dicembre 2020 | redazione |
“Falsi storici” | |
“Falsi storici”, un volumetto edito da L'AntiDiplomatico, che non è un lavoro propriamente storico, perché non è storico l'obiettivo di chi oggi vorrebbe contraffare gli avvenimenti per parificare “per legge” nazismo e comunismo. “Falsi storici” è un piccolo contributo alla battaglia contro l'anticomunismo, contro la canea liberale sui colpevoli per lo scoppio della Seconda guerra mondiale e le falsità sui protagonisti della vittoria sul nazismo.
Nel libro, viene presentata una nuova traduzione di “Fal'sifikatory istorii. Istoričeskaja spravka” (“Falsificatori della storia. Informazione storica”), pubblicato nel 1948 dal Informbjuro sovietico, per smentire le asserzioni anglo-americane circa un presunto “patto segreto Berlino-Mosca per spartirsi tutta l’Europa orientale”.
Segue poi una succinta rassegna della più recente pubblicistica russa sugli stessi temi.
È tempo che i comunisti facciano sentire la propria voce anche su questo fronte dell'informazione.
https://www.youcanprint.it/storia-generale/falsi-storici-chi-ha-scatenato-la-seconda-guerra-mondiale-9788894552003.html
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ottobre | redazione |
Covid-19: “coronavirus” da un punto di vista di cl | |
È in distribuzione il documento
Covid-19: “coronavirus” da un punto di vista di classe
Crisi economiche, ristrutturazioni produttive, limitazione dei diritti sociali, sa-lute e sicurezza, ambiente: l’uso capitalista della pandemia e le prospettive di lotta per una società socialista
La borghesia non ha alcuna intenzione di rinunciare ai suoi profitti e sta co-gliendo l’occasione della pandemia per un’ulteriore ristrutturazione del modello produttivo che questa volta, però, oltre a un deciso peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato e delle masse popolari, richiede necessariamente l’attuazione di forme di limitazione delle libertà sociali e di aumento del controllo di massa e degli individui.
Proponiamo un approfondimento e una riflessione, dal punto di vista di classe, che indaghi in maniera complessiva e su diversi piani le implicazioni della situazione venutasi a creare in conseguenza della pandemia, in termini di ripercussioni sociali sul proletariato e sulle masse popolari ma, soprattutto, di possibilità di lotte, economiche e politiche, e organizzative che si aprono.
Uno studio elaborato da un gruppo di comunisti/e tra cui lavoratori/trici, operatori sanitari in prima linea nell’emergenza Covid-19.
Per ricevere il documento in formato cartaceo versare 6 euro (spese di spedizione incluse) sul ccp n. 001004989958 intestato a Scintilla Onlus, indicando la causale.
Per spedizioni superiori alle 5 copie, il prezzo è di 5 euro a copia.
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6 aprile | redazione |
I PALESTINESI E LA GUERRA IN SIRIA | |
Una sintetica raccolta di materiali che aiuta a comprendere l'insieme delle foze palestinesi che combattono a fianco del popolo siriano
Quello che colpisce maggiormente di questo libro è il minuzioso lavoro di ricerca e documentazione, in un'epoca nella quale la verità o l'informazione si reperisce con il consueto click o fidandosi di quel che riporta l'amico di turno.
Viviamo in un'epoca nella quale i poteri forti stanziano decine di miliardi di dollari per la manipolazione dei cervelli. Al loro libro paga si leggono nomi di insospettabili personaggi, magari un giorno erano persino compagni di lotta e, ora si trovano a giustificare e legittimare questa o quell'aggressione. E non scordiamoci la macchina massmediatica di regime che non smette un istante nel diffondere le false notizie di quelle che meglio si chiamano le fake news.
Sugli eventi e l'aggressione alla Siria è bastato che un gruppo della resistenza palestinese e qualche nome di alcuni intellettuali conosciuti e stimati, per venirci a raccontare che tutto il popolo palestinese e schierato contro il governo siriano. Per rafforzare ancora questa favola, diversi gruppi takfiri hanno persino attaccato diversi campi profughi palestinesi accusando l'esercito siriano per le stragi da essi stessi compiuti.
Avevo sentito di alcuni gruppi palestinesi schierati con l’Esercito Arabo Siriano uniti in difesa dei loro campi e della Siria. Pensavo che questa presenza si limitasse a pochi gruppi, ma questo libro viene ad illustrarci quanto siano partecipi i palestinesi contro l'aggressione alla Siria e quindi contro la Palestina.
Questo libro confuta tutte le dicerie e denuda tutti coloro che hanno sfruttato falsamente per i propri interessi l'elemento palestinese.
Oggi persino Hamas ha dovuto ammettere il suo sbaglio, anche se mi è difficile credere che vogliano davvero abbandonare i loro fratelli takfiri o la loro alleanza con la Fratellanza Musulmana. Basta andare a vedere ciò che la loro base sostiene tuttora.
Ciò che questo libro ci dice, è quanto siano stati preziosi e persino determinanti alcuni gruppi palestinesi nella liberazione di molte città siriane tra le quali Aleppo e nell'Al Ghuta orientale.
Infine, vorrei ringraziare l'autore per questo lavoro e per la semplice esposizione. Un lavoro che restituisce onore ai palestinesi facendo emergere la verità sul loro posizionamento contro le aggressioni imperialiste in tutta la regione araba.
Hani Nafe, Palestinese militante e attivista politico che da anni vive in esilio, Italia
Edizioni "La città del sole", euro 15
Il ricavato delle vendite di questo lavoro di documentazione e informazione è destinato, come sempre ad un Progetto di Solidarietà concreta. In questo caso, assieme ad SOS Palestina/CIVG abbiamo deciso di indirizzare i contributi economici al Progetto dell’Associazione Fronte Palestina per i Prigionieri pale
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dicembre 2014 | redazione |
Dove sono i nostri | |
Inchiesta sulla composizione di classe in Italia
"Dove sono i nostri", un’analisi seria ed approfondita che smaschera i luoghi comuni sul mondo del lavoro. Un manuale di sopravvivenza e di azione
Pacifico
Da qualche mese a questa parte è uscito nelle librerie il libro del Collettivo Clash City Workers, inchiesta approfondita e a tutto campo sul proletariato in Italia e sui conflitti più importanti e strategici nel nostro paese. È un libro molto serio e rigoroso per il metodo con cui ha condotto quest’inchiesta di cui c’era veramente bisogno. Utilizzando con criterio e senso critico i dati sulle Attività economiche (ATECO) fornite dall’ISTAT, con precisione certosina sono forniti al lettore dati, tabelle e grafici per ogni settore produttivo dell’economia italiana. Grazie a questo lavoro, si ha un quadro chiaro su chi produce la ricchezza, come la produce e quali sono le trasformazioni più significative del mondo del lavoro negli ultimi anni. L’analisi prende in considerazione i lavoratori dipendenti, parasubordinati, produttivi e improduttivi, “finte” partite Iva, Neet, immigrati, disoccupati, e settori della piccola borghesia (che ha sempre svolto un ruolo importante nelle vicende del nostro paese), cercando di capire come poter unire i vari settori di classe e quale organizzazione politica (non solo economica), questa debba dotarsi per ottenere la propria emancipazione e liberazione.
È un testo controcorrente rispetto allo stato attuale degli studi sulle classi sociali prodotti dal caravanserraglio mediatico della cultura neoliberista vestita di sinistra. Si può concordare con quanto affermano gli autori: da alcuni decenni la sinistra ha rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura di classe del Paese perdendosi dietro a «tatticismi politici, a suggestivi "immaginari", a nuove narrazioni». è un testo che ha cercato di affrontare temi letteralmente snobbati da decenni dalla sinistra italiana di impronta borghese-radical chic, ma anche da settori della sinistra cosiddetta antagonista.
E' altresì un libro coraggioso, perché non è fine a se stesso, perché pone come obiettivo della sua analisi la ripresa e lo sviluppo del conflitto di classe, per la trasformazione rivoluzionaria dell’esistente.
È un testo necessario per tutti coloro che vogliono lottare per la costruzione di una società più giusta, impossibile financo da immaginare senza il coinvolgimento dei lavoratori salariati, ma per coinvolgerli ed organizzarli occorre sapere cosa fanno “qui e ora”, e questo libro da un contributo preziosissimo visto che il movimento comunista in Italia è ai minimi storici dai tempi della fine della Seconda Guerra Mondiale. Un libro profondo, a tutto campo, perché non si limita al dato statistico quantitativo, in quanto alla descrizione di ogni settore del lavoro salariato si accompagna sempre un richiamo all'esperienza diretta del collettivo dei Clash city workers con i vari settori del lavoro salariato in anni di lotte e vertenze in alcune delle aree metropolitane principali del nostro Paese. Di ogni settore è valutato il grado di centralità nell’accumulazione capitalistica nonché la capacità di mobilitazione espressa negli ultimi anni, la presenza del sindacato, e le potenzialità di ricomposizione con il resto della classe e di antagonismo nei confronti del capitalismo. Il loro metodo ha permesso (finalmente) di fare piazza pulita a tutte le tendenze culturali (si fa per dire) che hanno inquinato il dibattito negli ultimi tre decenni, che ha visto una sinistra sempre più sfacciatamente borghese, negare la centralità del lavoro salariato produttivo di plusvalore e della classe operaia. Il volume fornisce la giusta interpretazione ai processi di terziarizzazione che ha interessato la nostra economia, processi che superficialmente sono stati interpretati, dalla sinistra borghese e ferocemente neoliberista, come superamento della produzione materiale a favore di quella immateriale, superamento del lavoro subordinato con quello “cognitivo”, favorendo così la liquidazione delle categorie marxiste e la conseguente decadenza della sinistra italiana.
Ma i fatti, i numeri, parlano più chiaro di mille chiacchiere da salotto circa “il mondo che cambia”. Infatti, il settore impiegato dall’industria è quello più consistente nel mondo del lavoro, quasi 4 milioni di addetti nella manifattura che diventano 5,8 milioni nell'industria strettamente intesa (censimento 2011). Inoltre, attraverso un dettagliato lavoro di scomposizione dei settori Ateco, ci dice un'altra cosa importante e cioè che una parte notevole delle unità perse da questo settore e ora classificate nel terziario, sono in realtà composte di lavoratori esternalizzati, che continuano a svolgere il loro lavoro o dentro la fabbrica o all'esterno, ma sempre in relazione diretta o indiretta alla produzione della grande fabbrica, che rimane centrale nella produzione della ricchezza sociale. A dispetto delle generalizzazioni dei teorici dell'economia della conoscenza, tra i lavoratori dei servizi la maggioranza svolge mansioni operaie e il rimanente, sebbene spesso con alta scolarizzazione, è costituito da lavoratori in buona parte proletarizzati, che più spesso di quanto si pensi svolgono mansioni ripetitive, parcellizzate, esecutive, e la cui subordinazione al capitale è schiacciante, sebbene spesso in forme mascherate come quelle del lavoro parasubordinato e delle false partite Iva. Anche la questione della frammentazione della produzione manifatturiera va ridimensionata, perché molte micro e piccole imprese sono nei fatti articolazioni della grande azienda, rispondendo a esigenze di riduzione dei costi e di neutralizzazione della capacità di mobilitazione dei lavoratori. Il libro, inoltre, dimostra come la manifattura, nei paesi a capitalismo avanzato, sia ancora al centro dei loro sistemi economici, portando in evidenza gli sforzi della stessa amministrazione Obama, di reinternalizzare settori della produzione che erano stati portati all’estero. Ma la centralità è anche soggettiva: “Contrariamente a quanto comunemente pensano molti attivisti politici, che scontano su questo anche una mancanza complessiva di informazione e di conoscenza del mondo operaio, che si caratterizza per una conflittualità continua anche se non sempre visibile e di "piazza", il proletariato della media-grande fabbrica rimane a tutt'oggi il soggetto più combattivo del mondo del lavoro, anche se spesso è incapace di creare relazioni che vadano oltre il perimetro del proprio stabilimento, pesantemente inquadrato com'è da sindacati che ne limitano l'azione.” (pag. 76). Tuttavia, non è la semplice riproposizione del ritornello circa la centralità del lavoro produttivo, ma una vera analisi sulle trasformazioni della composizione di classe a seguito delle esternalizzazioni e delle privatizzazioni del welfare e di settori economici legati all’accumulazione capitalistica. Il lavoro produttivo viene rintracciato nello sviluppo di settori terziari come le comunicazioni, i trasporti e il magazzinaggio, l'informatica, l'istruzione e la sanità privata. Nessuna categoria del lavoro dipendente è dimenticata, comprese la grande distribuzione e la Pubblica amministrazione, alle quali vengono dedicate pagine interessanti. Pagine altrettanto importanti sono dedicate al ceto medio dell'artigianato e della piccola impresa, che, com'è sottolineato, ha svolto e svolge tuttora un ruolo importante nella politica di questo Paese, nonostante e forse a causa dei processi di ristrutturazione complessiva a livello europeo.
