici per nascondere o distorcere i fatti, secondo come conviene ai centri di potere mondiale, in una farsa ipocrita destinata ad ingannare l’opinione pubblica.
Nel mezzo di una complessa situazione economica, il nostro paese mantiene la cooperazione con 101 nazioni del Terzo Mondo. Ad Haiti il personale medico cubano, dopo aver compiuto 12 anni di intenso lavoro salvando vite, da gennaio 2010 affronta, insieme a collaboratori di altri paesi, le conseguenze del terremoto e della successiva epidemia di colera con dedizione ammirabile.
Alla Rivoluzione Bolivariana e al compagno Hugo Chàvez Frìas e-sprimiamo la più decisa solidarietà e impegno, coscienti dell’importanza del processo che vive il popolo venezuelano fra-tello per la Nostra America, nel Bicentenario della sua indipen-denza.
Continueremo a contribuire ai processi di integrazione dell’Alleanza Bolivariana per i popoli della Nostra America (ALBA), alla Unione del Sud (UNASUR) e della Comunità degli Stati Latinoamericani e dei caraibi (CELAC), che prepara la celebrazione a Caracas del suo vertice iniziale nel luglio del presente anno, il fatto istituzionale di maggiore importanza nel nostro emisfero durante l’ultimo secolo, perché per la prima volta tutti i paesi al sud del Rio Bravo si riuniranno tra loro. Ci incoraggiano questa America e questi Caraibi, ogni volta più uniti e indipendenti, per la cui solidarietà ringraziamo.
Continueremo a difendere il rispetto per il Diritto Internazionale e sosteniamo il principio di eguaglianza sovrana degli Stati e il diritto alla libera determinazione dei popoli. Rifiutiamo l’uso della forza, l’aggressione, le guerre di conquista, la spoliazione delle risorse naturali e lo sfruttamento dell’uomo.
Condanniamo il terrorismo in tutte le sue forme, in particolare il terrorismo di stato. Difenderemo la pace e lo sviluppo per tutti i popoli e lotteremo che per il futuro dell’Umanità.
Il governo nordamericano non ha cambiato la sua tradizionale politica diretta a screditare e ad abbattere la Rivoluzione; al contrario, ha continuato a finanziare progetti per promuovere direttamente la sovversione, provocare la destabilizzazione e interferire nei nostri affari interni. L’attuale amministrazione ha preso alcune misure positive, ma infinitamente limitate.
Il blocco economico, commerciale e finanziario degli Stati Uniti contro Cuba persiste e si è anche intensificato sotto l’attuale presidenza, in particolare nelle transazioni bancarie, ignorando la condanna quasi unanime della comunità internazionale, che si è sempre più massicciamente pronunciata per la sua eliminazione per 19 anni consecutivi.
Nonostante, a quanto pare, come si è reso evidente nella recente visita al Palazzo della Moneda a Santiago del Cile, ai governanti degli Stati Uniti non piaccia rifarsi alla storia nel trattare il presente e il futuro, è necessario ribadire che il blocco contro Cuba non è questione del passato, per cui ci vediamo obbligati a ricordare il contenuto di un memorandum segreto, declassificato nel 1991, del Sottosegretario Aggiunto di Stato per gli affari in-teramericani, Lester D. Mallory, del 6 aprile 1960, e cito: “La maggioranza dei cubani appoggia Castro… Non esiste un’opposizione politica effettiva… L’unico modo possibile per fargli perdere l’appoggio interno (al governo) è provocare la perdita delle spe-ranze e la sfiducia attraverso l’insoddisfazione economica e la penuria… Bisogna mettere in pratica rapidamente tutti i mezzi pos-sibili per indebolire la vita economica… negando a Cuba denaro e forniture col fine di ridurre i salari nominali e reali, con l’obiettivo di provocare fame, disperazione e il rovesciamento del governo” (fine della citazione).
Guardate la data del memorandum: 6 aprile 1960, quasi un anno e-satto prima dell’invasione di Playa Giròn.
Il memorandum in questione non nacque per iniziativa di quel fun-zionario, ma si inquadrava nella politica di rovesciamento della Rivoluzione, come il “Programma di Azione Occulta contro il regime di Castro”, approvato dal presidente Eisenhower il 17 marzo 1960, 20 giorni prima del citato memorandum, utilizzando tutti i mezzi possibili, dalla creazione di un’opposizione unificata, alla guer-ra psicologica, alle azioni clandestine di intelligence e alla preparazione in paesi terzi di forze paramilitari capaci di inva-dere l’isola.
Gli Stati Uniti hanno stimolato il terrorismo nelle città e quello stesso anno, prima di Playa Giròn, promossero la creazione di ban-de controrivoluzionarie armate, rifornite per aria e per mare, che commisero saccheggi e assassinii di contadini, di operai e di giovani alfabetizzatori fino alla loro distruzione definitiva nel 1965.
Noi cubani non dimenticheremo mai i 3.478 morti e i 2.099 feriti che sono stati vittime della politica del terrorismo di Stato.
Mezzo secolo di privazioni e sofferenze è passato per il nostro popolo, che ha saputo resistere e difendere la sua Rivoluzione e non è disposto ad arrendersi né a macchiare la memoria dei caduti, negli ultimi 150 anni, dall’inizio delle nostre lotte per l’indipendenza.
Il governo nord americano non ha smesso di dare riparo o proteggere noti terroristi, mentre prolunga la sofferenza e l’ingiusta prigione dei Cinque eroici lottatori antiterroristi cubani.
La sua politica verso Cuba non ha credibilità né ragione morale alcuna. Per cercare di giustificarla si sbandierano pretesti in-credibili che, nel diventare obsoleti, si cambiano a seconda della convenienza di Washington. Il governo degli Stati Uniti non do-vrebbe avere più alcun dubbio che la Rivoluzione cubana uscirà rafforzata da questo Congresso. Se desiderano continuare a restare attaccati alla loro politica di ostilità, blocco e sovversione, siamo preparati a continuare ad affrontarla.
Riaffermiamo la disponibilità al dialogo e accetteremo la sfida di sostenere una relazione normale con gli Stati Uniti in cui possiamo convivere in maniera civile con le nostre differenze. Sulla base del mutuo rispetto e della non ingerenza negli affari interni.
Allo stesso modo, manterremo in modo permanente la priorità della difesa, seguendo le istruzioni del compagno Fidel, quando nel suo Rapporto entrale al Primo Congresso, affermò (cito): “Finché esiste l’imperialismo, il Partito, lo Stato e il popolo presteranno la massima attenzione ai servizi di difesa. Non si trascurerà mai la vigilanza rivoluzionaria. La storia insegna con troppo eloquenza che coloro che dimenticano questo principio non sopravvivono all’errore”.
Nello scenario attuale e in quello prevedibile, conserva tutto il suo valore la concezione strategica della “Guerra di tutto il po-polo”, che si arricchisce e perfeziona in modo costante. Il suo sistema di comando e di direzione si è rafforzato, aumentando la capacità di reagire davanti a diverse situazioni eccezionali pre-viste.
La capacità difensiva del paese ha acquisito una dimensione supe-riore, tanto sul piano qualitativo quanto quantitativo. Partendo dalle nostre risorse disponibili, abbiamo elevato lo stato tecnico e di mantenimento così come la conservazione degli armamenti e abbiamo proseguito lo sforzo nella produzione e in particolare nella modernizzazione della tecnica militare, tenendo conto dei suoi prezzi proibitivi sul mercato mondiale. In questa sfera è giusto riconoscere l’apporto di decine di istituzioni, civili e militari, che hanno dimostrato le enormi potenzialità scientifiche, tecnologiche produttive che la Rivoluzione ha creato.
Il grado di preparazione del territorio nazionale, come teatro di operazioni militare, è aumentato significativamente, l’armamento fondamentale è protetto così come una parte importante delle trup-pe, degli organi di direzione, così come la popolazione.
È stata realizzata l’infrastruttura di comunicazione che assicura il funzionamento stabile del comando ai diversi livelli. Sono sta-te aumentate le riserve materiali di ogni tipo, con un maggior scaglionamento e una maggiore protezione.
Le Forze Armate Rivoluzionarie, o ciò che è lo stesso, il popolo in uniforme, dovranno continuare il loro permanente perfezionamen-to e preservare davanti alla società l’autorità e il prestigio conquistati per la loro disciplina e il loro ordine nella difesa del popolo e del socialismo.