Alla fine di questa digressione, il collettivo cerca di dare una risposta circa il come organizzare il conflitto, facendo notare che, se si vuole un’organizzazione efficace, questa deve ricalcare la struttura materiale dell’accumulazione, pena l’incorrere in sonore e copiose sconfitte. Quindi un’organizzazione sindacale divisa per categorie (che grazie alla terziarizzazione sono oggigiorno integrate) non è adatta in questo momento storico, ma dovrebbe riprendere, rispecchiare le filiere cui è articolata la produzione capitalistica. Inoltre è sempre più necessario internazionalizzarsi, esattamente com’è internazionalizzata la produzione. Secondo gli autori, è proprio l'integrazione tra primario, secondario e terziario, combinata con la concentrazione dei capitali (dovuta alla finanziarizzazione) che determina l'unificazione oggettiva della classe lavoratrice: “La combinazione di questi due processi, terziarizzazione dell'industria e finanziarizzazione, fa sì che dal punto di vista materiale questi lavoratori siano già uniti. Sono però artificialmente divisi da un punto di vista sindacale e soprattutto politico. Una volta preso atto di questa trasformazione materiale, qual è il nostro compito? Quello di lavorare per ricomporre da un punto di vista soggettivo quello che oggettivamente connesso” (pag. 179). Inoltre, visto che «è in atto una uniformazione al ribasso di tutti i lavoratori, che vedono diventare le loro condizioni di vita e le loro aspettative sempre più simili, la classe è oggi molto più omogenea che in passato e nei prossimi anni lo sarà sempre di più» (p.191).
Personalmente, sono d’accordo con quanto da loro riportato, anche se mi preme sottolineare come le tipologie contrattuali diverse, le subforniture, le esternalizzazioni non impediscano al capitale di essere interconnesso, ma questo non comporta automaticamente, l’interconnessione tra lavoratori. Ma questo limite verrà superato solo quando sarà sciolto il nodo dell’organizzazione che, come il collettivo stesso rammenta, deve uscire dai limiti dei cancelli dello stabilimento, deve andare oltre i confini della vertenza aziendale (o di categoria), dobbiamo “unire i lavoratori indipendentemente da territori, categorie, aziende, sindacati di appartenenza, li dobbiamo portare a porsi su un piano politico...” (pag. 199). Solo così si potrà rispondere alle varie controffensive dei vari governi in tema di diritti e condizioni di lavoro, dove si vede sempre più la borghesia coscientemente fare leva su elementi sovrastrutturali per dividere il proletariato, e di attaccarne l’autonomia con la favola che, in tempi di crisi, non vi sia conflitto tra capitale e lavoro, ma “bisogna uscirne insieme”.
Per scongiurare tutto ciò, occorre iniziare un processo di ricostruzione di un’organizzazione di classe politica capace di dare spiegazioni e risposte alla crisi sistemica epocale che stiamo vivendo. La questione dell’organizzazione altro non è che la questione del partito comunista, che è il nodo che ci permette di fare il salto di qualità dall’economicismo, dalla pura (sia pur importantissima) difesa degli interessi economici della Classe, alla lotta politica, l’unica in grado di dare effettiva e definitiva soluzione ai problemi dei salariati.
Dove sono i nostri, La casa Usher |
aprile 2018 | redazione |
L'uomo copernicano | |
Pensiero critico e trasformazione sociale
”L'uomo copernicano” di Antonio Banfi
Antonio Banfi, ne L'uomo copernicano sviluppa il carattere critico della filosofia e fa un lavoro preziosissimo per quanti si propongono di costruire un rapporto critico con la realtà storica, non per contemplarla, né per accettarla passivamente, ma per trasformarla.
In questa direzione si muove tutto il lavoro filosofico di Banfi che, partendo dal razionalismo critico, elabora gli schemi teoretici validi per condurre una lotta culturale contro l’irrazionalismo e contro il dogmatismo metafisico.
Il razionalismo critico, nasce nell’età moderna con l’avvento del sapere scientifico che introduce nel mondo del sapere una dimensione critica, che viene sviluppata in modo determinante da Marx, il vero fondatore della filosofia critica.
La nuova dimensione teoretica del sapere è stata introdotta sia dalla rivoluzione scientifica moderna sia dal materialismo storico che, per Banfi, si determina storicamente come un «sapere per l’azione e nell’azione, che dall’azione nasce, in essa si feconda e si universalizza, da essa si solleva per spronarla e dirigerla e di nuovo garantirsi nella sua ricchezza».
Questa concezione del sapere costituisce la più penetrante espressione dell’XI Tesi su Feuerbach, formulata da Marx. «I filosofi [i filosofi dogmatico-metafisici] si sono limitati ad interpretare il mondo si tratta di trasformarlo»: e questo è il compito della filosofia critica.
La natura critica di tale sapere, è data dalla coscienza del carattere dialettico della «natura del razionale» come reciproca funzionalità di essere e pensiero.
Il razionalismo critico in Marx e in Banfi si rivela come «coscienza storica che, penetrando nella struttura dialettica della storia, attraverso l’esperienza dei suoi conflitti, indichi in essa la concreta direzione di lotta e di creazione di una reale universalità umana» cioè, sempre per usare le parole di Banfi, «l’uso critico della ragione, corrisponde alla libertà e alla fecondità di un umanesimo storico eticamente costruttivo».
Per la filosofia critica conoscere il mondo significa conoscere il mondo umano dell’esperienza per trasformarlo ininterrottamente in situazioni particolari, poste nel tempo e nello spazio, nella società e nella storia.
Banfi ne L’uomo copernicano muove una critica teoreticamente argomentata alla metafisica. Il mondo storico, nella sua autonomia, ha immanente un principio d’intellegibilità e non ha bisogno di ricorrere ad un principio d’intellegibilità extrastorico o metafisico. Banfi supera il modo metafisico di impostazione dei problemi teorici attraverso quella metodologia critica del razionale che è lo strumento fondamentale per uscire definitivamente dalle secche di ogni metafisica e per interpretare l'esperienza storica secondo un umanesimo marxista.
Il marxismo per Banfi è sapere storico che nasce dalla storia, spiega il processo storico con le leggi immanenti ad esso mostrando così la propria efficacia scientifica; ma proprio perché il suo sistema di concetti nasce da un rapporto storico, l'obbiettività della lotta di classe, esso non cristallizza la realtà secondo uno schema statico, ma piuttosto diviene strumento positivo di analisi e quindi di conoscenza storica e di analisi politica. Ed in questo rapporto consiste la sua vita concreta, la sua fecondità rivoluzionaria.
C.S. |
novembre 2016 | redazione |
Mercanti di morte | |
Mercanti di morte
Nelle sale cinematografiche il film “Trafficanti” basato su una storia vera
Pacifico
Si sa, l’immediato dopo estate non è il periodo migliore per poter vedere dei film quantomeno guardabili. Di soli-to propinano minestre riscaldate, oppure paccottiglie de-stinate a finire, meritatamente, nel dimenticatoio nel giro di due settimane, giusto il tempo di smaltire la sbornia delle ferie.
Eppure, contro ogni ragionevole pronostico, in questo drammatico e turbolento 2016, che vede i teatri di Ucrai-na, Siria e Libia infuocarsi sempre più complice la poli-tica insipiente e guerrafondaia dell’imperialismo euro-sionamericano, esce nelle sale un film molto interessan-te.
Il titolo è “I Trafficanti” regia di Todd Phillips, non proprio un luminare e nemmeno un militante, ma si sa non siamo nei tempi di giganti come Elio Petri. Pur non es-sendo un capolavoro, il film ha il merito di metter in luce, con linguaggio semplice, graffiante e irriverente, una delle perversioni peggiori del “complesso militar in-dustriale” che ancora tiene in vita il putrescente capi-talismo occidentale.
La narrazione del film si ispira ad una storia vera rac-contata dalla rivista Rolling Stone (http://www.rollingstone.com/politics/news/the-stoner-arms-dealers-20110316) e successivamente pubblicato in un libro intitolato Arms and the Dudes. I protagonisti sono David Packouz ed Efrain Diveroli. Il primo massaggiatore a domicilio che cerca di arrotondare il salario vendendo lenzuola a case di riposo, il secondo rampollo ricco e sfacciato di una ricca famiglia ebrea di Miami Beach. I due mettono in piedi una società di intermediazione di armi, la AEY Inc.
I due si incontrano per caso dopo tanti anni dalla fine del liceo, e il secondo, già esperto nel fiutare affari, sfrutta “l’opportunità” data dal governo Bush di far par-tecipare agli appalti per la fornitura di armi all’esercito USA anche imprese “medie” o “piccole”. Lo stesso governo Bush diede una forte accelerata alla “pri-vatizzazione” della guerra, che prevedeva l’appalto ad aziende private di settori sempre più ampi dello sforzo militare: dalla costruzione e protezione di basi milita-ri, alla protezione del personale diplomatico, fino ai famigerati contractors (tra cui, se ricordate, vi furono tanti italiani).
I “nostri” giovani protagonisti capiscono entrambi che, se vogliono diventare ricchi, è sufficiente entrare nelle grazie di un solo grande cliente che non bada a spese quando si tratta di armi e munizioni: il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
“Chi vi dice che la guerra si fa per la democrazia o per qualsiasi ideale, vi dice una stronzata, la guerra è solo un affare”, è una frase che uno dei due protagonisti nel raccontare, con la tecnica del flash back, la sua parabo-la.
In effetti solo l’equipaggiamento di un solo soldato ame-ricano costa poco più di 17000 dollari, più o meno il CUD di una dichiarazione dei redditi di un lavoratore italia-no medio. Come l’antico impero romano pesava sulle spalle di schiavi, contadini e plebei, l’imperialismo attuale succhia ricchezze e speranze ad un proletariato e agli strati più bassi di una classe media sempre più vittime di mancanza di rappresentanza politica e sindacale.
“Trafficanti” può essere considerata una commedia scor-retta che in parte ricorda il film del 1974 “Finché c’è guerra, c’è speranza” con Alberto Sordi. Il film, con ar-tifizi registici, tende a ridicolizzare e denunciare, non solo i due protagonisti, ma anche tutto il sistema di sfruttamento della morte. La guerra è un affare in conti-nua crescita (si è passati da un giro di affari di 145 miliardi di dollari nel 2001, a 390 nel 2008). Il film spiega che le fette grosse se le prendono le solite mul-tinazionali, senza che vi sia concorrenza (chi crede an-cora alle “teorie” di Adam Smith?), poi vengono le “bri-ciole”, ove si infilano personaggi legati anche ad orga-nizzazioni criminali. Insomma, l’imperialismo, come dimo-strato con il commercio di droga in Afghanistan (vedere il libro di Enrico Piovesana Afghanistan 2011-2016. La nuova guerra dell’oppio. Arianna Editrice), non si fa nessuno scrupolo ad allearsi con le mafie, questo noi i-taliani lo sappiamo molto bene da quando gli americani vennero a “liberare” la Sicilia…
Nella narrazione del film (così come nella realtà) però, lo scandalo non emerse tanto per questo, quanto per il fatto che le due new entry in questo commercio avevano cercato di accaparrarsi una fetta più grande di quella loro destinata, calpestando qualche mignolo di chi invece era abituato, “per diritto acquisito” ad occupare certe posizioni. Per vincere un appalto da 300 milioni di dol-lari, i nostri protagonisti intrecciano un’alleanza con la mafia albanese, grazie ai contatti con Heinrich Tho-met, faccendiere svizzero, denunciato anche da Amnesty International per traffico d’armi anche laddove vi erano embarghi internazionali, ma che godeva di ottime referen-ze presso la Difesa degli USA, per via di forniture pre-cedenti. Thomet e i suoi contatti procurano ai due giova-ni protagonisti un deposito di armi dell’ex esercito po-polare dell’Albania di Enver Hoxha a prezzi stracciati. Lo scandalo è che i proiettili che si procurano, e che poi avrebbero dovuto rifornire l’esercito ascaro del go-verno vassallo dell’Afghanistan, erano di fabbricazione Cinese (la Cina, dopo che la cricca di Kruscev sale al poter nel dopo Stalin, fu l’unico paese a rimanere allea-to dell’Albania). Sulla Cina pende, dopo i fatti di piaz-za Tienammen del 1989, un blocco per il commercio di armi da parte degli statunitensi. La cosa fu presa a pretesto dalle ditte concorrenti che non videro di buon occhio l’ingresso nel fruttuoso mercato di morte dei due nuovi insider, ragion per cui cominciarono a far pressioni al Dipartimento della Difesa Usa.
La notizia fu data per prima dal New York Times nel 2008 (http://www.nytimes.com/2008/03/27/world/asia/27ammo.html?_r=2&ref=world&oref=slogin). Il film, velatamente, de-nuncia altresì anche certo giornalismo di inchiesta com-patibile col sistema. Di recente ne abbiamo avuto un e-sempio, laddove si è parlato (più nella stampa estera) del coinvolgimento dei Sauditi negli atti terroristici dell’11 settembre, senza però mai denunciare il fatto che dall’epoca è il Governo statunitense stesso che pone il veto su ogni possibile inchiesta che faccia luce sulla faccenda.
Quando sono andato a vederlo la sala era piena di ragazzi sui vent’anni, di cui spesso ci si lamenta per l’indifferenza cronica. In parte questo può essere vero, ma anche vero che a volte è solo un problema di linguag-gio. Con i mezzi giusti, forse, sarà possibile quel ri-cambio generazionale indispensabile a dare speranze e prospettive per una nuova umanità. |
agosto 2019 | redazione |
Religione e comunismo | |
"Religione e comunismo"
Non un manuale di ateismo, ma l'analisi del conflitto tra il paradigma idealistico-metafisico dell'esistente e la visione scientifico-materialista
Dal 30 maggio è vendita presso tutte le librerie un interessante lavoro realizzato da Concetto Solano, dal titolo “Religione e comunismo”. Il testo rappresenta una dettagliata e documentata critica del cristianesimo attraverso un'approfondita analisi dei testi, della storia, dell'apparato teoretico della religione cristiana. La religione viene vista come alienazione, cioè come riconoscimento del significato dell'uomo in un alius, in un altro – dio, appunto – elevato ad entità ontologica che dà significato e valore morale all'uomo. Da questa estraneità dell'uomo a se stesso ne è conseguita la legittimazione della sottomissione della donna all'uomo, la giustificazione delle disuguaglianze sociali, la legittimazione di tutte le forme di divisione della società in classi, a partire dallo schiavismo, fino ad arrivare ai giorni nostri.
La pretesa dogmatica della “verità” della propria scelta ontologica, del proprio dio, ha comportato secoli di massacri e di persecuzioni, sia nei confronti delle altre religioni e di tutti gli esponenti di un pensiero critico i cui libri sono stati posti, fino al secolo scorso, all'Index librorum prohibitorum.
Non fanno eccezione le prese di posizione del papa Francesco I che, al di là di una parvenza apparentemente innovatrice, ricalca le posizioni più retrive della chiesa cattolica su questioni quali l'aborto, l'eutanasia, la famiglia e più in generale, la riproposizione fedele di tutto l'apparato dogmatico della chiesa.
La seconda parte approfondisce la critica di Marx alla religione, a dio come atto teoreticamente arbitrario, cui consegue la fondazione di valori astratti, vuoti, e quindi disponibili ad ogni compromesso con le forze più conservatrici. La critica su basi teoreticamente rinnovate, realizzata dal materialismo storico di Marx, consente di porre sotto una nuova luce la critica alla fede, quale atto prelogico e teoreticamente inconsistente e di riportare, al tempo stesso, “la critica del cielo” alla “critica della terra”, superando il moralismo cristiano e realizzando una moralità criticamente costruita dall'uomo, finalmente artefice di se stesso. |
20 dicembre 2014 | redazione |
recensione | |
Inchiesta sulla composizione di classe in Italia
"Dove sono i nostri", un’analisi seria ed approfondita che smaschera i luoghi comuni sul mondo del lavoro. Un manuale di sopravvivenza e di azione
Da qualche mese a questa parte è uscito nelle librerie il libro del Collettivo Clash City Workers, inchiesta approfondita e a tutto campo sul proletariato in Italia e sui conflitti più importanti e strategici nel nostro paese. È un libro molto serio e rigoroso per il metodo con cui ha condotto quest’inchiesta di cui c’era veramente bisogno. Utilizzando con criterio e senso critico i dati sulle Attività economiche (ATECO) fornite dall’ISTAT, con precisione certosina sono forniti al lettore dati, tabelle e grafici per ogni settore produttivo dell’economia italiana. Grazie a questo lavoro, si ha un quadro chiaro su chi produce la ricchezza, come la produce e quali sono le trasformazioni più significative del mondo del lavoro negli ultimi anni. L’analisi prende in considerazione i lavoratori dipendenti, parasubordinati, produttivi e improduttivi, “finte” partite Iva, Neet, immigrati, disoccupati, e settori della piccola borghesia (che ha sempre svolto un ruolo importante nelle vicende del nostro paese), cercando di capire come poter unire i vari settori di classe e quale organizzazione politica (non solo economica), questa debba dotarsi per ottenere la propria emancipazione e liberazione.
È un testo controcorrente rispetto allo stato attuale degli studi sulle classi sociali prodotti dal caravanserraglio mediatico della cultura neoliberista vestita di sinistra. Si può concordare con quanto affermano gli autori: da alcuni decenni la sinistra ha rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura di classe del Paese perdendosi dietro a «tatticismi politici, a suggestivi "immaginari", a nuove narrazioni». è un testo che ha cercato di affrontare temi letteralmente snobbati da decenni dalla sinistra italiana di impronta borghese-radical chic, ma anche da settori della sinistra cosiddetta antagonista.
E' altresì un libro coraggioso, perché non è fine a se stesso, perché pone come obiettivo della sua analisi la ripresa e lo sviluppo del conflitto di classe, per la trasformazione rivoluzionaria dell’esistente.
È un testo necessario per tutti coloro che vogliono lottare per la costruzione di una società più giusta, impossibile financo da immaginare senza il coinvolgimento dei lavoratori salariati, ma per coinvolgerli ed organizzarli occorre sapere cosa fanno “qui e ora”, e questo libro da un contributo preziosissimo visto che il movimento comunista in Italia è ai minimi storici dai tempi della fine della Seconda Guerra Mondiale. Un libro profondo, a tutto campo, perché non si limita al dato statistico quantitativo, in quanto alla descrizione di ogni settore del lavoro salariato si accompagna sempre un richiamo all'esperienza diretta del collettivo dei Clash city workers con i vari settori del lavoro salariato in anni di lotte e vertenze in alcune delle aree metropolitane principali del nostro Paese. Di ogni settore è valutato il grado di centralità nell’accumulazione capitalistica nonché la capacità di mobilitazione espressa negli ultimi anni, la presenza del sindacato, e le potenzialità di ricomposizione con il resto della classe e di antagonismo nei confronti del capitalismo. Il loro metodo ha permesso (finalmente) di fare piazza pulita a tutte le tendenze culturali (si fa per dire) che hanno inquinato il dibattito negli ultimi tre decenni, che ha visto una sinistra sempre più sfacciatamente borghese, negare la centralità del lavoro salariato produttivo di plusvalore e della classe operaia. Il volume fornisce la giusta interpretazione ai processi di terziarizzazione che ha interessato la nostra economia, processi che superficialmente sono stati interpretati, dalla sinistra borghese e ferocemente neoliberista, come superamento della produzione materiale a favore di quella immateriale, superamento del lavoro subordinato con quello “cognitivo”, favorendo così la liquidazione delle categorie marxiste e la conseguente decadenza della sinistra italiana.
Ma i fatti, i numeri, parlano più chiaro di mille chiacchiere da salotto circa “il mondo che cambia”. Infatti, il settore impiegato dall’industria è quello più consistente nel mondo del lavoro, quasi 4 milioni di addetti nella manifattura che diventano 5,8 milioni nell'industria strettamente intesa (censimento 2011). Inoltre, attraverso un dettagliato lavoro di scomposizione dei settori Ateco, ci dice un'altra cosa importante e cioè che una parte notevole delle unità perse da questo settore e ora classificate nel terziario, sono in realtà composte di lavoratori esternalizzati, che continuano a svolgere il loro lavoro o dentro la fabbrica o all'esterno, ma sempre in relazione diretta o indiretta alla produzione della grande fabbrica, che rimane centrale nella produzione della ricchezza sociale. A dispetto delle generalizzazioni dei teorici dell'economia della conoscenza, tra i lavoratori dei servizi la maggioranza svolge mansioni operaie e il rimanente, sebbene spesso con alta scolarizzazione, è costituito da lavoratori in buona parte proletarizzati, che più spesso di quanto si pensi svolgono mansioni ripetitive, parcellizzate, esecutive, e la cui subordinazione al capitale è schiacciante, sebbene spesso in forme mascherate come quelle del lavoro parasubordinato e delle false partite Iva. Anche la questione della frammentazione della produzione manifatturiera va ridimensionata, perché molte micro e piccole imprese sono nei fatti articolazioni della grande azienda, rispondendo a esigenze di riduzione dei costi e di neutralizzazione della capacità di mobilitazione dei lavoratori. Il libro, inoltre, dimostra come la manifattura, nei paesi a capitalismo avanzato, sia ancora al centro dei loro sistemi economici, portando in evidenza gli sforzi della stessa amministrazione Obama, di reinternalizzare settori della produzione che erano stati portati all’estero. Ma la centralità è anche soggettiva: “Contrariamente a quanto comunemente pensano molti attivisti politici, che scontano su questo anche una mancanza complessiva di informazione e di conoscenza del mondo operaio, che si caratterizza per una conflittualità continua anche se non sempre visibile e di "piazza", il proletariato della media-grande fabbrica rimane a tutt'oggi il soggetto più combattivo del mondo del lavoro, anche se spesso è incapace di creare relazioni che vadano oltre il perimetro del proprio stabilimento, pesantemente inquadrato com'è da sindacati che ne limitano l'azione.” (pag. 76). Tuttavia, non è la semplice riproposizione del ritornello circa la centralità del lavoro produttivo, ma una vera analisi sulle trasformazioni della composizione di classe a seguito delle esternalizzazioni e delle privatizzazioni del welfare e di settori economici legati all’accumulazione capitalistica. Il lavoro produttivo viene rintracciato nello sviluppo di settori terziari come le comunicazioni, i trasporti e il magazzinaggio, l'informatica, l'istruzione e la sanità privata. Nessuna categoria del lavoro dipendente è dimenticata, comprese la grande distribuzione e la Pubblica amministrazione, alle quali vengono dedicate pagine interessanti. Pagine altrettanto importanti sono dedicate al ceto medio dell'artigianato e della piccola impresa, che, com'è sottolineato, ha svolto e svolge tuttora un ruolo importante nella politica di questo Paese, nonostante e forse a causa dei processi di ristrutturazione complessiva a livello europeo.