Affronteremo ora un altro aspetto dell’attualità, non meno signi-ficativo.
Il Partito deve essere convinto che, al di là delle richieste materiali e anche di quelle culturali, nel nostro popolo esiste una diversità di concetti e idee sulle proprie necessità spirituali. Sono molte le idee su questo tema dell’Eroe Nazionale José Martì, uomo che sintetizzava questa congiunzione di spiritualità e sentimento rivoluzionario.
Su questo tema Fidel si è espresso molto presto, nel 1954 dalla prigione, ricordando il martire del Moncada Renato Guitart, (cito): “La vita fisica è effimera, passa inesorabilmente, com’è passata quella di tante e tante generazioni di uomini, come passe-rà in breve quella di ognuno di noi. Questa verità dovrebbe inse-gnare a tutti gli esseri umani che al di sopra di loro stanno i valori immortali dello spirito. Che senso ha quella senza questi? Che cos’è allora vivere? Come potranno morire coloro che, avendolo capito, la sacrificano generosamente per il bene e la giustizia!”. Questi valori sono sempre stati presenti nel suo pensiero, e così lo ha riaffermato nel 1971 riunendosi con un gruppo di sacerdoti cattolici a Santiago del Cile (cito): “Io vi dico che ci sono diecimila volte più cose in comune nel cristianesimo con il comunismo di quelle che ci possono essere con il capitalismo”. A questa idea tornerà parlando con i membri delle chiese cristiane in Giamaica nel 1977, quando disse: “Bisogna lavorare insieme perché quando l’idea politica trionfi, l’idea religiosa non rimanga da parte, non appaia nemica dei cambiamenti. Non ci sono contraddizioni tra i propositi della religione e i propositi del socialismo” (fine della citazione).
L’unità tra la dottrina e il pensiero rivoluzione in relazione al-la fede e ai credenti ha le sue radici nei fondamenti stessi della nazione che, affermando il suo carattere laico, propugnava come principio irrinunciabile l’unione della spiritualità con la Patria che ci hanno lasciato in eredità Padre Félix Varela e gli enuncia-ti pedagogici di José de la Luz y Caballero, che fu categorico nell’affermare: “Preferirei, lo dico, che crollassero le istituzioni degli uomini – re e imperatori – gli astri stessi del firmamento, prima di veder cadere dal cuore dell’uomo il sentimento di giustizia, questo sole del mondo morale”.
Nel 1991 in IV Congresso del partito decise di modificare l’interpretazione degli statuti che limitava l’ingresso nell’organizzazione dei rivoluzionari credenti.
La giustezza di questa decisione è stata confermata dal ruolo che hanno giocato i leader e i rappresentanti delle diverse istituzio-ni religiose nei vari aspetti dei problemi nazionali, compresa la lotta per il ritorno del bimbo Eliàn in Patria, in cui si è particolarmente segnalato il Consiglio delle Chiese di Cuba.
Ciò nonostante, è necessario continuare ad eliminare qualsiasi pregiudizio che impedisca di affratellare nella virtù e nella di-fesa della nostra Rivoluzione tutte e tutti i cubani, credenti o no, tutti coloro che fanno parte delle chiese cristiane, tra cui sono comprese quella cattolica, le ortodosse russe e greche, le evangeliche e le protestanti; allo stesso modo delle religioni cu-bane di origine africana, spiritiste, ebrea, islamica, buddista e le fraternità, tra le altre. Per ognuna di esse la Rivoluzione ha avuto gesti di apprezzamento e di concordia.
L’indimenticabile Cintio Vitier, quello straordinario poeta e scrittore che fu deputato della nostra Assemblea Nazionale, con la forza della penna e della sua etica martiana, cristiana e profon-damente rivoluzionaria, ci ha lasciato avvertimenti per il presente e la posterità che dobbiamo ricordare.
Scriveva Cintio: “Ciò che è in pericolo, lo sappiamo, è la nazione stessa. La nazione è già inseparabile dalla Rivoluzione che dal 10 ottobre 1868 la costituisce e non ha altra alternativa: o è indi-pendente o smette di essere in assoluto. Se la Rivoluzione fosse sconfitta, cadremmo nel vuoto storico che il nemico ci augura e ci prepara, che persino all’elemento più semplice del popolo sa di abisso”.
Continua Cintio: “Alla sconfitta si può arrivare, lo sappiamo, per l’intervento del blocco, per il deterioramento interno e per le tentazioni imposte dalla nuova situazione egemonica del mondo”. Dopo aver affermato che “siamo nel momento più difficile della no-stra storia”, ha detto “obbligata a battersi con l’insensatezza del mondo cui fatalmente appartiene, sempre minacciata dall’insieme di oscure cicatrici secolari, implacabilmente osteggiata dalla nazione più potente del pianeta, vittima anche di sbagli autoctoni o importati che mai nella storia si commettono impunemente, la nostra piccola isola si stringe e si dilata, sistola e diastola, come una scintilla di speranza per sé e per tutti” (fine della citazione).
Dobbiamo riferirci al processo, appena concluso, di scarcerazione di prigionieri controrivoluzionari, di coloro che, in tempi difficili e amari per la Patria, hanno cospirato contro di lei al servizio di una potenza straniera.
Per decisione sovrana del nostro Governo, sono stati liberati sen-za aver scontato completamente la loro pena. Abbiamo potuto farlo direttamente e attribuirci il vero merito di ciò che decidevamo considerando la forza della Rivoluzione, tuttavia lo abbiamo fatto nel quadro di un dialogo di mutuo rispetto, lealtà e trasparenza con l’alta gerarchia della chiesa cattolica, che ha contribuito col suo impegno umanitario perché questa vicenda si concludesse con armonia e i cui allori, in ogni caso, vanno riconosciuti a questa istituzione religiosa. I rappresentanti di questa Chiesa hanno manifestato i loro punti di vista, non sempre coincidenti con i nostri, ma costruttivi. Questo, almeno, è il nostro bilan-cio, dopo le lunghe conversazioni con il Cardinale Jaime Ortega e il Presidente della Conferenza Episcopale Monsignor Dionisio Gar-cìa.
Con questa azione abbiamo favorito il consolidamento del più pre-zioso lascito della nostra storia e del processo rivoluzionario: l’unità della nazione.
Così dobbiamo ricordare il contributo del precedente Ministri degli Affari Esteri e della Cooperazione di Spagna, Miguel Angel Moratinos, che ha aiutato l’impegno umanitario della chiesa, in modo che coloro che avevano manifestato il desiderio e accettato l’idea, potessero viaggiare all’estero insieme ai loro familiari. Altri hanno deciso di restare a Cuba.
Abbiamo sopportato pazientemente le implacabili campagne di discredito in materia di diritti umani, concertate dagli Stati Uniti e da vari paesi dell’Unione Europea, che ci chiedono niente meno che la resa incondizionata e la distruzione del nostro regime socialista e incitano, consigliano e aiutano i mercenari interni a disobbedire alla legge.
Al riguardo, è necessario chiarire che quello che non faremo mai è negare al popolo il diritto di difendere la sua Rivoluzione, dato che la difesa dell’indipendenza, delle conquiste del socialismo e delle nostre piazze e strade continuerà ad essere il primo dovere di tutti i patrioti cubani.
Ci aspettano giorni e anni di intenso lavoro e di enorme responsabilità per preservare e sviluppare, su basi ferme e sostenibili, il futuro socialista e indipendente della Patria.
Finisce qui il Rapporto centrale al VI Congresso. Molte grazie.
Raùl Castro Ruz
|
7 novembre 2007 | redazione |
90 Rivoluzione d'Ottobre | |
KKE |
25 novembre 2006 | redazione |
Internazionalismo | |
Incontro
internazionale dei Partiti comunisti e operai a Lisbona Comunicato
stampa conclusivo
Incontro
di Lisbona 10-12 novembre 2006: Partiti partecipanti Lisbona 10-12
novembre 2006: Incontro Internazionale dei Partiti Comunisti e Operai Appello
contro il militarismo e la guerra, per la libertà, la democrazia, la pace e
il progresso sociale (approvato
da tutti i partiti presenti) All’inizio
del XXI secolo, in un contesto denso di incertezza e pericolo a causa del
capitalismo, vale la pena sottolineare che vi è anche un reale potenziale di
liberazione. Quindici anni dopo la scomparsa dell’URSS, l’offensiva
globale dell’imperialismo ha portato nell’intero pianeta più guerra, più
militarismo, più violenza, più torture, più prigioni illegali, maggiori
restrizioni di libertà e più repressione antidemocratica. Sono già
centinaia di migliaia i morti per le tante guerre, mentre nuove aggressioni si
profilano all’orizzonte. Vi sono dichiarazioni sempre più esplicite
sull’utilizzo di armi nucleari nei teatri di guerra, così come sono state
utilizzate sempre più di frequente armi terribili quali fosforo bianco, bombe
a grappolo, armi all’uranio impoverito. La sovranità e l’indipendenza di
popoli e nazioni sono minacciate in misura sempre maggiore dalle potenze
imperialiste. Le spese militari sono in aumento, così come si registra una
crescente corsa agli armamenti. Emergono sempre maggiori restrizioni e
persecuzioni nei confronti delle forze democratiche e popolari. Razzismo,
xenofobia, fascismo e anticomunismo sono in aumento.