Alla fine di questa digressione, il collettivo cerca di dare una risposta circa il come organizzare il conflitto, facendo notare che, se si vuole un’organizzazione efficace, questa deve ricalcare la struttura materiale dell’accumulazione, pena l’incorrere in sonore e copiose sconfitte. Quindi un’organizzazione sindacale divisa per categorie (che grazie alla terziarizzazione sono oggigiorno integrate) non è adatta in questo momento storico, ma dovrebbe riprendere, rispecchiare le filiere cui è articolata la produzione capitalistica. Inoltre è sempre più necessario internazionalizzarsi, esattamente com’è internazionalizzata la produzione. Secondo gli autori, è proprio l'integrazione tra primario, secondario e terziario, combinata con la concentrazione dei capitali (dovuta alla finanziarizzazione) che determina l'unificazione oggettiva della classe lavoratrice: “La combinazione di questi due processi, terziarizzazione dell'industria e finanziarizzazione, fa sì che dal punto di vista materiale questi lavoratori siano già uniti. Sono però artificialmente divisi da un punto di vista sindacale e soprattutto politico. Una volta preso atto di questa trasformazione materiale, qual è il nostro compito? Quello di lavorare per ricomporre da un punto di vista soggettivo quello che oggettivamente connesso” (pag. 179). Inoltre, visto che «è in atto una uniformazione al ribasso di tutti i lavoratori, che vedono diventare le loro condizioni di vita e le loro aspettative sempre più simili, la classe è oggi molto più omogenea che in passato e nei prossimi anni lo sarà sempre di più» (p.191).
Personalmente, sono d’accordo con quanto da loro riportato, anche se mi preme sottolineare come le tipologie contrattuali diverse, le subforniture, le esternalizzazioni non impediscano al capitale di essere interconnesso, ma questo non comporta automaticamente, l’interconnessione tra lavoratori. Ma questo limite verrà superato solo quando sarà sciolto il nodo dell’organizzazione che, come il collettivo stesso rammenta, deve uscire dai limiti dei cancelli dello stabilimento, deve andare oltre i confini della vertenza aziendale (o di categoria), dobbiamo “unire i lavoratori indipendentemente da territori, categorie, aziende, sindacati di appartenenza, li dobbiamo portare a porsi su un piano politico...” (pag. 199). Solo così si potrà rispondere alle varie controffensive dei vari governi in tema di diritti e condizioni di lavoro, dove si vede sempre più la borghesia coscientemente fare leva su elementi sovrastrutturali per dividere il proletariato, e di attaccarne l’autonomia con la favola che, in tempi di crisi, non vi sia conflitto tra capitale e lavoro, ma “bisogna uscirne insieme”.
Per scongiurare tutto ciò, occorre iniziare un processo di ricostruzione di un’organizzazione di classe politica capace di dare spiegazioni e risposte alla crisi sistemica epocale che stiamo vivendo. La questione dell’organizzazione altro non è che la questione del partito comunista, che è il nodo che ci permette di fare il salto di qualità dall’economicismo, dalla pura (sia pur importantissima) difesa degli interessi economici della Classe, alla lotta politica, l’unica in grado di dare effettiva e definitiva soluzione ai problemi dei salariati.
Dove sono i nostri, La casa Usher
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settembre 2013 | nu |
Quelli del Playa Giron | |
“Quelli del Playa Giron”
Il filo rosso delle RESISTENZE
“O Comunismo o Barbarie“, Associazione Culturale Joris Ivens
CONTRIBUTI E DOCUMENTAZIONE DEI COMPAGNI ITALIANI
CONTRIBUTI PERSONALI della ZONA FIORENTINA
Introduzione militante del partigiano “Sugo”
Mario Gorini, Partigiano “VITTORIO” - 22ª bis Brigata d’Assalto Garibaldi “Vittorio Sinigaglia”
Cesare Massai, Partigiano dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) di Firenze.
Enio Sardelli, Partigiano “FOCO” della “Caiani”
Sirio Ungherelli, Partigiano “GIANNI” - 22 ª bis Brigata d’Assalto Garibaldi “Vittorio Sinigaglia
DOCUMENTAZIONE della ZONA APUANA
Presentazione: “Testamento” di Tristano Zekanowsky
Lettera del Comando del Distaccamento d’Assalto Garibaldi "Aldo Cartolari" al Gruppo “Patrioti Apuani”
Rapporto del Vice Commissario Politico “T. Z. Ciacco” al Comando-Distaccamento d’Assalto Garibaldi "Aldo Cartolari"
Regolamento Militare del Distaccamento d’Assalto Garibaldi "Aldo Cartolari"
Costituzione e Statuto della Brigata d’Assalto Garibaldi “Ugo Muc-cini”
CONTRIBUTI compagni latinoamericani
Eucebio Figueroa Santos, “RONY”, delle Forze Armate Ribelli del Guatemala
César Mario Rossi Garretano, “TONY”, delle Forze Armate Rivoluzio-narie Orientali dell’Uruguay
CONTRIBUTI compagni palestinesi
LEILA KHALED, “SHADIA ABU GHAZALI”, attualmente membro dell’Ufficio Politico del FPLP e dirigente dell’Ufficio Rifugiati
€ 12,00
Si può richiedere tramite email alla redazione di nuova unità: re-dazione@nuovaunita.info
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ottobre 2013 | nu |
La fabbrica del panico | |
“La fabbrica del panico”
La vita e la loro salute degli operai in un bel romanzo scritto dal figlio di un lavoratore colpito da mesotelioma
Figlio di un operaio della Breda Fucine Stefano Valenti, 49 anni, nel romanzo “La fabbrica del panico”, racconta i fatti, le persone, la vita reale degli operai costretti a vendere la loro forza –lavoro per un tozzo di pane. Racconta la storia degli operai della Breda Fucine di viale Sarca 336, (divisa fra Sesto San Giovanni e Milano bicocca), della loro lotta contro la nocività in fabbrica e per la difesa della salute in fabbrica e nel territorio e per ottenere giustizia per le vittime dell'amianto attraverso le angosce, le paure di una famiglia operaia, quella di Stefano il cui padre, pittore operaio della Breda, è morto di mesotelioma dopo aver lavorato negli anni Cinquanta alla Breda Fucine di Sesto San Giovanni. La scoperta del tumore, l’angoscia, il dolore i mesi di cura tra casa e ospedali sono gli stessi che hanno vissuto migliaia di lavoratori e di loro famigliari, vittime delle sostanze cancerogene respirate negli ambienti di lavoro e portati a casa nelle tute da lavoro, che in molti casi hanno avvelenato e ucciso moglie e figli. Lo sfruttamento operaio, la produzione finalizzata alla logica del profitto di imprenditori e manager senza scrupoli, che hanno condannato a morte per anni centinaia di migliaia di operai. Ma anche la gioia di vivere, la fabbrica che nonostante il clima da galera è anche il luogo in cui gli operai vivono, lavorano e si organizzano lottando per i loro diritti.
Il libro racconta anche la storia del “Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio” che è riuscito a portare sul banco degli imputati i padroni della fabbrica, con l'aiuto di Cesare (personaggio ispirato a Michele Michelino). Stefano Valenti nel racconto s’immedesima nell’alter ego di suo padre, Giambattista Tagarelli, operaio al reparto aste della Breda Fucine dal 1973 al 1988, ucciso dall’amianto, co-fondatore del Comitato insieme a Cesare.
Il protagonista del romanzo nasce dunque dalla fusione di queste due rappresentative figure della classe operaia. Che racconta il cammino di consapevolezza degli operai, l'attività del Comitato per la Tutela della Salute nei Luoghi di Lavoro, fino al processo contro i dirigenti Breda. La narrazione con uno stile semplice “ racconta che i dirigenti sapevano – fin dal 1974 dai rapporti dello Smal (Servizio di medicina preventiva per gli ambienti di lavoro) e della Usl, che facevano ispezioni nelle fabbriche (in particolare alla Breda Fucine) – che l’amianto avrebbe portato a questi omicidi. Lo Smal stilava rapporti sulle sostanze cancerogene usate nei processi lavorativi e produttivi che consegnava alla direzione aziendale della Breda Fucine, al consiglio di fabbrica, all’assessore alla sanità, all’ufficiale sanitario, all’ispettorato del lavoro, all’assessorato regionale alla sanità, al servizio sanitario aziendale, a Cgil-Cisl-Uil e alla Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici) come riportato in calce al libro, “Operai carne da macello” (reperibile su internet). Lo sapevano tutti meno gli operai. Per anni c’è stato un muro di omertà e di complicità fra datori di lavoro, partiti, sindacati e istituzioni che barattavano il posto di lavoro con la salute dei lavoratori e dei cittadini dell’amianto e istituzioni compiacenti.
Purtroppo l’amianto non è un problema del passato, ma del presente e del futuro.
L’Organizzazione mondiale della sanità prevede che il picco delle morti sia fra il 2020 e il 2030, poiché la latenza della malattia (il mesotelioma) è anche di 40 anni. Il pericolo derivante dalle fibre d’amianto è una vera emergenza, sociale, ambientale, sanitaria, cui bisogna rispondere.
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31 gennaio 2014 | redazione |
recensione Magazzino 18 | |
RECENSIONE DELLO SPETTACOLO “MAGAZZINO
18″ DI SIMONE CRISTICCHI Claudia
Cernigoi Quattro anni
fa l’editrice Mursia ha pubblicato un libro dal titolo “Ci chiamavano
fascisti. Eravamo italiani”, scritto dal giornalista Jan Bernas (oggi
portavoce del vice presidente vicario del parlamento europeo Gianni Pittella
(PD), figlio dell’ex parlamentare socialista Domenico Pittella che nel 1992 si
era candidato nella Lega delle Leghe di Stefano Delle Chiaie. Il libro non
riporta nulla di nuovo dal punto di vista storiografico (risulta dalla stessa
sinossi del testo che “Questo non è e non vuole essere un libro di storia”
(http://www.forumforpages.com/facebook/esodo-istriano-per-non-dimenticare/ci-chiamavano-fascisti-eravamo-italiani-il-nuovo-libro-di-jan-bernas/847529688/0):
oltre ad alcune testimonianze di esuli istriani e di “rimasti”, si limita a
ripetere cose già pubblicate più volte (e spesso anche più volte smentite in
base a documentazione ufficiale), ciononostante, pur non essendo un’opera
innovativa, è corredata da una prefazione di Walter Veltroni (curiosamente, nel
sito di Bernas e nella nota biografica inserita nella pubblicazione curata dal
Teatro Rossetti di Trieste compare anche una “postfazione di Gianfranco
Fini”, che però non risulta pubblicata nel libro messo in commercio). Il
libro è stato presentato per la prima volta a Roma in modo bipartisan da
Luciano Violante e Fabio Rampelli, allora deputato del PDL (oggi in Fratelli
d’Italia), anche se nella nota di cui sopra si legge che sarebbe stato Roberto
Menia a presentarlo. Ed è a
questo libro che dice di essersi ispirato il cantautore Simone Cristicchi per il
suo spettacolo Magazzino 18 (Bernas infatti risulta coautore
del testo teatrale): lo avrebbe comprato dopo averlo visto “per caso” in una
libreria, incuriosito dal titolo. In seguito Cristicchi sarebbe venuto a Trieste
dove Piero Delbello (direttore dell’IRCI Istituto Regionale Cultura
Istriano-giuliano-dalmata) lo avrebbe accompagnato al Porto vecchio a prendere
visione delle masserizie degli esuli istriani ancora conservate al Magazzino n.