|
28 febbraio 2004 | ufficio stampa |
relazione | |
L’assassinio
di Spartaco Lavagnini e le lotte antifasciste
|
30 gennaio 2004 | redazione |
Michel Collon | |
WASHINGTON
HA TROVATO LA SOLUZIONE Loro
hanno trovato la soluzione! Dividiamo l'Iraq in tre mini Stati e quindi li
mettiamo uno contro l'altro. Questo vi fa ricordare qualcos'altro? Ma sicuro!
Non è la prima volta che qualcosa di analogo è successo. The New York Times ha
pubblicato un editoriale, il 25 novembre 2003, a firma di Leslie Gelb. Questo
signore è un uomo di grande influenza che, fino a poco tempo fa, è stato
presidente del Consiglio per gli Affari Esteri, un centro di elaborazioni
strategiche veramente importante che riunisce assieme la CIA, il Segretario di
Stato e i grossi calibri delle corporations multinazionali statunitensi. Farete
di nuovo un poco di pulizia etnica? Allora,
Gelb desidera spezzare l'Iraq trasformando il nord (a maggioranza curda) e il
sud (a maggioranza Sciita) in "regioni autonome, con confini tracciati
quanto più strettamente possibile lungo una linea di demarcazione etnica".
Ma questo metodo non ha provocato in Yugoslavia una guerra civile e un bagno di
sangue? Tutto ciò perché in generale le diverse regioni di quella nazione
contenevano numericamente significative minoranze etniche e la spartizione era
impossibile senza il trasferimento forzoso delle popolazioni. Allora, ecco che
Berlino, e Washington, sotto banco hanno finanziato e armato gli estremisti
razzisti, che avevano nostalgie dei tempi della Seconda Guerra Mondiale. Questo
ha generato una guerra civile pressoché inevitabile, dato che il Fondo
Monetario Internazionale e la Banca Mondiale avevano fatto precipitare la
Yugoslavia nella bancarotta, in maniera tale da sottometterla al trionfante
neo-liberalismo, dopo la caduta del Muro di Berlino. Ancora
la Teoria degli "Stati etnicamente puri"! Effettivamente
Gelb fa aperto riferimento ad "un promettente precedente... la Yugoslavia".