18. Di questa visita Cristicchi usa dire che trovarsi in quel magazzino pieno di
mobili e di altri oggetti è un po’ come visitare Auschwitz (paragone che ci
sembra offensivo nei confronti delle vittime di Auschwitz, dato che gli oggetti
trovati nei magazzini di quel lager erano stati rubati agli internati che poi
furono uccisi, mentre qui si tratta di cose abbandonate dai loro proprietari,
che hanno abbandonato le proprie città, ma non furono assassinati), ed ha
quindi deciso di mettere in scena la “tragedia degli esuli”, perché, a suo
parere, è stata finora ignorata. Va ribadito a
questo punto che a Trieste della questione dell’esodo istriano si è sempre
parlato, ed a livello nazionale è quantomeno da vent’anni, dalla dissoluzione
della Jugoslavia, che sentiamo ribadire la necessità di parlare di questa
tragedia “finora ignorata” ogniqualvolta viene pubblicato un libro o un
articolo, quando esce un film, e nel corso delle celebrazioni e commemorazioni
indette nel Giorno del ricordo (10 febbraio). In realtà la
legge istitutiva del Giorno del ricordo (n. 92/2004) contempla che in questa
occasione vadano approfondite, oltre alla questione dell’esodo e delle foibe,
“le più complesse vicende del confine orientale”; e la lettura completa
della norma ha creato, e crea tuttora, svariate polemiche sul come raccontare la
storia di queste vicende, dato che le associazioni degli esuli hanno ritenuto di
dover avere il monopolio delle commemorazioni e pertanto di imporre ad enti ed
istituzioni varie di non far parlare relatori non omologati alla loro
interpretazione della storia. In questo
panorama si è inserito ora anche Cristicchi, considerato da alcuni un autore
“impegnato” per certi suoi spettacoli sulla malattia mentale, sui minatori e
sulla guerra. Senza entrare nel merito degli altri suoi lavori parliamo di Magazzino
18, del quale l’autore spiega che “la cosa più complicata è stata
raccontare la situazione storica. Il rischio era ovviamente quello
di annoiare e quindi abbiamo sintetizzato un arco di tempo di quarant’anni in
cinque minuti di orologio. Anche da qui sono nate diverse critiche, perché sono
stato accusato di aver dimenticato, o addirittura omesso di dire certe cose: io
non ho omesso niente, ho solo avuto rispetto di un pubblico che viene a teatro,
non ad ascoltare una conferenza, ma a emozionarsi, a provare rabbia, a ridere.
Lo spettacolo vuole essere anche uno spunto per incuriosire la gente ad
approfondire questa storia. Di certo non volevo fare lo storico”. Cristicchi
dunque “non voleva fare lo storico”, ma “emozionare”: intento
rispettabilissimo, se solo l’avesse rispettato e non avesse dato in quei
“cinque minuti” (che nei fatti si sono però dilatati in tutto lo
spettacolo) una lettura storica del tutto falsata, dato che non si è basato su
testi storici ma ha riprodotto pedissequamente i vecchi testi di propaganda
nazionalista inframmezzati da qualche appunto “antifascista”, probabilmente
per apparire bipartisan, coerentemente con la promozione del testo
di Bernas. E va detto subito che nella narrazione non viene rispettata la
cronologia dei fatti e spesso non è inquadrata correttamente la sequenzialità
delle vicende, il che sicuramente non aiuta lo spettatore a chiarirsi le idee su
quello che è accaduto. Nello
spettacolo Cristicchi impersona un archivista un po’ burino,
Duilio Persichetti, che alla stregua di un Dante Alighieri de noantri si
fa accompagnare alla scoperta della storia non da un poeta come Virigilio, ma da
un oscuro “spirito delle masserizie” che gli appare nel deposito dei mobili
abbandonati dagli esuli giuliano dalmati. E questo Spirito, lungi dal fornirgli
dati storici, sembra il portavoce dell’antica agenzia Stefani che lavorava
sotto il fascismo (o forse si ispira semplicemente al testo di Bernas, dal quale
cita abbondantemente). “Un’intera
regione svuotata della propria essenza. Gente costretta a lasciare la sua terra
non per la fame o per la voglia di migliorare la propria condizione, ma perché
non si può vivere senza essere italiani”, declama lo Spirito, non
considerando che l’Istria non era esclusivamente italiana, ma una regione
popolata anche da sloveni, croati ed istrorumeni, e l’essenza istriana,
se vogliamo mantenere questa definizione, è data dalla commistione di queste
etnie, non dalla presenza dei soli italiani, molti dei quali peraltro rimasero
in Istria, restando italiani, come dimostra il fatto che ancora oggi la comunità
italiana in Slovenia e Croazia è viva e vitale. Perché in Jugoslavia gli
italiani potevano mantenere la propria nazionalità italiana, a condizione di
acquisire la cittadinanza jugoslava (ed i cittadini jugoslavi di nazionalità
italiana hanno da subito avuto il diritto alle scuole con insegnamento nella
madre lingua, a finanziamenti per circoli culturali ed editoria, al bilinguismo
nei rapporti con le istituzioni, fino ai seggi garantiti nei parlamenti locali:
molto di più di quanto abbiano mai visto le comunità minoritarie in Italia);
mentre nel caso in cui non volessero rinunciare alla cittadinanza italiana, il
Trattato di pace prevedeva che, in quanto “optanti”, lasciassero la
Jugoslavia per andare in Italia. Nessuna “pulizia etnica” (con buona pace
del Presidente Napolitano, che con tutto il rispetto, non è un esperto di
storia), dunque, ma una banalissima questione di diritto internazionale. E che non vi
fosse un clima di terrore nei confronti degli italiani è dimostrato dalle
stesse parole dello Spirito, quando parla di “un’emorragia durata dieci
anni”. Per fare un paragone, i tedeschi dei Sudeti dovettero lasciare le
proprie case dalla sera alla mattina, senza poter portare via nulla, mentre se
gli istriani poterono portare via “persino le bare dei propri cari” e
riempire delle proprie masserizie, poi non ritirate, il Magazzino 18, si può
ben comprendere la diversità dei due eventi. Infine un altro appunto: lo
Spirito dice che “se ne andarono in trecentomila”, ma va precisato che nel
1958 l’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati pubblicò una
sorta di censimento dal quale appare che i “profughi legalmente
riconosciuti” erano 190.905 (i numeri poi furono fatti lievitare con
operazioni di conteggio quantomeno discutibili, ma su questo vi rinviamo ai
titoli in bibliografia). Quando poi lo
Spirito si mette a raccontare (nei famosi cinque minuti) la storia del confine
orientale, sembra essersi ispirato a qualche filmino dell’Istituto Luce:
“quei luoghi settant’anni fa erano Italia, anche le pietre parlano
italiano”, ma non dice che quei luoghi diventarono italiani meno di cento anni
fa, e lo rimasero per una ventina d’anni, dopo la vittoria italiana nella
prima guerra mondiale. “Il tricolore viene issato “non solo a Trento, a
Gorizia e Trieste, ma anche a Zara, Pola, nell’Istria e nelle isole del
Quarnaro; ed alla fine “anche Fiume qualche anno dopo si ricongiunge
all’Italia”: che ciò sia avvenuto in barba al Trattato di Rapallo e con un
colpo di mano, questo lo Spirito non lo ricorda. Non ce n’era il tempo? O
perché non era intenzione di Cristicchi di parlare di storia? Così il
“processo di riunificazione si conclude, ma per poco, perché vent’anni dopo
il Fascismo (maiuscolo? n.d.r.) “sfalda il delicato equilibrio”: ma
lo Spirito non spiega che l’Italia fissò il proprio confine orientale ben
oltre a quelli che potevano essere considerati “luoghi dove le pietre
parlavano italiano”, come Postumia, Tolmino, Villa del Nevoso (per usare i
nomi italianizzati dallo Stato vincitore). Del resto, se Cristicchi più di una
volta ha affermato che “un tempo l’Istria si chiamava Italia ed ora si
chiama Slovenia e Croazia”, non ci si può aspettare che conosca la geografia,
ma dà l’impressione che si sia limitato a ripetere gli slogan della
propaganda nazionalista ed irredentista. Per “emozionare”, certamente. E va
da sé che l’emozione, non essendo di per se stessa razionale, non ha bisogno
di considerare la realtà dei fatti. Segue una
carrellata, piuttosto confusa, che vorrebbe spiegare come il fascismo (noi lo
scriviamo minuscolo, signor Spirito delle masserizie), si rese colpevole di
violenze antislave (vengono citati l’incendio del Narodni Dom del 1920, il
cambiamento forzato dei cognomi e dei toponimi, l’impedimento di parlare nella
propria lingua, l’invasione della Jugoslavia nel 1941, i campi di internamento
per civili) e da ciò si arriva alla conclusione che gli “slavi”, di fronte
a questo fecero l’equazione “italiano = fascista”. Altra mistificazione
che serve a creare uno stato emozionale e non razionale, mistificazione diffusa
dalla propaganda antijugoslava e non corrispondente al vero, perché
l’Esercito di liberazione jugoslavo, così come i militanti antifascisti del
Fronte di liberazione (Osvobodilna fronta) accoglievano nelle proprie file
antifascisti di tutte le etnie, e le stesse direttive emanate da Edvard Kardelj
parlavano di “epurare non sulla base della nazionalità ma del fascismo”. In questo
modo anche la lettura dello scritto di una bambina che era stata internata ad
Arbe serve come apripista per ribadire quell’interpretazione fascista del
fenomeno delle “foibe” che risale ancora al 1943, dopo gli eventi istriani
post-armistizio: sentiamo come lo Spirito delle masserizie narra i fatti. Dopo
l’armistizio l’esercito italiano si sfalda, arrivano i nazisti e a Trieste
viene messo in funzione il lager della Risiera, ma non viene neppure accennato a
quante vittime costò il ripristino dell’“ordine” in Istria nell’ottobre
1943, quando le truppe nazifasciste rivendicarono di avere fatto dai diecimila
ai tredicimila morti (così i comunicati ufficiali apparsi sulla stampa
dell’epoca). E poi, senza che si comprenda la conseguenza temporale dei fatti:
“i partigiani slavi agli ordini di Tito scendono dalle montagne dell’interno
dove sono accampati e di città in città di paese in paese, di casa in casa
arrivano e arrestano i nemici del popolo”. Da questa
descrizione un ignaro spettatore si fa l’idea che durante tutta la guerra i
partigiani sarebbero stati “accampati in montagna” (a non fare niente, si
suppone) in attesa di “scendere” (è interessante come certo tipo di
propaganda insista sul fatto che i comunisti, i partigiani, gli “slavi” non
arrivano mai normalmente da qualche parte, ma “scendono”, “calano”,
“dilagano” e via di seguito) nelle città a dare la caccia ai “nemici del
popolo” (termine questo usato dalla propaganda anticomunista perché mutuato
dalle epurazioni staliniane, ma non usato dai partigiani). Mescolando
assieme, senza contestualizzarli, i due momenti delle esecuzioni sommarie,
quello dell’Istria del settembre 1943 e quello degli arresti del maggio 1945,
lo Spirito ipotizza che potrebbe essersi trattato di vendette verso i fascisti e
di vecchi rancori; ma quando “cominciano a sparire anche carabinieri, podestà,
guardie forestali, farmacisti, maestri, sacerdoti, impiegati statali”, i
“processi sommari e le esecuzioni di massa non risparmiano nemmeno cattolici,
antifascisti e persino comunisti”, e ci si mette a “colpire anche donne,
maestri, postini, antifascisti, gente che con la politica non c’entra
niente”, allora si domanda: perché tutto questo? Come al
solito, quando l’intenzione non è di ricostruire fatti storici, ma di
“emozionare”, è facile, partendo da un presupposto sbagliato, arrivare a
dimostrare un fatto non vero. Perché innanzitutto bisogna dividere i due eventi
di cui abbiamo parlato: nell’Istria del 1943 ci furono sì delle vendette
sommarie contro i rappresentanti del fascismo (piccoli gerarchi, in genere, non
gli alti papaveri), ma fu infoibato un carabiniere solo, nessun podestà, nessun
farmacista (perché poi allo Spirito sono venuti in mente proprio i farmacisti
fra tutte le possibili categorie professionali, forse perché la famiglia di
Luigi Papo, il futuro rastrellatore del 2° Reggimento MDT Istria,
gestiva a Montona una farmacia che sotto il fascismo veniva usata come luogo di
interrogatorio di partigiani?), sacerdoti uno (che sembra fosse un informatore
dell’Ovra). Poi va
ricordato che ai quei tempi le guardie forestali erano militarizzate e che gli
“impiegati statali” erano in genere funzionari del fascio, così come i
maestri erano coloro che intimidivano i bambini per impedire loro di parlare
nella propria lingua, e che le donne potevano essere fasciste esattamente come
gli uomini, così come potevano essere ausiliarie nelle forze armate. E se nel
1945 vi furono altre vendette personali, la maggior parte dei morti si ebbero
tra i militari internati nei campi (l’internamento in campi lontani dal luogo
di cattura era previsto dalle leggi di guerra, ed i militari italiani furono
internati anche in campi britannici e statunitensi, dove le condizioni di vita
non erano tanto migliori di quelle dei campi jugoslavi), mentre furono arrestati
coloro che erano stati segnalati come criminali di guerra; gli antifascisti
arrestati erano quei reparti del Corpo volontari della libertà italiani che si
erano opposti in armi all’esercito jugoslavo (che era un esercito alleato:
sarebbe accaduto lo stesso con il CVL milanese se si fosse opposto agli
statunitensi); infine, per quanto riguarda i partigiani “comunisti”, va
detto che vi furono anche un paio di esecuzioni (avvenute durante il conflitto)
sul motivo reale delle quali d’altra parte non si è mai ricostruita la storia
(ma fatti di questo genere avvennero in tutti i corpi della Resistenza, non solo
in Italia). Tutta questa
mistificazione (che dura da settant’anni) ha un preciso scopo, che nel testo
di Cristicchi (fatto per “emozionare”, ricordiamolo) viene così spiegato:
“forse perché gli italiani sono un ostacolo al Sogno (maiuscolo? n.d.r.)
di Tito di realizzare una sola grande regione e quindi annettersi anche le zone
a maggioranza italiana”, come Zara, l’Istria, Fiume, Trieste per creare
“una sola grande Jugoslavia”, dove la “lotta per la liberazione dal
nazifascismo giusta e sacrosanta” (bontà loro, n.d.r) qui “sembra un
mezzo per raggiungere l’obiettivo del confine all’Isonzo e quella che nel
resto d’Italia viene festeggiata come Liberazione qui prende le sembianze di
occupazione”. Come abbiamo
detto prima, per dimostrare una cosa inesistente (il “sogno della grande
Jugoslavia”) l’autore (Bernas? Cristicchi?) è partito da presupposti falsi
(l’eliminazione di chi non voleva la Jugoslavia), e riesce in tal modo a
diffondere dal palcoscenico dei teatri di tutta Italia (ma anche dell’Istria)
quelle teorie anti-jugoslave che fino a pochi anni fa erano peculiarità della
destra irredentista ma ora sembrano avere preso piede anche in ambienti
“antifascisti” e “di sinistra”. E così
arriviamo ad uno dei momenti più bassi (dal punto di vista artistico e civile)
dello spettacolo: quando Cristicchi si avvolge un fazzoletto rosso attorno al
collo e declama “per realizzare il sogno della grande Jugoslavia bisogna solo
dare un calcio allo stivale” ed a questo punto parte il coro dei bambini che
cantano la canzone della foiba, “Dentro la buca” (“un colpo alla nuca e giù
nelle buca”, davvero delle parole adatte da far cantare a dei ragazzini). Viene poi
data la parola ad un certo Domenico, “staffetta del Regio Esercito”, si
presenta, “praticamente un postino” (un militare in guerra sarebbe un postino?
se questa non è manipolazione, come la vogliamo chiamare?), che sarebbe stato infoibato ancora
vivo assieme a tantissimi altri, recuperato da una foiba… no, non lo sa da che
foiba sarebbe stato recuperato perché ce ne sono 1.700 in Istria (i recuperi
verbalizzati si riferiscono a molte meno foibe, lo diciamo per tranquillizzare
gli spettatori: il maresciallo dei Vigili del fuoco di Pola, Arnaldo Harzarich,
dichiarò agli Alleati di avere esplorato dieci foibe istriane tra l’autunno e
l’inverno 1943-44, dalle quali furono estratte 204 salme ed indicò altre
cinque foibe dalle quali non fu possibile effettuare recuperi). Come Domenico
sarebbero stati infoibati Luigi, Tonin, Giovanni, Norma… e qui parte la storia
di Norma Cossetto, con le consuete falsità che vi sono state ricamate attorno
negli anni, in base ad una inesistente testimonianza di una donna, mai
identificata, che avrebbe assistito alle violenze. Nomi e
cognomi degli scomparsi stanno scritti ci spiega Persichetti (che non ha detto i
cognomi degli infoibati chiamati per nome, né nell’elencare le categorie
degli uccisi ha fatto nomi: perché è uso consolidato, quando si parla di
questi argomenti di generalizzare, e teniamo a mente che non è
scopo di Cristicchi, come non lo era di Bernas, “fare storia”), per poi
contraddirsi dicendo che non si saprà mai quanta gente è sparita in questo
modo; si parla genericamente di persone “uccise in tempo di pace” termine
che può significare tutto e niente, perché le vendette personali proseguirono
per anni in tutta Europa, così come le condanne a morte eseguite dopo i
processi ai criminali di guerra furono fatte “in tempo di pace”, basti
pensare a Norimberga. Viene citata a questo punto la dichiarazione fatta da
Milovan Gilas in un’intervista, pochi anni prima di morire, di essere stato
incaricato assieme a Kardelj di andare in Istria per mandare via gli italiani
con ogni mezzo. Considerando che Gilas era diventato “dissidente” già negli
anni ’50, tale affermazione, fatta a tanti anni di distanza, lascia il tempo
che trova, innanzitutto perché non ha alcun riscontro documentale, e poi perché
il governo jugoslavo riconobbe alla comunità italiana tutte quelle garanzie che
abbiamo descritto in precedenza. Poi si parla
della strage di Vergarolla del 18/8/46 (della quale non vi è alcuna prova che
si sia trattato di un attentato e tanto meno di un attentato organizzato per
“terrorizzare” gli italiani), come motivo per cui quel giorno “la
maggioranza degli italiani che abitava a Pola scelse come l’unica via
l’esodo”. Però noi leggiamo sulla Voce del popolo del
5/4/08 che tre settimane prima della strage il CLN di Pola “aveva raccolto
9.496 dichiarazioni familiari scritte, per conto di 28.058 abitanti su un totale
di 31.000, di voler abbandonare la città se questa dovesse venir assegnata alla
Jugoslavia”: il che dovrebbe dimostrare che “l’esodo” era già stato
deciso prima della tragedia. Interessante
il punto in cui si sente dire che “tutta l’Istria è occupata dai titini”
già prima della firma del Trattato di pace “firmato dai potenti della
Terra” (togliendo l’emozione, più prosaicamente, si trattava delle
potenze che si erano alleate contro la guerra scatenata dall’Asse, Germania,
Italia, Giappone) che “consegna alla Jugoslavia un’intera regione
italiana”, come “prezzo che l’Italia deve pagare per essere uscita
sconfitta dalla seconda guerra mondiale”. Una riflessione sul fatto che
l’Italia avrebbe anche potuto non dichiarare guerra al mondo intero assieme al
suo alleato tedesco? Naturalmente no, perché non è di queste emozioni che si
occupa uno Spirito delle masserizie. Ed ancora
notiamo come si parli sempre di “titini” e non di Esercito jugoslavo:
sentiamo mai parlare di “churchilliani” a proposito dei britannici o di
“hitleriani” a proposito dei nazisti? È tanto difficile riconoscere alla
Jugoslavia di essere stata uno dei Paesi alleati nella lotta contro il
nazifascismo? Certamente, perché se le si riconoscesse questo ruolo si dovrebbe
anche riconoscere che l’Esercito jugoslavo aveva il diritto e l’autorità di
fare prigionieri i militari nemici e di arrestare i presunti criminali di guerra
per sottoporli a processo, così come fecero gli eserciti delle altre nazioni
alleate. E quindi crollerebbe anche tutta la costruzione dei crimini jugoslavi
rivolti contro gli innocenti italiani. Altro punto
interessante è che il diritto di conquista militare viene riconosciuto per
l’Italia che aveva annesso i territori occupati militarmente dopo la prima
guerra mondiale, anche quelli dove non vivevano italiani; mentre lo stesso
discorso non sembra valere per la Jugoslavia, che anzi a seguito del Trattato di
pace rinuncerà a zone che aveva conquistato militarmente. Persichetti
poi parla della partenza dall’Istria e della miseria dei campi profughi:
“pensi che voleva di’ passà da una casa magari co vista mare… ad un
casermone di cemento armato in periferia o a un ex campo di concentramento!”,
dice al suo superiore romano. I campi profughi non sono mai piacevoli, è vero,
è così è una tragedia quella della bambina morta di freddo nel comprensorio
di Padriciano, ma si rende conto il narratore di quanti italiani in Italia,
nell’immediato dopoguerra, avrebbero fatto firme false per avere un
appartamento in un “casermone di cemento armato in periferia” invece di
continuare a vivere nelle baracche o negli appartamenti privi di servizi
igienici che erano la norma e non l’eccezione a quei tempi? Non tutti gli
esuli istriani abbandonarono la “casa con vista mare” (ed anche questa
spesso era un appartamentino privo di tutto) ma provenivano da condizioni di
vita di miseria, come la maggior parte della popolazione d’Europa prima del boom economico
e dopo essere uscita da una guerra disastrosa. Si passa poi
all’elenco di una serie di esuli “diventati famosi”, tra cui Alida Valli
(che però viveva a Roma già prima della guerra, dato che Cinecittà si trovava
lì e non a Pola, ma questo particolare evidentemente è sfuggito agli autori);
una canzoncina è dedicata ai “rimasti”, descritti come disprezzati da
tutti, ma alla fine “ancora italiani” com’erano sempre stati (altra
contraddizione che non pare preoccupare gli autori: se vi furono dei
“rimasti” e “rimasti italiani” vuol dire che non si era