Davvero un fatto curioso! Non ci avevano informato che gli Stati Uniti erano
intervenuti in quella regione in ordine a prevenire la "pulizia
etnica"? Niente affatto, lui confessa: gli Stati "etnicamente
puri" sicuramente vanno bene, quando servono ai piani di Washington. Mentre
magnifica "gli Stati etnicamente puri" (Gelb parla anche di
"Stati naturali"!), egli muove critiche a Tito per aver raggruppato in
una Yugoslavia unita "gruppi etnici i più disparati", ma per le
stesse ragioni finge che l'Iraq sia "uno Stato artificiale"; Gelb fa
ricorso alle vecchie teorie sostenute dall'estrema destra. Questa teoria sugli
Stati etnicamente puri è del tutto identica al: "Ein Volk, ein Reich, ein
Führer" (un popolo, uno stato, un duce) di Hitler. Di più, è anche la
teoria adottata dai Sionisti, che sognano un Israele "purificato dagli
Arabi". In Yugoslavia, era la teoria sostenuta dai protégés
dell'Occidente, il croato Tudjman e il Bosniaco Mussulmano Izetbegovic. Ma era
anche la teoria sostenuta del leader dell'ala destra Serba, Karadzic. Risulta
singolare riscontrare che gli USA esaltano teorie che in precedenza avevano
finto di combattere! Il
pericolo di una Teoria che è esportabile in tutto il Mondo Il
pericolo di questa fallace teoria va ben oltre l'Iraq e la Yugoslavia. Molti
degli stati esistenti nel pianeta oggi sono "multietnici". E la gente
razionale considera che essa stessa viene arricchita dal mescolamento di
culture. Ma se un popolo segue teorie di stati "etnicamente puri", gli
USA potrebbero avere il pretesto di disgregare qualsiasi nazione
"multinazionale" che resiste a tutto questo. Washington, in effetti,
intende calpestare nella più larga misura il diritto internazionale e la
sovranità statuale. Gli USA si stanno preparando a compiere nel mondo quello
che hanno iniziato a fare con la Yugoslavia e l'Afghanistan, e, sfortunatamente,
la maggior parte dei politici di sinistra Occidentali li hanno seguiti, dandosi
le peggiori ragioni. Basta! È giunto il momento di sconfessare l'alleanza
disastrosa di questa Sinistra con gli Stati Uniti negli affari Yugoslavi e
Afghani. Per chiunque voglia resistere alla guerra globale, vale a dire alla
ricolonizzazione del mondo, questo è il momento di correre in difesa della
sovranità delle nazioni del Terzo Mondo, un principio che è incorporato nella
Carta dell'ONU. Questo assunto storico si è verificato nel 1945 e oggi gli USA
si stanno accanendo al suo smantellamento. Sostegno
alla Resistenza L'essenza
del piano Gelb è di far precipitare l'Iraq in una lunga guerra civile, in modo
da salvaguardare l'occupazione coloniale USA e di consentire la continua ruberia
di petrolio. Gli USA tenteranno di dividere la resistenza - che viene
riscontrata in tutte le diverse popolazioni dell'Iraq - penalizzando coloro che
vogliono continuare a vivere insieme e organizzando ipocritamente "la
pulizia etnica". Il piano statunitense è di dividere l'Iraq con il
ricatto, diffamando i Sunniti, che sono stati da sempre in prima linea della
resistenza all'imperialismo. Per
meglio comprendere la situazione irachena: -
23 milioni di abitanti, divisi in tre grandi gruppi etnici (nessun censimento
ufficiale e niente registri di stato civile distrutti dagli Americani). -
Sciiti: 55-60%. Al più nel sud. -
Sunniti: 20-25%. Quasi completamente al centro (tra Mosul e Baghdad). -
Curdi: 20%. Per la maggior parte al nord (significative minoranze Curde vivono
in Turchia, Iran, Siria, Russia). La maggioranza di questi è Sunnita. -
Minoranze 5%: da 200.000 a 300.000 Turcomanni, Assiro-Caldei (Cristiani), Yezidi,
2.000 Ebrei... Per
meglio comprendere la situazione yugoslava -
21 milioni di abitanti, divisi in 6 Repubbliche. Secondo un censimento ufficiale
del 1991: Slovenia (1.9 milioni), Croazia (4.7), Serbia (9.7), Macedonia (2.0),
Montenegro (0.6), Bosnia (4.3). -
nessuna regione era etnicamente "pura": consistenti minoranze
risiedevano in tutta la regione, cosa che rendeva la nazione indivisibile. -
in Croazia: Serbi (12%). -
in Macedonia: Albanesi (21%), Turchi (5%), Zingari Rom (2%), Serbi (2%). -
in Bosnia: Mussulmani (43%), Serbi (31%), Croati (17%), altri (7%). Tutti questi
gruppi erano mescolati insieme in tutta la regione. Malgrado
gli avvertimenti di molti esperti analisti politici e di leaders Occidentali, la
Germania, e quindi gli Stati Uniti, hanno scatenato la divisione della regione,
al prezzo di una terribile guerra civile e di spostamenti forzati delle
popolazioni di tutte la minoranze. Per realizzare tutto questo, Berlino e
Washington hanno appoggiato, finanziato e armato segretamente, i leader e gli
estremisti separatisti. Tutto questo è stato accuratamente nascosto
all'opinione pubblica.
|