“svuotata una regione intera”, che non si aveva paura di
parlare italiano, che non c’era alcuna manovra politica per
far andare via gli italiani dall’Istria). Alla fine
arriviamo all’altro momento bassissimo dello spettacolo, quando Persichetti,
dirigendo il coro dei bambini, prende in giro gli operai che da Monfalcone si
erano recati in Jugoslavia per dare una mano a ricostruire le infrastrutture
distrutte durante la guerra e per partecipare alla realizzazione di una società
socialista dopo vent’anni di fascismo. Alcuni di essi rimasero vittime dello
scontro tra Tito e Stalin, quando molti filosovietici (che erano però per la
maggior parte jugoslavi, e molti dei quali avevano commesso omicidi ed attentati
contro il proprio governo) furono internati nell’isola di Goli Otok. Si tratta
indubbiamente di una pagina buia della storia jugoslava, che però avrebbe
dovuto essere affrontata diversamente, proprio per la sua tragicità, e non
mediante lo spregio di coloro che avevano creduto in un ideale e coerentemente
avevano cercato di realizzarlo. Infine il burino Persichetti
dice allo Spirito delle masserizie che giocherà al lotto il numero 18
(spiegando che nella Smorfia tale numero significa “sangue”, sempre per emozionare il
pubblico?) e che lui archivia tutto, tranne una lettera inviata alla figlia del
proprietario di alcuni mobili rinvenuti, la quale aveva chiesto notizia delle
masserizie dei suoi genitori che non li avevano mai “reclamati indietro”. Il
che dovrebbe stroncare tutto il plot su cui si basa questo
spettacolo: i mobili sono stati abbandonati dagli stessi proprietari,
evidentemente perché non ne avevano più bisogno o sarebbe stato troppo
complicato farseli mandare nel luogo in cui erano andati a vivere. Cosa del
resto confermata da Piero Delbello in un articolo apparso sul Piccolo del 24
gennaio scorso: nel Magazzino 18 sono conservate “più o meno la metà delle
cose che arrivarono subito dopo la guerra dall’Istria, ma che negli anni
successivi dalle Prefetture di più città d’Italia continuarono a essere
inviate nel capoluogo giuliano. Fatte arrivare dalle varie ditte di spedizioni
nelle località di destinazione delle famiglie che ne erano proprietarie, in più
casi rimasero nei depositi. Senza che nessuno più le reclamasse. E dunque
furono fatte infine convergere in Porto Vecchio, dove oggi occupano una parte
del primo piano del 18”. In pratica si
tratta di oggetti che agli esuli (od optanti che dir si voglia) una volta giunti
nella città di destinazione, non interessava di conservare, per cui li hanno
abbandonati. Cosa comprensibile per i mobili, che forse non potevano trovare
posto nelle nuove case consegnate, ma perché non reclamare almeno gli oggetti
di famiglia, le fotografie, i quaderni? Quale valore simbolico si vuole
attribuire a delle che sono state abbandonate perché i loro proprietari se ne
sono disinteressati, non sequestrate né rapinate; e con quale sentimento questo
materiale viene paragonato ai magazzini dove venivano accatastate le cose rubate
ai prigionieri assassinati ad Auschwitz? Alla fine di
tutto si parla delle vittime dell’una e dell’altra parte, e l’autore
conclude “io non ho un nome ma potrei averne milioni. Come i profughi di tutto
il mondo, costretti a lasciare la propria terra, per sfuggire alla povertà,
all’odio, alla guerra”. Ecco, se
Cristicchi fosse partito da queste due belle, significative frasi, ed avesse
parlato delle tragedie degli esodi, di tutti gli esodi, senza pretendere di fare
storia su un evento specifico (asserendo peraltro di non volerla fare), avrebbe
potuto realizzare uno spettacolo di indubbio interesse, emozionando (in questo
caso positivamente) e coinvolgendo lo spettatore. Invece il risultato di questa
sua ambizione ha prodotto uno spettacolo di propaganda, in quanto il suo intento
di creare emozione è degenerato nel voler creare piuttostosuggestione,
fornendo agli spettatori dati falsi da cui trarre conclusioni errate. Come opera di
propaganda Magazzino 18 è indiscutibilmente riuscito molto
bene: ma per chi come noi ha studiato e conosce la storia di queste terre,
vederla stravolta in questo modo allo scopo di denigrare il movimento
internazionalista ed antifascista jugoslavo, è francamente intollerabile; ed
inoltre, considerando il modo in cui è stato sponsorizzato, a livello
mediatico, questo spettacolo, fa sorgere il dubbio che si tratti di
un’operazione studiata a tavolino che può rivelarsi molto pericolosa per gli
equilibri delicati del confine orientale. Le citazioni
sono tratte da “Magazzino 18 di Simone Cristicchi, regia di Antonio Calenda,
testo completo dello spettacolo + CD”, I Quaderni del Teatro, edizioni Il
Rossetti – Promo Music, Trieste dicembre 2013. 31 gennaio
2014 BIBLIOGRAFIA. CERNIGOI
Claudia, Operazione foibe tra storia e mito, Kappa Vu 2005. COLUMMI
Cristiana (e altri), Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto
regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia,
Trieste, 1980. CONTI Davide, L’occupazione
italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente”
1940-1943,Odradek 2008. GOBETTI Eric, L’occupazione
allegra, Carocci 2007. MICHIELI
Roberta – ZELCO Giuliano, Venezia Giulia la regione inventata,
Kappa Vu 2008. PIRJEVEC Jože, Foibe,
Einaudi 2010. PURINI Piero, Metamorfosi
etniche, Kappa Vu 2010. SCOTTI
Giacomo, Goli Otok, LINT 1991. VOLK
Alessandro, Esuli a Trieste, Kappa Vu 2004 |
28 gennaio 2014 | redazione |
Magazzino 18 | |
“Magazzino
18” Recensione sullo spettacolo Lo spettacolo non è piaciuto, sotto vari punti di
vista: artistico, storico-culturale e morale. Ha confermato purtroppo in modo
ancor più deludente le aspettative, senza dubbio influenzate dalla serie di
impressioni ed opinioni maturate nel corso dei mesi scorsi, durante la
promozione dello stesso. Promozione durante la quale si sono succedute
corrispondenze e brevi confronti con Simone Cristicchi (coautore) ed altri suoi
collaboratori, non sempre purtroppo adeguatamente argomentati. Nonostante ciò, ci si è sforzati di assistere alla
rappresentazione in modo “imparziale”, immersi nel coinvolgimento della sala
e del momento. Lo spettacolo è risultato noioso, pesante e capzioso.
In una scenografia statica che forse non rende il movimento proprio della
drammaticità di una migrazione, qual vorrebbe raccontare. Apre e chiude la
scena “lo spirito delle masserizie”, che piace evidentemente tanto agli
autori, forse per il tocco di esoterismo e di indubbia matrice borghese, di cui
viene accentuata una legittima nostalgia dei beni materiali a cui si dà
un’anima, che da un lato personalizza con un certo individualismo le perdite,
però poi nello spettacolo la tragedia e la sfortuna di chiunque diventa la più
grande tragedia di tutti. Una diffusa, abile e pericolosa arte della
generalizzazione, che tradisce però il bisogno di obiettività storica, di cui
lo spettacolo stesso intende farsi portavoce, come si evince in vari momenti
della sua rappresentazione. I testi dei dialoghi appaiono miseri, tendenti al
patetico, inseriti in un monologo in cui il cantautore/attore si destreggia non
male, con buona interpretazione, dei vari ruoli, ma dimostra più di un’
incertezza, specie laddove sembra siano state apportate modifiche, rispetto alle
repliche in Istria e a Trieste. Con il tono sarcastico ed il tentativo di
sdrammatizzare alcune vicende, il distratto archivista Persichetti
dall’accento romano (e non romanesco) non alleggerisce nulla, ma ha
l’effetto di rendere forse banali e riduttivi i delicati temi trattati. Non
compaiono altri attori sulla scena. Stavolta non sono fisicamente sul palco i
bambini che cantano “la buca” (testo violento, evocante le uccisioni nelle
foibe, con il colpo in testa) e che accompagnano in coro, con un bastone in
mano, “noi siam la classe operaia”, nel racconto della vicenda dei
lavoratori Monfalconesi. L’immagine sfocata dei minori che cantano è
proiettata su un grande schermo calato sullo sfondo. Sul palco fa ingresso
soltanto una bambina, nella rievocazione della tragedia sulla spiaggia di
Vergarolla, a seguito dello scoppio delle mine insabbiate in tempo di guerra (ma
insabbiate da chi? non viene detto). La bambina è tenuta in braccio dal
protagonista dopo la morte scenica, a mo’ di pietà religiosa. Il racconto di
questa strage di civili nello spettacolo è in fila alle rappresaglie
antifasciste per mano jugoslava, si richiama la sua natura di attentato, che si
allude di origine partigiana. Nella realtà, non si conoscono i mandanti. La Jugoslavia di Tito e dei “partigiani con la stella
rossa” (così il protagonista li richiama spesso) ne escono demonizzati, non
c’è alcun dubbio. Il peggior comunismo della storia appare quello di Tito. È
dichiarato piuttosto esplicitamente quando si accenna all’uscita della
Jugoslavia dal COMINFORM. Vicenda storico-politica complessa su cui lo
spettacolo ironizza, semplifica e non argomenta abbastanza. Tale lettura è dimostrata dal fatto che il
protagonista riporta una “testimonianza storica” quale la presunta
confessione di un collaboratore di Tito, Milovan Gilas, identificato come
il suo braccio destro, che lo accusa di aver dichiaratamente fatto propaganda
anti-italiana, ordinando la cacciata dalle terre d’Istria, per il progetto di
invasione della grande Jugoslavia. Di qui, le accuse di pulizia etnica addossate
ai partigiani di Tito, come gli unici colpevoli degli orrori delle foibe e delle
stragi della rappresaglia antifascista, secondo un piano di strategia del
terrore, ampiamente richiamato nello spettacolo. Ma quali sono le fonti? È anche per questo, che l’obiettivo dello
spettacolo, mascherato da una veste che pretende di essere equilibrata per il
solo fatto di introdurre in non più di dieci minuti l’antefatto fascista,
citando i campi di concentramento in Italia come Rab e richiamando con buonismo
le vittime (come la bambina slovena) di tutte le guerre, risulta invece di
evidente sapore nazionalista, antipartigiano e anticomunista. Non può pertanto
vantare oggettività storica e imparzialità politica, poiché alcune delle
parti in causa, ne escono offese e snaturate e questo può ricevere consensi, ma
non è intellettualmente onesto In questa rappresentazione a Roma, differendo da
precedenti, all’antifascismo è fatta qualche concessione in più. Non è
stato riproposto il commento di sdegno e di biasimo dato alla voce degli esuli,
rivolto all’ex Presidente Sandro Pertini, in occasione del riconoscimento
degli onori ai partigiani jugoslavi ed al Presidente e generale Tito. Sono state
invece introdotte delle parti di testo, anche a seguito di corrispondenza
polemica con membri dell’ANPI e dell’associazione CNJ onlus. Viene citata
l’invettiva di Mussolini: “Di fronte ad una razza inferiore e
barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo
zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell'Italia devono essere il
Brennero, il Nevoso e le Dinariche [” parafrasando e rendendo il
concetto di evidente razzismo con l’espressione: “per ogni dente italiano
una testa slava” e poi ironizzando sul mito “Italiani Brava gente”, a cui
si allude con un connotazione fortunatamente condivisibile. Verso la fine si
parla dei “rimasti” in Istria, considerati le vittime per eccellenza sia
degli italiani fascisti che degli slavi comunisti titini. Ma, il biasimo più
grande viene reso a Tito, estrapolando e interpretando un suo discorso
sull’accoglienza e sul rifiuto del riconoscimento della condizione di esuli ai
“dirigenti fascisti”, additandolo di paradossale intolleranza, nutrita (e
non è vero) verso tutti gli esuli. I “rimasti” in Istria, appaiano i
disadattati nel regime comunista jugoslavo o gli accusati di fascismo; è
proprio così? E quindi accade che, anche la citazione sopra riportata
di Mussolini riguardante gli Slavi, nel corso dello spettacolo sembra far gioco
alla legittimazione del giudizio di barbarie e crudeltà delle truppe partigiane
titine, che risultano incriminate di tutte le tragedie personali rappresentate,
come la storia di Norma stuprata e buttata nelle foibe, la storia del postino,
che risale la buca, la storia dell’attentato di Vergarolla, la storia della
bambina che muore di freddo nel campo profughi di Patriciano, la storia dei
Monfalconesi portati nel campo di prigionia di Goli Otok, le rappresaglie
violente antifasciste, la storia dell’esodo della famiglia di Ferdinando
Biasol e delle sue “cose” nel Magazzino 18, al Porto Vecchio di Trieste. Uno degli azzardi più impropri è il paragone tra gli
emigranti italiani del dopo guerra e gli esodati istriani, dove viene
evidenziata la diversa condizione dei primi motivati secondo gli autori, solo
dal sogno “dell’andar a cercare fortuna” e dei secondi, cacciati dalla
loro terra dalle politiche di conquista della “Grande Jugoslavia”. Questa
approssimazione non rende verità storica e umana né agli uni né agli altri;
è infatti nota la disperazione, la povertà di base degli emigranti italiani
del dopo guerra, e la realtà delle politiche di economia industriale del Piano
Marshall. Così come è noto e documentato che le ondate degli esodi degli
Istriani hanno avuto carattere diverso, e contava fascisti militanti, borghesi
regnicoli e Italiani meno abbienti, spinti dalla miseria. Lo stesso protagonista
dello spettacolo restituisce invece immagini di molti degli esuli che perdono le
loro belle case con panorama sulle sponde dell’Adriatico dell’Istria, per
migrare in Italia. Forse, i paragoni non sono così semplici… Le condizioni di
partenza e le ragioni non sono sempre uguali e tanto meno i risvolti. L’Istria viene commemorata come terra Italiana da
sempre. E quindi trova consensi emotivi tra i molti disinformati (loro malgrado)
che ascoltano e rivivono legittimamente vicende proprie o riportate. I vissuti
sono preziosi, ma la storia non dovrebbe mentire e dovrebbe interpretarli con un
certo distacco per rispettarli. Lo spettacolo mostra quindi, purtroppo, ignoranza
storica e politica, con vari momenti propagandistici. Come la vicenda dei 2000
Monfalconesi che il protagonista definisce “in controesodo” ridicolizzati
sulla scena, col fazzoletto rosso sventolato ironicamente ed il bastone… perché
partono per la Jugoslavia mossi dall’ideale del socialismo comunista e poi
invece vengono spediti a Goli Otok, per l’espulsione del “Tito eretico”
dal Cominform: così viene definito dal protagonista interpretato da Cristicchi,
in tono ambiguo tra il sarcastico e l’accusatorio. E che ruolo viene dato ai numeri e alle fonti della
storia? nello spettacolo si parla dell’importanza dei dati, ma si citano solo
questi numeri: 350.000 esuli, 10 campi profughi, 28 morti a Vergarolla, 2000
Monfalconesi in controesodo, spediti a Goli Otok. Sui dati degli infoibati si
ironizza, si sposta il piano del giudizio, evidenziando che gli storici giocano
sui numeri, da cinquecento a svariate migliaia, ma che ciò non ha importanza,
di fronte alle tragedie umane. Ma non è l’archivista Persichetti al telefono
con l’Ufficio esuli del Ministero degli Interni ad affermare che i dati sono
importanti? Si fa un uso molto scenico, di questi dati (ammesso che siano
esatti), quando servono li diciamo, quando no, meglio tacere. Artisticamente è
legittimo, storicamente no. Perciò il rischio di mistificazione è facile e lo
spettacolo non si esime, nella sua promiscuità di piani su cui viene affrontata
una vicenda complessa e dibattuta. E così l’esodo degli Istriani è definito
in esso come un fenomeno di proporzioni “bibliche”, varie volte, come “uno
dei più grandi mai accaduti” e la violenza delle foibe un’atrocità di
dimensioni improprie, perché non dimostrate. L’ultima scena dello spettacolo: una decina di sedie
in fila alla ribalta, dove vengono fatti sedere gli spiriti di alcuni personaggi
famosi che appaiono anch’essi vittime dell’esodo, come il cantautore Sergio
Endrigo, l’attrice Laura Antonelli, Alida Valli, perché ovviamente, qualche
nome noto fa comodo spolverarlo per rafforzare il messaggio ed i consensi. Tali
personaggi siedono accanto agli spiriti dei protagonisti delle storie più
tragiche raccontate, vissuti per i quali non si ha la percezione di ciò che è
“autentico” e di ciò che è romanzato. Per concludere, lo spettacolo sembra sortire il suo
scopo, che appare quello di un’operazione politica ben commercializzata,
un’opera su commissione. Ma di chi e perché? Una propaganda demagogica poco
intelligente ed alquanto populista, che fa leva sull’ignoranza ma soprattutto
spera forse nella pigrizia di un pubblico variegato, anche di intellettuali di
parte, che probabilmente non si andrà mai a verificare criticamente la storia
rappresentata e qui giudicata, ma comodamente tornerà a casa e soprattutto
nelle scuole, a dire ai propri figli che finalmente qualcuno racconta delle
verità storiche nascoste dai comunisti per 70 anni. E non funziona così,
proprio no. Ma fortunatamente c’è anche chi, con un po’ più di senso critico, non
vorrebbe trovarsi questo “spettacolo dei sentimenti” o delle “emozioni”
(definizione dell’autore Cristicchi) come bibliografia o come capitolo dei
libri di storia dei nostri figli di oggi e di domani, dove fascisti e
antifascisti si minestrano troppo superficialmente, favorendo distorsioni
storiche e politiche gravi. Le distorsioni alimentano non verità e
conflittualità, e soprattutto non restituiscono di certo giusta commemorazione
e rispetto ai vissuti dolorosi di chi non c’è più, o di chi è sopravvissuto
ed in una storia più onesta può al limite sperare, per meglio elaborare e
trovare un po’ di pace. Samantha Mengarelli Stefano Crippa, 27.12.2013 Teatro. Il monologo, con la regia di Antonio Calenda, a rischio di
revisionismo |
9 giugno 2010 | redazione |
recensione | |
Contro
il revisionismo. Un
documento storico, ricco di insegnamenti
|
11 marzo 2007 | redazione |
recensioni | |
La
Rivoluzione d'Ottobre
|
10 marzo 2007 | redazione |
rcensioni | |
Il dossier nascosto del "genocidio" di Srebrenica IL CORRIDOIO |
1 marzo 2006 | redazione |
Un bel tacer non fu mai scritto | |
IL
MANUALE DI AUTODIFESA POLITICO-LEGALE "Il
terrorismo degli Stati Uniti contro Cuba" |
29 giugno 2005 | redazione |
Trame nere | |
TRAME
NERE |
30 giugno 2005 | redazione |
Un altro punto di vista | |
STALIN,
UN ALTRO PUNTO DI VISTA |
30 giugno 2005 | redazione |
Consigli ai genitori | |
Consigli
ai genitori |
jetster was been here !!!!!!!!!!!!!!!! | jetster was been here !!!!!!!!!!!!!!!! |
jetster was been here !!!!!!!!!!!!!!!! | |
jetster was been here !!!!!!!!!!!!!!!! |
5 gennaio 2005 | redazione |
"il cuore nel pozzo" | |
IN MERITO AL FILM "IL CUORE NEL
POZZO" I polemici sostengono che la
televisione è l’arma finale del dottor Goebbels. Noi non ci sentiamo di
essere così perentori, però è un dato di fatto che dire “l’hanno detto in
tivù” dà una patente di veridicità alle fesserie più enormi. Ed è pure un
dato di fatto che, quando si vuole influenzare in un determinato modo la
coscienza collettiva argomenti specifici, il modo migliore per ottenere il
risultato voluto è quello di far passare in televisione ciò che si vuole far
entrare nella testa della gente. Ed a questo scopo, un “buon” sceneggiato
(adesso lo chiamano “fiction”, che fa più “americano”) è il sistema
perfetto per plagiare la testa della gente. |
5 gennaio 2005 | redazione |
l'era di Stalin | |
L’ERA
DI STALIN L’era
di Stalin
è un libro
utile per conoscere in “presa diretta” la realtà quotidiana, le
contraddizioni, i problemi, le finalità di quella straordinaria avventura che
è stata la costruzione del socialismo in Unione Sovietica ad opera del
Partito Comunista bolscevico guidato da Stalin. L’era
di Stalin, Anna Louise Strong
|
1 marzo 2004 | biblioteca |
recensione | |
La generazione degli anni
perduti |
2 gennaio 2004 | ufficio stampa |
Gramsci storico | |
GRAMSCI
STORICO – UNA LETTURA DEI “QUADERNI DEL CARCERE" Nel
testo l’Autore ricostruisce il percorso di analisi storica dei Quaderni
del carcere di Gramsci relativo all’ascesa e alla crisi della “società
moderna”, fino al dispiegarsi dei regimi fascisti del dopoguerra. L’A.
evidenzia alcuni punti di particolare rilievo, nella riflessione
storico-politica gramsciana, per l’interpretazione della crisi politica del
tempo e che può meritare anche un nostro approfondimento per le diverse
analogie con la situazione attuale. In sostanza viene evidenziata l’analisi
dialettica, che Gramsci conduce, analizzando la funzione moderna dello Stato, la
crisi insita nello stesso sviluppo dell’egemonia borghese e del relativo
sistema di produzione capitalistico, nonché le dinamiche conflittuali e
contraddittorie che hanno accompagnato tutto lo sviluppo storico della società
moderna.Sarà pertanto opportuno tornare in seguito sul testo per una
discussione su queste tematiche. |
30 gennaio 2004 | ufficio stampa |
la lotta di classe | |
1970-1983 È in distribuzione il lavoro di
Michele Michelino. Una raccolta di materiali che rappresentano una selezione di
quanto prodotto dal Consiglio di fabbrica della Breda Fucine, a partire dal
1971, e dalla quale si evidenzia la linea “conflittuale” del sindacato prima
della svolta dell’Eur, fino al materiale prodotto dal Gruppo operaio Breda e
dal Coordinamento operaio di Sesto San Giovanni nel periodo 1976-1983. Anche se
molto materiale dell’epoca è andato distrutto o disperso. Alcuni volantini
fatti “a caldo” nei reparti sono stati strappati dalle guardie aziendali,
dai “censori” del Pci e del sindacato, altri sono stati sequestrati durante
le perquisizioni dell’antiterrorismo e della Digos. |